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scultore, pittore e incisore italiano (1889-1947) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Arturo Martini (Treviso, 11 agosto 1889 – Milano, 22 marzo 1947) è stato uno scultore, pittore e incisore italiano.
Nasce in una famiglia disagiata, terzo dei quattro figli di Antonio, cuoco di professione, e Maria Della Valle, cameriera originaria di Brisighella.
Espulso dalla scuola nel 1901, a causa di ripetute bocciature, diviene apprendista presso un'oreficeria a Treviso e subito dopo frequenta la scuola di ceramica (collabora in particolare con la Fornace Guerra Gregorj) dove apprende la pratica artigianale del modellare[1]. Affascinato da questa tecnica inizia a frequentare lo studio dello scultore Antonio Carlini a Treviso e contemporaneamente frequenta il primo anno (1906-07) dell'Accademia di belle arti di Venezia. Riesce ad ideare una nuova tecnica incisoria di tipo calcografico che lui stesso denomina cheramografia.[senza fonte] A questo periodo risalgono le sue prime opere conosciute: il Ritratto di Fanny Nado Martini, in terracotta (1905) e il Busto del pittore Pinelli, che si rifanno alla scultura di fine Ottocento.
Nel 1908 a Venezia partecipa alla prima edizione delle mostre di Ca' Pesaro con la piccola scultura il Palloncino.[2] Le sue invenzioni e la sua fantasia plastica gli consentiranno ben presto di acquisire fama e notorietà a livello internazionale, assumendo un ruolo predominante nel panorama artistico europeo di cui era ben consapevole[3].
Interessato ai movimenti artistici europei, frequenta nel 1909 a Monaco la Scuola di Adolf von Hildebrand. Nel 1912 si trasferisce per alcuni mesi a Parigi, dove approfondisce la conoscenza del cubismo e delle avanguardie e dove espone al Salon d'Automne.
Partecipa all'Esposizione Libera Futurista Internazionale, tenutasi a Roma tra aprile e maggio del 1914, con il Ritratto di Omero Soppelsa, considerato un omaggio al Futurismo. Negli stessi anni collabora con la rivista futurista L'Eroica, dedicata ai temi dell'arte, della letteratura e della xilografia. Interrompe forzatamente la sua attività a causa della guerra, a cui partecipa.
Si avvicina quindi alla grafica astratta e nascono i primi abbozzi del suo libro d'artista Contemplazioni[4]. Il libro presenta, in luogo del testo, una sequenza di segni geometrici[5].
Nell'aprile del 1920 sposa Brigida Pessano, di Vado Ligure, luogo in cui si stabilirà per alcuni anni. Dal loro matrimonio nascono Maria Antonietta (1921) e Antonio (1928). Questo è il periodo in cui realizza L'Amante morta, Fecondità e Il Dormiente[6].
Tra il 1918 e il 1922 collabora con Mario Broglio alla rivista Valori Plastici, aderendo all'omonimo movimento artistico[7]. Grazie a questa esperienza riscopre la scultura antica [8], superando così il naturalismo ottocentesco al quale era ancora legato. Tra le opere di rilievo di questo periodo si ricordano La Maternità (1925) e Il Bevitore (1926), quest'ultima è un'opera in terracotta custodita alla Pinacoteca di Brera[9].
Nel 1925 è invitato ad esporre in una sala alla III Biennale Romana. Nel 1926, dopo i precedenti rifiuti, partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia. Nello stesso anno espone alla prima mostra del movimento Novecento; sarà presente anche alla seconda edizione del 1929 con la scultura Il Figliol prodigo (1926). Nel novembre 1927 inaugura una personale di ceramiche a Milano alla Galleria Pesaro.
In quest'ultimo periodo definisce la sua arte che si traduce in un ideale punto d'incontro tra antico e moderno.
Nel 1928 realizza grandi opere come La Pisana, Il bevitore e la monumentale (quattro metri) Tomba di Ippolito Nievo.
Nel 1929 viene chiamato alla cattedra di plastica decorativa dell'ISIA di Monza e vi rimane fino all'anno successivo: la sua Leda col cigno, scultura in gesso, è rimasta ad arricchire la raccolta dei Musei civici monzesi[10].
Allestisce, nel 1930, uno "studio-forno" nello stabilimento dell'Ilva Refrattari, a Vado Ligure, dove può modellare e cuocere le terrecotte senza doverle spostare. Crea così una serie di grandi opere, come Il Pastore e Il Ragazzo seduto (1930), Il Sogno (1931), Chiaro di Luna e Sport Invernali (1931-32), opere in cui «l'allusione al movimento che sembra irrigidirsi nella forma»[11]. Nel 1931 riceve un premio di centomila lire alla Prima Quadriennale di Roma, somma che gli permette di risolvere temporaneamente i diversi problemi economici che lo avevano sempre tormentato. Nel 1932 ha una sala personale alla Biennale veneziana, da cui ottiene un vasto successo[12].
Nel 1933 si stabilisce a Milano e tiene una personale alla Galleria d'Arte Moderna. In questo periodo sperimenta l'utilizzo di nuove tecniche espressive come il legno, la pietra, la creta ed il bronzo, lo si vede infatti partecipare regolarmente alle grandi esposizioni nazionali: alla Biennale di Venezia (1934-36-38), alla Triennale di Milano (1933-36-40) e alla Quadriennale di Roma (1935-39).
Realizza in questo periodo numerose sculture monumentali tra cui il gigantesco gesso Mosè salvato dalle acque, alto sei metri, esposto alla Triennale di Milano nel 1933; La sete (1934), in pietra, dove riemerge il ricordo dei calchi di Pompei; il bronzo di Athena (1935), alto cinque metri; I morti di Bligny trasalirebbero (1936), ispirato al discorso di Mussolini contro le sanzioni economiche imposte all'Italia dopo l'occupazione dell'Etiopia del 1935; Il Leone di Giuda (1936), dedicato alla vittoria sull'Etiopia; La Giustizia Corporativa, destinata al Palazzo di Giustizia di Milano; Il Gruppo degli Sforza (1938-39), opera destinata all'Ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano.[13]
Negli anni 1939 e 1940 inizia a dipingere. Nel 1940 espone con successo le sue opere alla Galleria Barbaroux. Scrive, nel febbraio 1940, in alcune lettere indirizzate a Carlo Anti, rettore dell'Università degli studi di Padova: "Io farò assolutamente il pittore […] la mia conversione non è un capriccio, ma è grande e forte come quella di Van Gogh"[14] e ancora "Sono felice, la pittura mi diverte e mi dà altre speranze che ormai la scultura non mi dava più"[15]
Realizza tra il 1940-42 per il Palazzo dell'Arengario di Milano alcuni altorilievi: Il Tito Livio e La donna che nuota sott'acqua. In queste opere si muove verso una sempre maggiore libertà espressiva, convinto della necessità di superare la statuaria e che la scultura "se vuol vivere, deve morire nell'astrazione"[16]. Riprenderà questo tema nei suoi Colloqui sulla scultura[17].
Dal 1942 al 1944 è a Venezia, dove insegna scultura all'Accademia di belle arti. Nell'estate del 1945 viene sospeso dall'insegnamento per aver aderito al fascismo. Rispetto a questa scelta aveva scritto: "Siccome morivo di fame con il giolittismo, ho creduto a questo movimento, cioè al fascismo."[18]
A conclusione della sua carriera artistica riceve la commissione per la statua dell'eroe virgiliano Palinuro (1946) per l'Università degli Studi di Padova; realizza anche il monumento funebre dedicato a un partigiano caduto, il Monumento al partigiano Masaccio (1947). Infine progetta un'appendice al libretto La scultura lingua morta, comunicando i suoi pensieri allo scrittore Antonio Pinghelli, che li pubblicherà postumi, nel 1948, con il titolo Il trucco di Michelangelo.
Muore a Milano il 22 marzo 1947, colpito da paralisi cerebrale[19].
Già nel 1948, gli viene tributato un omaggio postumo alla V Quadriennale di Roma. Nel 1967 la grande mostra monografica, allestita su progetto di Carlo Scarpa nel Convento di Santa Maria a Treviso, spinge l'amministrazione ad acquisire il Complesso di Santa Caterina, oggi sede principale dei Musei civici di Treviso. A lui sono dedicate numerose scuole italiane, tra le quali la scuola media statale di Santa Maria del Rovere a Treviso e il Liceo Artistico di Savona.
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