[Durante la grande fame del 1888-1892] Oh! Come il mio paese è caduto in rovina! Il mio popolo è finito![1]
[Proclama dopo la controversia del trattato di Uccialli] Sino a oggi Iddio mi ha conservato abbattendo i miei nemici ed estendendo il mio regno. Sino a oggi ho regnato per la grazia di Dio. Se dovessi morire non ne sarei afflitto perché tutti dobbiamo morire. Ma Iddio non mi ha mai umiliato e ho fiducia che non mi umilierà mai. È arrivato tra noi un nemico che rovina il paese, che muta la religione e che ha passato il mare datoci da Dio come frontiera. Riflettendo che i guerrieri erano morti e che il popolo era esausto per la carestia nulla ho voluto tentare fino a ora. Ma questo nemico comincia ad avanzare forando la terra come le talpe. Con l'aiuto di Dio non gli lascerò il mio paese.[2]
[Bando per la successione] Del mio paese, dell'Etiopia miei uomini, miei figli, miei fratelli, sino ad ora per grazia di Dio senza nessuna onta il mio paese ho governato. So che mi avete voluto bene e siccome avete sempre avuto un unico pensiero, la patria nostra, l'Etiopia sinora dal nemico non è stata soggiogata. Come già prima vi avevo fatto conoscere la volontà di Dio si avveri. Ho pensato di lasciare il trono al figlio di Uizerò Scioaregasch che ha avuto da Ras Micael. È Lig Yasu (Giosuè). Gli ho dato per tutore Ras Bituadet Tesamma. Chi guarderà il trono è lui, altro figlio maschio non ho. In questa determinazione sono venuto acciocché venendo a mancare un giorno da casa mia non vi abbiate a spaventare. Finché ci sono io, di qua e di là andiamo facciamo questo di male, qualora ci fosse qualcuno che dicesse, lo maledirò. Lo raggiunga la maledizione di Giuda, lo soggioghi la bestemmia di Jaros. Colui che andrà contro la mia parola lo tradisca la terra, vi soggiorni dove esso abita il cane nero. I Capi che ho fatto crescere militari grandi e piccoli che andranno contro la mia volontà li maledirò. Dopo di me colui che non seguirà il mio figlio lo maledirò e se lui andrà contro la volontò dei Padri vostri e dei suoi amici, e qualora facesse male maledirò il tutore di Lig Yasu che io gli ho dato, Ras Bituadet Tesamma.[4]
Abissino anch'esso, con pochi bisogni nel metodo di vita, ed estraneo a tutte le puerili invenzioni e ricercatezze delle mode europee, pensava e parlava come gli altri indigeni. (Guglielmo Massaia)
Barambaras Menelik... chi ha visto i ritratti di Nerone giovane se lo figuri: un po' più pingue soltanto. (Ferdinando Martini)
Come è buono l'Imperatore! Come avrei desiderato che ella lo avesse conosciuto! In questi ultimi tempi, prima di cadere ammalato, mi voleva con sé ogni momento, ma non mi parlava molto. Mi faceva soltanto promettere che sarei stato mite e giusto. (Ligg Iasù)
Io ho un grande concetto degli europei. Menelik è grande perché seppe conoscerli ed apprezzarli. (Mikael di Wollo)
Menelik ha la tunica di velluto nero, simile a quella del padre: e lo sciamma, che è della stessa forma del marghef, ma di tessuto men sottile, e senza ricami: invece è rigato, a larghi intervalli, da larghe strisce scarlatte. In capo un corno dogle di raso verde, intorno al cui lembo inferiore s'avvolge una coda di leone, segno e ricompensa dell'aver ucciso il re delle foreste. (Ferdinando Martini)
Menelik riuscì a ritagliarsi un suo impero nella carta dell'Africa, così come la regina Vittoria, l'imperatore Guglielmo, re Leopoldo del Belgio, la Francia repubblicana e l'Italietta di Umberto I si ritagliavano i loro. (Arminio Savioli)
Vi mando questi Remington perchè possano accrescere la vostra potenza e portare la distruzione fra i vostri nemici. (Francesco Crispi)
Constatavo da per tutto che la venerazione per Menelik era il solo sentimento generale che non si discuteva. Il prestigio del suo nome era immenso, esso formava la sola molla che regolasse quel disordinato organismo, ma lo era in quanto Menelik personificava il vittorioso che aveva compiuto la più grande impresa guerresca contemporanea. Quando la mente dell'imperatore si modernizzò sino a comprendere la convenienza di sfruttare i benefici della vittoria per fare dell'Abissinia uno stato relativamente ordinato, dove l'avvento al potere supremo più non rappresentasse il risultato di convulsioni interne, il suo popolo non lo comprese e non lo seguì, perché non comprende e non comprenderà mai come si possa aspirare al trono, vale a dire ad essere universalmente ubbidito e temuto, senza avere conquistato quella suprema potenza colla spada in pugno. Esso si spiega che si possa ubbidire all'imperatore, ma non alla sua volontà postuma. Ritenere ciò equivale attribuire all'Abissinia una mentalità ed un sentimento che essa ancora non possiede.
Menelik aveva compreso che la condizione essenziale per la salvezza del suo stato stava nella assimilazione delle forme civili e fece quanto di meglio poté per imporle ai suoi popoli.
Menelik checché se ne dica lascerà l'Abissinia ben poco differente dal punto di vista dell'unità nazionale da quello che era agli inizi del suo regno. L'amalgama dei cento popoli compresi entro i confini dell'impero è apparente, incerta, come lo era venticinque anni or sono. Il prestigio personale dell'Imperatore ha sopito le cause di conflagrazione interna, ma non le ha certo neutralizzate, e dato che nessuna nazione europea ha per ora nelle sue vedute, l'idea di attentare alla integrità dell'impero, rimane senz'altro scartata la possibilità di una provocazione che riesca a suscitare un movimento simile a quello verificatosi nel novantasei contro di noi. Al giorno d'oggi scioani, galla, tigrini ed amhara si odiano non meno profondamente di come si odiavano per il passato.
Tutti sanno che Menelik ha aderito alla conferenza di Bruxelles per l'abolizione della schiavitù e chi è stato in Abissinia sa pure come sia assolutamente proibito e mostrare di sapere che la schiavitù è in fiore.
Bismarck e Cavour hanno costruito, nell'età dei nazionalismi, nuovi stati, ma possedevano ferrovie, eserciti, industrie, flotte, banche, opifici, diplomatici, università, scienziati, insomma un arsenale umano che lavorava, combatteva, inventava. Menelik, re dei re d'Etiopia, disponeva soltanto di molti titoli e di una riserva inesauribile di astuzia e di serpentesca volontà di avvolgere e soffocare qualsiasi nemico.
Il genio di Menelik, il Leone della tribù di Giuda, il prediletto di Dio, il re dei re d'Etiopia, consisteva nel suo atteggiamento di fronte all'impossibilità: nulla sgomentava. Non possedeva niente. Ma coesistevano in lui una profonda mediocrità e una forza di volontà sovrumana.
Menelik, straordinario talento di uomo di potere, non aveva la stoffa dell'innovatore, di chi con il forcipe trasferisce i popoli nel futuro. Assomigliava semmai a quei padri della patria che hanno guidato verso l'indipendenza molti paesi dell'Africa per poi accontentarsi del tran tran del sottosviluppo e di dispotismi ottusi e crudeli. Visse insomma di rendita. La vittoria contro gli italiani imbalsamò l'Etiopia nel suo Medioevo per un altro mezzo secolo.
Sahle Mariam, il futuro Menelik, era certamente un uomo prudente. Non si diventa re dei re, imperatore d'Etiopia, erede di Salomone e della regina di Saba, negus neghesti, se non si dispone di una intelligenza di ispida acutezza e non si affina con astuzia, metodo e tenacia questa insostituibile qualità del potere. L'Etiopia era un posto difficile non solo per fare il re, era un posto difficile per sopravvivere.
↑ Citato in Angelo Del Boca, Il Negus, Editori Laterza, 2007, p. 20, ISBN 978-88-420-8310.8
↑ Domenico Quirico, Adua La battaglia che cambiò la storia d'Italia, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2004, p .46, ISBN 88-04-52681-5
↑ Citato in Arnaldo Cipolla, Nell'impero di Menelik, Milano, Società Editrice la Grande Attualità, 1911, p. 58
↑ Citato in Arnaldo Cipolla, Nell'impero di Menelik, Milano, Società Editrice la Grande Attualità, 1911, p. 118