pilota motociclistico australiano (1965-) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Michael Sydney "Mick" Doohan (1965 – vivente), pilota motociclistico australiano.
Ad essere onesti, la velocità non mi ha mai entusiasmato e, anzi, se c'era qualcosa che mi spaventava quando ero un pilota, era proprio il dover andare troppo forte. Se devo dirla tutta, quando salivo in sella ad una 250 Sport Production e raggiungevo i 200, massimo 210 km/h, pensavo che fossero sufficienti. A tal punto che quando correvo con le 500 spesso non volevo che mi venisse mostrata la velocità massima raggiunta, in modo da non rendermene conto del tutto. Alla fine, quando sei in sella non ti accorgi quanto tu stia andando forte, almeno fino a quando non finisci fuori pista o fai un incidente. In ogni caso, credo non ci sia nulla di male ad avere un po' di paura. Anzi, è proprio controllando la paura che riesci a dare il meglio di te stesso senza prendere rischi eccessivi.[1]
Forse sono stato io il mio rivale più duro, volevo battere me stesso prima degli altri.[2]
La sfortuna esiste, perché ci sono delle cose che sfuggono al tuo controllo. C'è chi dice di creare la propria fortuna con la preparazione e l'allenamento, ma se qualcun altro cade di fronte a te o scivoli su una chiazza d'olio, cosa ci puoi fare? L'unica cosa che puoi fare è prepararti al meglio, meglio di chiunque altro, e cercare di minimizzare il rischio della sfortuna. Purtroppo, il rischio esiste sempre in MotoGP. E se non ci fosse, non sarebbe così eccitante.[3]
[«I piloti danno valore alle statistiche?»] Nel mio caso, vittorie e titoli mi hanno reso felice e sono ciò che mi ha motivato, ma le statistiche indicano che quando si raggiunge la mia età non sono un elemento motivante.[3]
Questo sport è in continua evoluzione. Lo è dal primo Gran Premio del 1949. Quando guardo le moto di oggi mi dico che non hanno molto in comune con quelle che guidavo io. Tutti quegli elementi aerodinamici: non sono sicuro se sia una buona cosa o no. Forse toglie il valore della guida. Le moto di oggi non mi fanno sognare. Però ogni epoca ha i suoi piloti e le sue moto. Quello che vedo è che le gare di oggi possono essere più serrate, ma alla fine sono ancora i migliori piloti a finire in testa.[2]
Intervista di Jeffrey Zani, motosprint.it, 28 gennaio 2024.
Kevin [Schwantz] era un pilota sensazionale, faceva cose straordinarie. Uno dei più talentuosi contro cui abbia corso. La sua filosofia era rischiare tutto, vincere o cadere, mentre io ero anche disposto ad accettare un secondo posto, o il miglior risultato possibile, perché pensavo che una stagione andasse affrontata così. Kevin era veloce, probabilmente il più coraggioso di tutti noi. Quando gli andava bene trionfava e festeggiava. Quando andava male, finiva con un ruzzolone. Ed è accaduto spesso.
[«[...] 1998: a due minuti dalla fine delle qualifiche di Assen la sessione venne interrotta dalle bandiere rosse. Eri secondo, in prima fila, ma decidesti comunque di rientrare e spingere, chiudendo per un soffio il giro di lancio e poi stampando la pole»] Più vinci, più vuoi vincere, e più senti che dovresti vincere. È un appetito che viene mangiando. Ero abituato a essere in pole e quando non succedeva ero deluso. In quella specifica occasione, correvamo su una pista in cui i piloti equipaggiati con le Dunlop avevano un vantaggio, mentre io ero con le Michelin, più costanti da un circuito all'altro ma a volte non al livello della concorrenza. Volevo demoralizzare gli avversari, ecco il motivo. Era un gioco mentale.
[«Cinque titoli vinti e due sfiorati: eri in sella alla moto migliore?»] Da pilota non ti senti mai al 100%, pensi che esista sempre del margine per migliorare. In alcune occasioni la mia Honda si comportava in maniera fantastica, ma quando succedeva non lo dicevo agli ingegneri. C'era il rischio che si rilassassero. Ecco perché nel 1999 nel mio box c'era una moto con un telaio copia di quello Yamaha. Ero stato io a spingere per averlo. Appena mi sono ritirato, è sparito.
[«Qual era il tallone d'Achille delle NSR?»] Avevano una gran velocità di punta, ma non voltavano: era nel loro DNA. Yamaha e Suzuki in inserimento erano più facili, e a centro curva per noi non c'era modo di cambiare la traiettoria impostata, mentre loro riuscivano a chiudere meglio. Noi, per farlo, dovevamo rallentare troppo. Il telaio è stato il punto debole delle NSR nell'arco di tutta la mia carriera, l'aspetto a cui ho dedicato più impegno. Per fortuna, di margine per lavorare ce n'era parecchio [...]
Da pilota, ero la componente organica che l'ingegnere non poteva costruire o analizzare. Il tassello che poteva fare la differenza, perché riportavo il mio feedback, le sensazioni. In questo senso, le abilità risiedono anche nel modo di comunicare: come parli, quali gesti usi e via dicendo. In sostanza, devi farti capire. E non è così scontato, perché hai davanti persone che parlano diverse lingue, dall'italiano al francese, e vengono da culture a volte distanti, come quella australiana oppure europea, con approcci e modi di lavorare diversi che devono trovare una sintesi e funzionare. [...] Quando resti al top a lungo, com'è successo a me, impari ad affrontare tutti gli aspetti: non sei un atleta che la domenica viene estratto da una scatola e messo su una moto per performare e basta, ti confronti con un ricco contorno. Relazioni con amministratori delegati, rappresentanti di aziende, sponsor, politici. Ci devi navigare, in mezzo a tutta quella roba, e il modo in cui lo fai può essere decisivo. E poi c'è un team che lavora per te. Devi saperlo motivare e tenere unito. [«Come si fa?»] Con un comportamento da professionista: disciplina, puntualità, etica lavorativa, determinazione. Il fatto è che io odiavo perdere. Lo detestavo proprio. Se vincevo lavoravo duro, e se non ce la facevo, lavoravo ancora di più. Dopo un successo non ho mai pensato di rilassarmi, né fisicamente, né mentalmente. Dicevo al team: è stata una grande gara, ma ecco quali aspetti possiamo migliorare.
A volte la differenza tra finire primo o secondo è piccolissima e dipende da quanto lavori sodo. Se mi chiedi chi era il più forte fra me, Kevin [Schwantz], Wayne [Rainey] o altri, non penso fossimo così diversi nelle capacità di guida. A essere decisivo era l'aspetto mentale, relativamente sia a una gara che a un'intera stagione. Correre è tutta questione di testa. Perché devi gestire una marea di cose: la pressione, la posizione in cui ti trovi, la concentrazione e poi le distrazioni. Vince chi gioca meglio le sue carte.
Era un leader indiscutibile nella squadra, laborioso e ossessivo. Gli era chiaro che non voleva essere campione del mondo né una né due volte. Voleva essere un fuoriclasse e arrivare a conquistare molti titoli. (Àlex Crivillé)
Quando in Olanda nel 1992 cadde e si ruppe una gamba, aveva già vinto cinque gare. Gli proposi di venire in Italia a curarsi da noi, in un mese l'avrei rimesso in sella. Invece si fece operare in Olanda. Sorsero delle complicazioni che portarono i medici a pensare all'amputazione della gamba. Mi chiamò, allora io noleggiai un aereo privato e andai a prenderlo. Avevo un amico laggiù, che mi procurò un'ambulanza e due infermieri: entrammo in ospedale, caricammo Mick e uscimmo per andare all'aeroporto. La cosa non destò sospetti tranne che in Kevin Schwantz: era lì anche lui per un polso rotto e un'anca lussata. Chiese anche lui di essere portato via e arrivarono in Italia insieme. [...] Da quella sconfitta nel 1992 è nato il Doohan vincente: sono le avversità e le ferite che ti fanno crescere. (Claudio Costa)