diplomatico e orientalista italiano (1892-1964) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Martino Mario Moreno (1892 – 1964), diplomatico e orientalista italiano.
Nel secondo secolo dell'Egira un nome ed un abito coprono un movimento che, più antico della sua designazione e della sua insegna, perché affonda le sue radici in tendenze spirituali coeve alla nascita dell'Islām, anzi d'ogni religione, si va sempre più accentuando, e – simile ad un fiume, che, uscito lento da umile polla, acceleri il suo corso e gonfi le proprie onde per la naturale pendenza del suo letto a l'afflusso di nuove acque, finché, giunto alla piana, tutta l'allaga e la feconda – impregna di sé la fede di Maometto e la ravviva. Sufismo è il nome di questo movimento, perché i suoi esponenti – i Sūfī – indossano, come simbolo d'austerità, un rozzo saio di lana (in arabo sūf), cenerentola dei tessuti in quei tempi felici. (p. 95)
[...] mentre dànno alla Chiesa islamica dottori, martiri e santi – ed anche radiose figure di sante – come Rābi'ah, la santa Teresa dell'Islām – [i Sūfī] iscrivono nella letteratura nomi insigni di poeti e di prosatori, e discuton dell'amore, in brillanti tornei filosofico-letterari, con gli argomenti del Convivio, quando non preferiscono – questi abbassatori dell'uomo – trattar de hominis dignitate quasi nei termini stessi di Pico della Mirandola. Tali sono i Sūfī. Complicati, contraddittori, strani, sono insieme entusiasti e scettici, visionari e pensatori, teosofi e sofisti, giullari di Dio, umanisti. (pp. 96-97)
[...] in tutta la sua storia, il Sufismo ha incontrato opposizioni e riserve, ed anche anatemi e supplizi, da parte della casta dei Teologi e Canonisti puri. Bisogna riconoscere che questi sono stati gravemente provocati. Nel loro ardore di interiorizzazione dell'Islam, i Sūfī non hanno risparmiato agli esponenti del formalismo le punzecchiature e le sferzate, e han preso diletto a rivestire le loro dottrine di una forma paradossale, cruda, irritante. (p. 119)
I Wahhābiti si propongono di ricondurre l'Islam alla purezza primitiva, distruggendo tutte le innovazioni che vi si sono introdotte, spesso contrabbandate sotto la bandiera dell'iğmă'[1]. La loro principale dottrina è la condanna del culto dei santi. (p. 102)
[...] l'invocare un essere distinto da Allâh – si tratti pure di un profeta o di un santo – è, per i Wahhābiti, un atto d'idolatria. È lecito «pregare per i Santi (ad-du'â' li-l-awliyâ')», non «pregare i Santi (du'â' al-awliyâ')». Chi nelle proprie sventure chiede aiuto a Maometto o ad 'Abd al-Qâdir al-Ğīlânī o ad altri, attribuisce ad esseri creati e limitati un potere che è esclusivamente di Dio. Angeli, Santi e Profeti non fanno grazie. Nemmeno la loro intercessione (shafâ' ah) è, in sé, efficace, né é lecito invocarla: che Iddio non é da concepire come un sovrano di questo mondo, che si lasci guidare dai suoi favoriti. (p. 104)
Nel loro rigorismo, i Khāriğiti sostenevano che non bastasse la fede, ma occorressero anche le opere, e che chi commettesse gravi peccati dovesse essere considerato come infedele[2]. Partito attivo e militante, traevano questa dottrina alle sue estreme conseguenze, e nella lotta contro gli altri Musulmani si facevan lecito ogni eccesso sui beni e sulle persone, sotto il pretesto che gli avversari dovevano esser trattati alla stregua degl'idolatri. (p. 108)
Ciò che distingue gli Sciiti dai Sunniti è l'affermazione che l'imamato o califfato appartiene alla discendenza di 'Alī. Shî'ah vuol dire «partigiani», sottinteso di 'Alī. (p. 109)
Per essi [gli Zayditi] l'uomo è dotato in senso assoluto di libero arbitrio, e si salva o vien dannato non per predestinazione divina, ma perché egli ha liberamente scelto la via del bene o del male. Ciò è un corollario della bontà e della giustizia di Dio, enfaticamente affermate dagli Zayditi. I mali di questo mondo non contraddicono a tale concezione: essi fanno parte, perché Iddio è buono, di un piano provvidenziale non del tutto spiegabile dal nostro infermo intelletto; e, perché Iddio è giusto, saranno risarciti nell'altra vita, dove «persino la pecora senza corna riceverà sodisfazione contro la pecora cornuta». (p. 115)
[...] i Zayditi negano la eternità del Corano. Altro punto essenziale di distacco dai Sunniti è la dottrina della salvazione. Per i Zayditi non basta la fede: anche le opere sono necessarie. Per conseguenza i Zayditi condannano al fuoco eterno anche i Musulmani peccatori, ai quali il Sunnismo assicura invece, per l'intercessione del Profeta, l'entrata finale al Paradiso dopo un periodo di espiazione, in virtù della loro sola fede musulmana. (p. 116)
Al misticismo e alle confraternite i Zayditi sono avversi. (p. 116)
Da quell'insieme d'idee dove il Sufismo, che ha sempre collocato su un piedistallo d'onore 'Alī e i suoi discendenti, e lo Sciismo, amante di speculazioni esoteriche, s'incontrano per muovere alla ricerca d'un Dio più vicino all'umanità di quello degli Ulema e di una verità più profonda di quella della Legge canonica, sorse, nel secolo XIII, in mezzo ai Turchi, e fu espressione del loro nazionalismo religioso, il movimento dei Bektāshī. (pp. 127-128)
↑ Per i Sunniti tutti coloro che «nella preghiera volgono lo sguardo alla Qiblah», e che professano l'unità di Dio e la profezia di Maometto, sono autentici musulmani, anche se cadono in gravi peccati e seguono dottrine poco ortodosse; e perciò non rimarranno in eterno nel fuoco. [N.d.A.]
Martino Mario Moreno, La dottrina dell'Islam, Licinio Cappelli - Editore, Bologna, 19402.
Martino Mario Moreno, La mistica araba, in Caratteri e modi della cultura araba, vol. II, Reale Accademia d'Italia, Roma, 1943, pp. 95-125.