Maya Sansa (1975 – vivente), attrice italiana.
Citazioni in ordine temporale.
- [«Quando è in Francia si sente italiana?»] Molto, è in Italia che mi sento straniera. Del resto fa parte del mio dna: mamma è torinese, nonna istriana, la bisnonna era austroungarica di origini cecoslovacche, mio padre iraniano, e io sono cresciuta a Roma. Anche il mio compagno [Fabrice Scott, attore, autore e regista, ndr] è metà irlandese e metà francese, nato in Canada, e ha tre passaporti. Nostra figlia è destinata a diventare cittadina del mondo.[1]
- Noi attori facciamo una vita complicata, ma io vivo la mancanza di routine come un privilegio. Vedo altri genitori che si stressano per rigidità incomprensibili: garantire il bagnetto a una certa ora, non sgarrare sulla nanna, le amicizie selezionate con il bilancino. Meglio crescere con un po' di caos ma imparando a stare con gli altri, senza paura.[2]
- [«È spesso definita un'attrice drammatica. Un onore o una gabbia?»] Sono stata fortunata, ho avuto ruoli meravigliosi. Il problema è lo sguardo degli altri. Dopo Bella Addormentata un regista francese mi aveva invitato a pranzo: è rimasto molto deluso dal vedermi diversa dal personaggio [...]. Il 90 per cento degli attori cerca ruoli complessi. L'ho fatto e continuerò a farlo.[2]
- [«Com'è crescere un figlio in Francia?»] Anche se Parigi ormai è casa, abbiamo tanti amici, siamo circondati da belle persone, io sento la cultura diversa. Un po' punitiva. Noi in confronto siamo caldissimi. I francesi rimproverano tanto, hanno una certa rigidità. Un dettaglio significativo: per rassicurare i bambini invece di "va tutto bene" dicono "non è grave". Ricordo Talitha a tre anni, le era caduto un bicchiere e ha iniziato a ripetere «c'est pas grave maman, c'est pas grave». E io le dicevo «certo che non è grave», ma mi sono immaginata nella sua testolina già una gerarchia di atti gravi, gravissimi, meno gravi...[3]
- Credo di aver ereditato lo stile di mia nonna: un femminile un po' amazzone, che forse in un certo senso è una negazione del femminile, almeno del cliché. Mi ha regalato un grande senso di indipendenza però sì, forse siamo state un po' troppo soldatine noi di questa generazione, troppo coi pantaloni.[3]
- [«Sua nonna è stata una figura importante nella sua vita?»] [...] Da bambina mi dividevo fra casa di mamma e di nonna. Mia madre mi ha avuta a vent'anni, con lei vivevo in un ambiente pieno di ragazzi della sua età. Mi portava alle feste, ai concerti, era tutto allegro, un po' caotico e, a volte, mi sentivo persa. Mentre nonna era una presenza rassicurante, da lei sapevo che avrei trovato due calzini dello stesso colore. La maestra delle elementari mi diceva: "Quando ti veste la nonna sembri una principessa, quando lo fa mamma sembri una zingarella".[4]
Intervista di Irene Maria Scalise, la Repubblica, 11 aprile 2010.
- Sono stata lungamente figlia unica, anche se poi è arrivata una sorellina [...] che adoro, ma non mi sono mai sentita sola perché in casa c'erano tante persone ed erano tutti come dei genitori adottivi. Mia madre era la tipica ragazza degli anni Settanta e lei, come mia nonna, mi ha sempre incoraggiata a credere nei sogni, ma anche a capire che l'indipendenza della donna è un valore e che non ci sono mariti che assicurano il futuro.
- [Sugli anni a Londra, per pagarsi gli studi] Invece di fare la cameriera, come succedeva a molte mie coetanee, sono entrata in un cinema come maschera. Era tutto faticoso ma bellissimo e, in quelle sale buie, sentivo e risentivo i film in inglese per migliorare l'uso della lingua.
- Marco [Bellocchio] è un maestro unico e con lui ho imparato tante cose perché ha un'immaginazione esplosiva e, soprattutto, quella sicurezza che gli permette di lasciare lavorare l'attore in libertà.
- Il cinema ti fa incontrare delle persone straordinarie, anche se poi la vita quotidiana è un'altra cosa. Io non sono un'ingenua, ma semplicemente una che cerca di capire quanto sia importante mantenere la passione e la gioia degli inizi.
- Trovo che purtroppo il sistema sia inflessibile con gli attori che da produttori e registi sono presi in considerazione solo se l'ultimo film è stato un successo. Il passato si dimentica troppo rapidamente.
- Sono convinta che la determinazione non coincida con la rivalità e credo che sia buono concentrarsi sulla propria traiettoria senza giudicare il percorso altrui.
- Il percorso che ho fatto non c'entra niente con il fisico, non mi sono mai sentita particolarmente bella e ho sempre pensato di lavorare sodo proprio perché non ritenevo che l'aspetto fosse la mia carta vincente.
- Recitare in un altro paese ti permette di entrare in possesso dei luoghi e del quotidiano. Adoro quel rapportarsi in modo diverso alla gente e alla cultura e, anche questo, trovo sia un dono del mio meraviglioso mestiere.
- Quando interpreto un film è come se entrassi in una bolla che cerco di gestire il più possibile fuori dal set senza che gli altri se ne accorgano. Può essere anche terapeutico. Se, per esempio, recito una parte molto drammatica, dopo sono felice, una sensazione catartica che lascia un'impalpabile leggerezza.
Intervista di Valerio Cappelli, corriere.it, 25 novembre 2013.
- [Sul padre, iraniano, conosciuto per la prima volta all'età di 15 anni] Quando i miei genitori si sono incontrati erano giovanissimi: era il 1975, c'era un atteggiamento da figli dei fiori. La decisione di tenermi fu di mia madre. Se non te la senti non ti preoccupare, disse a mio padre, sperando che si sarebbe fatto vivo. Lui rimandava ogni decisione. L'incontro è avvenuto in modo simpatico, tramite amici comuni. Mi ha chiesto se volevamo vederci solo noi due, ho preferito di no, così ero più libera di osservarlo. Studiavo le somiglianze, come muoveva le mani... Al primo contatto, al telefono, dopo lunghi silenzi, mi chiese della scuola, mi disse che era architetto, come a voler mettere i primi mattoni. Non ero risentita, sono cresciuta tra mia nonna e mia madre, un'artigiana che dipinge su vetro e lavora gioielli. Dice che sono una piccola aliena, troppo iraniana.
- Passiamo ore davanti allo specchio a truccarci, abbiamo lo sguardo degli altri su di noi, ma meno si è narcisi più si è generosi con i personaggi da interpretare. In Italia c'è troppo ego, non conta il corpo, è una recitazione tutta verbale. Per questo andai a studiare a Londra. Ma sono critiche che faccio con amore, adoro l'Italia e lavoro in Italia.
- [Su Marco Bellocchio] È l'unico regista che mi ha dato l'opportunità di trasformarmi. Ho una forma di invidia per le superproduzioni che ti rivoltano come un calzino. Se da noi impongo un lavoro sull'accento è un miracolo. Bellocchio ti mette alla prova, quando lo convinci è di un'apertura sconvolgente.
Intervista di Gabriele Landrini, fabriqueducinema.it, 2 dicembre 2021.
- Sarò banale, ma in realtà da bambina il mio grande sogno era fare la veterinaria! Poi crescendo mi sono appassionata di cinema e soprattutto di fotografia, e non mi sarebbe dispiaciuto fare la DOP [direttore della fotografia]. Tuttavia, invece di inscrivermi a una scuola tecnica, sono stata convinta dai miei genitori a fare un liceo classico e, per merito delle persone che ho incontrato sul mio cammino, mi sono appassionata alla recitazione. Dopo un inizio più ludico a scuola, mi sono formata in modo professionale prima al Teatro dei Cocci e poi a Londra. La mia grande occasione è però arrivata con Marco Bellocchio. [«Infatti hai esordito con uno dei più grandi registi italiani»] È stata un'enorme fortuna! Grazie alla sua professionalità, ma anche alla sua umanità, ho avuto modo di temprarmi fin da giovane, imparando ad affrontare questo mestiere nel modo giusto e a gestire anche l'agitazione e l'ansia. Nonostante la sua autorevolezza e la sua serietà, e pur non essendo un regista che scende a compressi, lui mi ha fatto sentire a casa e mi ha fatto capire che ero sulla strada giusta. Una volta battezzata da Bellocchio, se vogliamo dire così, il rapporto con gli altri registi è stato semplice e naturale, perché ormai ero a mio agio. Ovviamente non sempre c'è stata un’intesa perfetta con chi mi dirigeva, come credo sia comune in qualsiasi lavoro, ma non c'è mai stata frustrazione, perché sapevo di star lavorando con grandi professionisti. Poi, è come per il nuoto: quando ti tuffi dal trampolino più alto, non hai più paura di tutti gli altri.
- [«Come scegli un film da interpretare?»] Il regista è l'elemento fondamentale che guida le mie scelte, perché è come il capitano della nave. Naturalmente è importantissima anche la sceneggiatura, ma il regista secondo me è il vero ago della bilancia. Quando ho la possibilità di lavorare con grandi professionisti del mondo del cinema accetto anche ruoli secondari o minori, perché so che anche solo in poche ore quell'esperienza e quel set mi arricchiranno. Poi, certo, anche lavorare con gli esordienti può essere una bellissima esperienza, ma in quel caso credo che fondamentale sia il ruolo che mi viene proposto: se il personaggio presuppone un certo lavoro di composizione o trasformazione e può rappresentare per me una sfida, sono prontissima a cogliere l'opportunità.
- Essere un'attrice nomade è un grande arricchimento, perché ogni nazione è diversa e impari sempre qualcosa di nuovo. Io, tuttavia, cerco di trovare i punti di contatto e le somiglianze, più che le differenze. Ad esempio [...] mi sono resa conto che gli inglesi sono molto simili a noi nel modo di lavorare: sono ugualmente professionali, ma proprio come gli italiani amano scherzare, sono affiatati, calorosi e cercano complicità con i colleghi. Diversi sono invece i set francesi, che ragionano maggiormente sulla tensione e il conflitto, per riuscire a tirare fuori il meglio dagli interpreti: del resto, in Francia sono grandissimi intellettuali e questo traspare anche nel loro approccio al lavoro.
Intervista di Chiara Maffioletti, Corriere della Sera, 19 giugno 2022.
- I miei erano pranzi molto numerosi, quelli di una famiglia allargata: pieni di persone che non c'entravano niente con i legami di sangue. Una famiglia scelta, formata dagli amici di mia madre che, per fortuna, si è sempre circondata di gente bella.
- Quando i miei si sono conosciuti erano molto giovani e liberi, senza contare che sono nata in un'epoca – gli anni Settanta – in cui tutti erano ribelli, lontani dai conformismi per definizione. I miei sono stati molto amici per un periodo lungo, dopodiché erano troppo giovani per gestire questa libertà.
- In Francia ho fatto tante cose belle ma resto un'attrice italiana. Insomma, non sono diventata Monica Bellucci, che sembra ormai più francese che italiana. Ma amo spaziare e sono grata di poterlo fare.
- ↑ Da Paola Casella, Intervista a Maya Sansa in tv con Tutto può succedere, elle.com, 16 gennaio 2016.
- 1 2 Dall'intervista di Cristina Lacava, Maya Sansa: «Vi racconto la mia famiglia aperta», iodonna.it, 10 aprile 2017.
- 1 2 Dall'intervista di Sara Del Corona, Maya Sansa, la maternità e il suo più grande amore di nome Talitha, marieclaire.it, 8 maggio 2020.
- ↑ Dall'intervista di Enrica Brocardo, Maya e l'amore che brucia, grazia.it, 14 giugno 2022.