scrittore e giornalista britannico Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Tim Parks (1954 – vivente), scrittore e giornalista britannico.
Forse il sistema italiano non è il modo peggiore di gestire la vita, dopotutto.[1]
Il pignolo è convinto che tutti gli altri siano furbi; il furbo che tutti siano pignoli.[2]
L'aforisma è, come dire?, lo champagne della melanconia; ogni breve enunciato racchiude in sé anni di disillusione distillati in un istante di ebbrezza.[3]
L'aforisma si nutre di paradossi e niente è più paradossale dell'atteggiamento dello scrittore di aforismi verso il suo mezzo, il linguaggio.[3]
L'ottimista ha in comune con il pessimista la predisposizione a guardare verso il futuro, a chiedersi: saranno migliori o peggiori gli anni a venire?[3]
Pescara ha la magia di farti sentire bene con il mondo, senza che ciò ti richieda sforzo alcuno.
The genius of Pescara is to make you feel, without any effort being required, that all is well with the world.[4]
Più di qualunque altra forma letteraria, l'aforisma, come viene praticato da Qoèlet, Leopardi o Cioran, è legato all'espressione di un unico contenuto: quella verità che, per vivere bene, si fa di tutto per dimenticare, cioè che la vita è, come disse Leopardi, «un solido nulla». La sfida per lo scrittore di aforismi è di trovare mille modi per ribadire questo concetto, ma senza mai destare sconforto, anzi provocando un piacere, addirittura un'ebrezza talmente intensi che, anche se solo per un istante, si è quasi contenti che le cose stiano così.[5]
Intervista di Concetto Vecchio, repubblica.it, 5 maggio 2021.
Non sono certo più come un inglese che vive in patria, né sono diventato un tipico italiano. Ma il 14 luglio giurerò fedeltà alla Repubblica e ne sono felice.
[Per ottenere la cittadinanza italiana] Ci sono voluti quattro anni. Un'idea non molto intelligente di Salvini, che ha raddoppiato i tempi per ottenerla, prima bastavano due anni. Magari voleva far vedere in giro che durante la sua permanenza al Viminale molti meno stranieri erano diventati italiani.
[Mario Draghi] Soddisfa la tendenza tutta italiana di avere un salvatore della patria.
La gente richiede in ogni modo possibile di essere protetta, perché vuole vivere il più a lungo possibile. La sicurezza è diventata più importante della libertà. Anche il politicamente corretto è figlio di questa protezione, il non avere scontri con nessuno per tutta la vita.
Lui [Garibaldi] aveva quarantott'ore per prepararsi al viaggio. Noi ci pensiamo da più di un anno. Bisognava organizzare i soldati, quattromila di fanteria, ottocento di cavalleria. Muli, carri, munizioni, provviste, medicamenti. Un cannone. Lui era deluso, aveva sperato che si presentassero in diecimila. Noi sapevamo che ci saremmo stati solo noi due, zaino in spalla. Eppure partiamo dallo stesso luogo, piazza San Giovanni in Laterano a Roma.
Citazioni
Ma chi era Gustav von Hoffstetter? È il momento di fare la conoscenza dei nostri compagni di viaggio. Nato nel 1818 in Baviera (quindi trentunenne al momento della nostra spedizione), Hoffstetter era entrato nell'accademia militare di Monaco, aveva prestato servizio nell'esercito elvetico nel 1847 e partecipato dalla parte dei vincitori alla guerra civile svizzera di quell'anno. Nel 1848 aveva gettato al vento la sua carriera per schierarsi con i rivoluzionari liberali nel Sud della Germania. I liberali vennero sconfitti e Gustav fu costretto a fuggire, prima in Svizzera, poi in Italia. Arrivato a Roma, mise la sua perizia militare al servizio della causa repubblicana, e nei mesi di maggio e giugno fece da assistente a Luciano Manara. Quando Garibaldi chiese a Manara di diventare il suo aiutante di campo, Hoffstetter lo segui, e quando il 30 giugno il comandante fu ucciso nell'ultima battaglia dell'assedio, Garibaldi chiese a Hoffstetter di prendere il suo posto.
È incredibile quanti militari polacchi erano in giro per l'Europa nelle rivoluzioni del 1848. Duecento di loro combatterono per la Repubblica romana, e quelli sopravvissuti all'assedio si unirono alla ritirata di Garibaldi. Curioso poi che la lotta per l'indipendenza italiana fu portata avanti con grande idealismo da un esercito multinazionale e multilingue. Non si può accusare il Risorgimento di essere stato un movimento Isolazionista o esclusivista.
Eppure è buffo pensare alla rotta di Garibaldi che si sovrappone al cammino dei pellegrini: i cristiani devoti che vanno ad abbassare la testa di fronte al papa e il patriota in fuga (ma a testa alta) che spera ancora, un giorno, di strappare la città eterna alle grinfie papali. I due si incontrano su questa strada polverosa, anzi il pellegrino che scarpina verso sud si fa da parte per lasciar passare la colonna dei soldati in marcia verso nord. L’incontro e la mescolanza, o la mancata mescolanza, di queste due mentalità è costitutivo della precaria identità nazionale italiana.
Di sicuro, se la parola «pittoresco» non esistesse, bisognerebbe inventarla per la Toscana. La sua bellezza è inconfutabile e del tutto rassicurante. Il paesaggio non ha nulla della selvaggia asprezza di Lazio e Umbria. Ogni foto è una cartolina. I campi e i vigneti sono più curati. Non possiamo che essere grati per i sentieri ben tenuti, compresi i cigli erbosi. In cima a ogni collinetta si può ammirare un incantevole gruppetto di cipressi e cedri che cela o incornicia una torre, una cascina o una cappella. Si capisce perché i turisti inglesi vi si riversano a frotte. È tutto racchiuso in una composizione perfetta: il fascino di un giardino antico in un clima mediterraneo.
Benché i garibaldini non avessero affrontato neanche una battaglia dalla partenza da Roma, stavano comunque contribuendo al duro lavoro che fu necessario per completare il Risorgimento, costringendo la gente a pensare, a schierarsi; quel loro marciare nel paesaggio fisico non poteva non sconvolgere il paesaggio mentale dei popoli che incontravano.
È inutile, scrive Ippolito Nievo nel grande romanzo Le confessioni di un italiano, «implorare la libertà col lievito della servitù già gonfio nell’animo». Il libro fu scritto nel 1858, quando ancora la nazionalità «italiana» non esisteva ufficialmente. «Vi sono diritti che sol meritati possono chiamarsi tali» aggiunge. Da ragazzino Nievo fu coinvolto nei moti di Mantova del 1848 e in quelli di Pisa del 1849. Come per molti patrioti, il suo disprezzo verso i concittadini divenne feroce, «quel gregge impecorito di uomini, che senza fede, senza forza, senza illusioni giungeva semivivo alle soglie della vita».
Garibaldi scrisse il romanzo Clelia, o il governo dei preti nel 1868, a distanza di anni dalle gesta eroiche che condussero all’unità d’Italia, ma prima dell’annessione di Roma al regno del 1870. Il fine dichiarato era ricordare i morti, denunciare il possesso di quella che doveva essere la capitale d’Italia da parte della Chiesa e «campare un po’ anche col mio guadagno». Al centro del romanzo vi è una figura, che evidentemente è il Generale stesso, chiamata «il Solitario», che vive su una piccola isola, «la Solitaria». Superati i sessant’anni, a dispetto di una vita passata tra uomini disposti a morire per lui e donne di ogni estrazione sociale avide di avventure, Garibaldi si vedeva così: un solitario che prende decisioni difficili da solo, sempre vigile contro il tradimento e l’incompetenza, costretto più e più volte a lasciarsi alle spalle i suoi compagni, feriti o morti, per andare avanti e ricominciare. Guardando l’intera parabola della sua vita, pare ben possibile che proprio in questi primi giorni dell’agosto 1849 il Generale abbia iniziato a pensarsi come il Solitario.
Cercando di risollevarci il morale con un prosecco in attesa dell’autobus per Comacchio, stabiliamo che la versione di Bonnet non può essere vera. Sarebbe troppo clamoroso che, osservando lo svolgersi degli eventi accanto ai soldati austriaci, sia riuscito ad arrivare in spiaggia proprio quando Garibaldi è in acqua con Anita tra le braccia, mentre i soldati non si vedono. È il copione di un film. Ma, comunque si siano incontrati, Garibaldi lo reputò il più grande colpo di fortuna della sua vita. Aveva bisogno di un salvatore, e quel salvatore gli apparve. «Io mi rimisi intieramente all’arbitrio suo.» È una delle frasi che più mi hanno colpito, leggendo le memorie di Garibaldi: un uomo abituato a comandare si rende conto, nel giro di pochi secondi, che ora dovrà rimettersi interamente al giudizio di un altro. E così fa.
Trasportato clandestinamente in un luogo remoto della costa ligure il 2 settembre 1849, sorprese i suoi salvatori prendendo la rincorsa verso il mare sulla spiaggia sassosa, dove si tolse gli stivali e si mise a sguazzare come un bambino. Si avvicinò un peschereccio. «Pareva un leone imprigionato a cui fosse stata aperta la gabbia ferrata» scrisse un testimone. Garibaldi ringraziò caldamente gli uomini che erano con lui. E aggiunse: «No, nel mare non temo alcuno».
↑ Da Scrivere per appartenere, Internazionale, n. 1174, 7 ottobre 2016, p. 100.
↑ Da L'Italia vista dal treno, Internazionale, n. 657, 1 settembre 2006, p. 32.