archeologo francese (1858-1932) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Salomon Reinach (1858 – 1932), archeologo e storico francese.
L'Egitto ha posseduto templi molto più ragguardevoli del Partenone di Atene; ma i suoi pesanti edifici non [si] impongono se non per la loro mole; sono decorati senza sobrietà e qualche volta senza buon gusto. La pecca più sensibile del tempio egizio è d'essere troppo lungo in proporzione della sua altezza, e di avere esternamente troppe muraglie in confronto alle scarse aperture. Sotto un tale aspetto il tempio egizio e la chiesa gotica presentano il più assoluto contrasto: qui, troppi pieni; là, troppi vuoti; l'arte greca e quella del rinascimento hanno saputo trovare il giusto punto intermedio. (pp. 17-18)
Ciò che v'ha di più ammirabile nel Partenone, è la giustezza delle proporzioni. Il rapporto tra l'altezza dei frontoni e le altre dimensioni del tempio, è stato determinato con tale esattezza che l'insieme non è né troppo leggero né troppo pesante, che le linee si armonizzano per produrre, ad un tempo, l'impressione dell'eleganza e della forza. Non meno sorprendente è la perfezione tecnica della costruzione. I grandi massi di marmo, i tamburi delle colonne sono riuniti ed assodati per via di pernii e di caviglie di metallo, ma senza cemento, con commettiture così precise quanto quelle del più fine lavoro d'oreficeria. Mai l'arte moderna, che adopra il cemento con tanta profusione, ha potuto rivaleggiare con gli operai d'Ictino[1]. (p. 50)
[...] l'arte di Lisippo si presenta come una reazione dorica contro l'arte attica, la quale faceva una crescente parte al sentimento e poteva sembrare molle e sensuale. Lisippo modificò il Cànone di Policleto, ossia la tradizione classica del V secolo, con una tendenza più pronunciata verso l'eleganza, dando al corpo quasi otto volte la lunghezza della testa (in luogo di sette), facendo risaltare le articolazioni ed i muscoli a spese del loro inviluppo carnoso. Le sue teste non esprimono né la meditazione, né la passione, si limitano ad essere nervose e fine. (p. 60)
Per lo slancio invincibile e l'energia conquistatrice, pel fremito di vita trasfusa nel marmo, pel felice contrasto tra lo svolazzar tumultuoso del manto e l'aderire della tunica al ventre ed alle coscie, questa statua [la Nike di Samotracia] è la più bella espressione del movimento, che l'arte antica ci abbia trasmesso. Lo scultore non vi ha soltanto tradotta la forza muscolare e l'eleganza trionfale, ma l'intensità della brezza marina, di quella brezza che Sully-Prudhomme fa sentire in un verso altrettanto alato: Un peu du grand zéphir qui souffle à Salamine.... (pp. 63-64)
Un genere di snobismo molto diffuso consiste nello sparlare dell'arte greca dopo Fidia, come dell'arte italiana dopo Raffaello. La minor pecca di coloro, che in ciò si compiacciono, è di non capir nulla della evoluzione dell'arte. Se l'arte greca si fosse arrestata ai frontoni del Partenone, sarebbe rimasta altrettanto incompleta quanto quella dell'Assiria e dell'Egitto, perché non se ne sarebbe abbracciata tutta la incomparabile grandezza come si fa ora ammirandola, ad un tempo, nei prodotti della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua età matura. (p. 70)
[Commentando l'Apollo del Belvedere] Il corpo d'Apollo offre un assoluto contrasto con quelli degli dei e dei giganti del fregio di Pergamo. Là i muscoli sono indicati tutti, come se l'artista si compiacesse nel dar loro uno speciale risalto; qui, invece, lo scheletro è coperto di carne, e sulla carne si vede l'epidermide e più si scorge l'eleganza che la forza. (p. 70)
La testa dell'Apollo del Belvedere presenta caratteri che si collegano alla scuola di Scopa. Il dio ha lanciato una freccia e il suo sguardo è corrucciato; ma è al tempo stesso appassionato ed inquieto. Gli dei, nell'arte ellenistica, non conoscono più la serenità olimpica; anche se vittoriosi ed onnipotenti, sono afflitti da qualche cura. (p. 70)
L'arte graziosa del secolo XVIII non ha mai esercitato la sua influenza se non sulle piccole costruzioni di villeggiatura e sugli interni. L'origine dello stile rococò va probabilmente cercata nel lavoro d'intaglio che, dai mobili, si trasportò negli appartamenti. Non più pilastri, né colonnati, né architravi; ma ghirlande, festoni, conchiglie, una profusione di linee sinuose, avviluppate ed intrecciate, sì che pare che ogni ornamento voglia essere una sorpresa. Con ciò, un senso squisito delle proporzioni ed una prodigiosa esecuzione. (p. 138)
Giovanni Bellini, che visse circa 86 anni (1430?–1516), ha percorso tante diverse tappe che lo si direbbe una scuola di pittura piuttosto che un pittore. Le sue prime opere sono ancora fine ed aride, prossime al Mantegna, non scevre di durezze e bizzarrie di disegno; le composizioni della sua età matura sono capolavori, cui quasi nulla manca, nemmeno un riflesso della tavolozza di Giorgione, suo allievo, morto sei anni prima di lui. Questo grande artista, maestro di moltissimi allievi, ha percorso durante una laboriosa esistenza tutta la via che conduce dal Mantegna a Tiziano. Una sola cosa gli fece difetto: la dote o il gusto di rappresentare il movimento. (pp. 171-172)
La vita di Raffaello Santi (o Sanzio) forma un completo contrasto con quella di Leonardo. Se questi, che visse a lungo, produsse poco, Raffello, morto a 37 anni, ha lasciato, invece, un'opera immensa, che è pervenuta, quasi intera, sino a noi. (p. 192)
Il grande quadro di Bruges, in cui Van de Paele figura come donatore[2], ci consente di apprezzare la grandezza del genio di Giovanni[3] e insieme i limiti tracciatigli dalla natura. Egli non ha alcun sentimento religioso, alcun fervore; la Vergine è brutta, il Bambino Gesù rachitico, il san Giorgio è un contadino con la corazza. Ma Giovanni van Eyck è il più grande ritrattista di tutti i tempi. Mai occhio più penetrante ha scrutato la forma vivente, mai mano più valente ne ha fissato l'immagine sulla tavola. (p. 219)
[...] la celebre pittura di Guido Reni, L'Aurora, nel palazzo Rospigliosi a Roma (1609), benché di colorito un po' stridente nella sua chiarezza e di troppo facile disegno, è una delle grandi opere della pittura decorativa. Guido Reni ha pure creato alcuni tipi del Cristo, della Vergine e della Maddalena, cui si può rimproverare una certa affettazione sentimentale; ma è certo che il loro prodigioso successo li dimostra rispondenti – e non è lieve merito – all'ideale religioso del tempo. (p. 247)
[Claudio Lorrain] Egli è il maestro incontrastabile di quel genere falso e convenzionale che si chiama il paesaggio italiano, in cui il grande scenario della natura, sapientemente manipolato, serve di sfondo ad una composizione storica o mitologica. I templi, gli alberi e le roccie di Claudio Lorrain hanno ben poco del reale; i suoi personaggi ne hanno meno ancora; ma ciò che salva i suoi quadri, ciò che procura loro una legittima ammirazione, è il sentimento poetico dello spazio, del cielo, dell'acqua, della luce. (p. 279)
[...] il Meissonier ha trattato soggetti aneddotici del secolo XVIII con prodigiosa maestria di miniaturista ed una scienza della forma, superiore persino a quella degli Olandesi. Ma il più bello de' suoi quadrettini impallidisce accanto a un Pieter de Hoock o a un Vermeer, perché il Meissonier disegna troppo, colorisce più che non dipinga e non sa mai avvolgere la forma in un'atmosfera luminosa ed accarezzante. (pp. 309-310)
[...] la scuola dominante [della tendenza romantica] fu quella detta dei Nazareni, avente sede in Roma e che si propose in ispecie la imitazione del quattrocento italiano. [...]; essi dipinsero male quanto l'Ingres, disegnarono assai meno bene e si distinsero da lui per l'amore alle grandi composizioni simboliche che riescono tediose ed esigono commenti. (pp. 320-321)
Nella prima metà del secolo [diciannovesimo], il maggiore fra gli artisti inglesi è il Turner (1775-1851), pittore innamorato della luce sino all'estasi, un Claudio Lorrain romantico, febbrile e a volte teatrale, [...]. (p. 322)
I prerafaeliti vedevano in Raffaello un apostata dell'Ideale ed un apostolo del savoir faire; prendevano ad esempio il Botticelli e il Mantegna. Ma non erano volgari «impiastricciatori». Il carattere saliente della loro scuola è l'intellettualismo, il disdegno dell'arte per l'arte; vogliono narrare ed insegnare, commuovere l'anima delle folle, scendere tra il popolo e convertirlo alla bellezza. (pp. 322-323)
[Sui preraffaelliti] Quantunque parecchi tra di loro abbiano preceduto, sino dal 1848, la scuola francese sulla via del plenariismo[4] e del divisionismo, essi non sono impressionisti; hanno in orrore l'esecuzione trasandata e affrettata; la loro fattura, minuziosa e pedantesca, sovrappone, senza cercare d'armonizzarli, colori intensi e crudi. Cotest'arte arida e fittizia, comunque posta a servizio di un altissimo ideale, doveva finire per stancare. (p. 323)
L'arte dell'avvenire sarà soprattutto realista? Non lo credo. Una delle belle scoperte del secolo XIX, la fotografia, ha reso la realtà più famigliare. Quale artista, foss'egli pur un Van Eyck, vorrebbe oggi lottare con la lastra sensibilizzata? Noi domandiamo all'arte quello che la fotografia, sia pure policroma, non può darci: la bellezza suggestiva delle forme e dei movimenti, la radiosità, l'intensità, o il mistero del colore, in una parola, l'equivalente, nel campo dell'arte, di ciò che è la poesia in quello della letteratura. (p. 330)
Antonio Canova è il nume dell'arte italiana nel primo ventennio del secolo XIX. Fu salutato «principe della scultura e riformatore dell'arte in Italia». E qualunque sia il giudizio che gli artisti odierni fanno di lui, resta e resterà sempre ch'ei si avvantaggiò assai sui predecessori nello stile e nell'esecuzione. I suoi monumenti a papa Rezzonico (Clemente XIII) e a papa Ganganelli (Clemente XIV) fecero un'impressione tale da segnare una nuova êra artistica. (p. 335)
Emergeva però su tutti [i pittori giunti a Roma per lo studio dei modelli antichi]Vincenzo Camuccini, natovi nel 1775. Egli seguì le idee di David, ma curò anche lo studio dei maestri italiani del Rinascimento o, meglio, di Raffaello, con poco vantaggio del suo colorito. Era un facile disegnatore ed un rapido esecutore, ma di poca ispirazione e di nessuna originalità. Perciò, forse, i suoi ritratti sono oggi più apprezzati che le sue grandi composizioni d'argomento romano o del periodo eroico del cristianesimo. In tutte accatastò reminiscenze di sculture antiche e di pitture cinquecentistiche, con così poca fusione, che Pierre Guérin[5] disse: «S'è nutrito di Raffaello e degli antichi, ma non li ha digeriti!...». (p. 338)
[Bertel Thorvaldsen] Nessuno era più di lui fanatico sostenitore delle teorie del Mengs, del Winckelmann e del David[6]. Gli sembrava anzi pericoloso ed inutile cercare nel vero le leggi e i principii dell'arte, quando già si erano concretati nella statuaria greca, dalla quale conveniva derivarli. (pp. 338-339)
Nelle altre città d'Italia [come a Firenze] non si seguivano diversi ideali, e il classicismo imperava dovunque senza invidie, freddo e composto anche in architettura, quando s'udì un grido di guerra. Lo aveva lanciato Lorenzo Bartolini. Cresciuto indomabile fra le sventure e le ostilità, aveva afforzato lo spirito per la lotta, che sostenne sino a sfondare le porte dell'Accademia e ad installarsi arbitro dell'insegnamento ufficiale in Firenze. (pp. 339-340)
Mentre dilagava su tutta Italia il clamore sollevato dall'audace polemica del Bartolini, il quale osava schiaffeggiare i pseudo-classici sino ad introdurre nella scuola un gobbo per modello; contro la pittura classica sorgeva il romanticismo, dapprima confinato in qualche volto, poi soverchiante su tutto: nei temi, negli atteggiamenti, nel colore. (p. 340)
↑ Ictino (V secolo a.C.), architetto dell'antica Grecia, progettista del Partenone.
↑ Si riferisce al dipinto Madonna del canonico van der Paele, conservato nel Museo Groeninge di Bruges.