[Sulla progettazione di automobili] Ho costruito la mia identità di designer, in particolare per ciò che riguarda l'ambito delle supercar che ho creato per Lamborghini, su un concetto unico: ogni nuovo modello doveva essere completamente diverso rispetto al precedente. Il coraggio, la capacità di creare rottura senza attaccarsi al successo dell'auto precedente, la sicurezza nel non voler cedere all'abitudine sono stati l'essenza stessa del mio lavoro. È chiaro che mercati e marketing sono cambiati molto da allora, ma per quanto mi riguarda me stesso ripetere un modello del passato rappresenta, secondo me, la negazione dei principi fondanti del mio DNA di car designer.[1]
Io l'automobile l'ho vissuta marginalmente fin da bambino. È stata un sogno come lo era il tappeto volante, o come potrebbe essere la possibilità di spostamenti volando come l'Araba Fenice, ritrovandosi in qualunque posto senza fatica.[2]
[«Designer per vocazione o per caso?»] Per vocazione, perché fin da piccolissimo disegnavo macchinette sulla sabbia, invece di altre cose.[2]
Dall'intervista di Clemens Weisshaar e Joseph Grima a Domus nº 947, maggio 2011; citato in domusweb.it, 30 ottobre 2019.
[«Lei vive nei dintorni di Torino, una regione che forse più di qualsiasi altra al mondo ha plasmato la storia dello styling automobilistico. Cosa [...] hanno reso il torinese epicentro d'innovazione progettuale e industriale in Italia e nel mondo?»] Sembra un paradosso ma quest'innovazione industriale dipendeva in gran parte dalla presenza di tradizioni artigianali altamente qualificate. Nell'ambito dell'automobilismo, in particolare, si è beneficiato del gran numero di scoccai e battilastra bravissimi, gente che per tradizione lavorava le scocche in legno delle carrozze, e che nel dopoguerra si è trovata senza lavoro. A Torino c'era questa grandissima facilità di fare modelli di prototipi, e con la facilità d'esecuzione viene fuori la domanda. Di conseguenza c'è stata per molti la possibilità d'inserirsi nel settore come stilisti, come disegnatori; specialmente qui a Torino, fino a dopo la guerra, lo stilista vero e proprio non c'era. Fino a quel momento, stilista era il cliente stesso, nel senso che il tizio che voleva la Ferrari carrozzata fuoriserie, o la Lancia carrozzata in modo particolare andava dallo scoccaio e cercava di spiegare cosa voleva. [...] Erano artigiani abilissimi, prendevano il telaio e poi tiravano su il filo di ferro che simulava le linee della carrozzeria. A quel punto il cliente diceva: "Mah, la vorrei un po' più lunga". Questo, allora, era lo stilista. La mia prima auto è stata fatta così, tirando su questi fili di ferro da un carrozziere oscuro, uno che più che altro faceva riparazioni. Si batteva l'alluminio e, servendosi solo di questi fili di ferro, si formavano le lamiere. Dopodiché venivano tolti e si facevano strutture per reggere i pannelli della carrozzeria. [...] Allora non c'era disegno. Al massimo un bozzetto.
La vera innovazione è quasi sempre conseguenza della presenza in un'azienda di un personaggio con un grande carisma, più la volontà da parte dell'azienda mettere in atto la visione di questo individuo, persino le sue fantasie. L'esempio più lampante è la DS19, di Flaminio Bertoni, il quale era un genio ma anche un autocrate assoluto: riusciva a condizionare le scelte di un'azienda a tal punto da attuare progetti assurdi secondo le logiche dell'industria, ma che quasi senza eccezione si sono rivelate geniali. [...] [La DS19] ha influenzato moltissimi settori nell'ambito del design. Quello che salta fuori con chiarezza dalla vicenda della DS19 è che per l'innovazione ci vuole una mente: non ci può essere una collaborazione tra 100 o 200 persone. Quelle possono subentrare dopo, quando ci sono grane da risolvere, ma il concetto iniziale deve essere frutto di una visione fortemente personale.
[...] la Countach rappresentava l'abbandono di alcune abitudini ormai consolidate dell'industria automobilistica. Non faceva nessun riferimento ad auto passate, e non era nell'occhio della gente. Il gusto non era educato ad apprezzarla. All'inizio era una forma culturalmente aliena ma nel giro di qualche anno è diventata un oggetto simbolo.
[«Quanto è stato lungo lo studio del progetto Miura?»] Un mese o due. Nell'autunno del 1965, Ferruccio Lamborghini, Paolo Stanzani e Gianpaolo Dallara sono venuti da me e mi hanno proposto una collaborazione. Io non ho iniziato subito perché c'erano alcuni progetti da finire, per cui i primi schizzi li ho prodotti alla fine di novembre. Mi ricordo la vigilia di Natale, alle 10 di sera del 24 dicembre 1965, avevamo il modello in legno ed ecowood pressoché finito, abbiamo battuto Bambino Gesù per un paio d'ore. Poi la macchina è stata costruita tra gennaio-febbraio e presentata a marzo.
Il mio archivio in genere è il cestino della carta straccia, che ho qui sotto. Preferisco l'archivio della memoria: cancella facilmente le cose sgradevoli.
Dall'intervista di John Pearley Huffman a Car and Drive, dicembre 2016; citato in Marco Cariati, storiedirally.it, 5 maggio 2022.
[«Qual è la parte più difficile del tuo lavoro?»] Rispondere alle domande dei giornalisti!
[«Quanto è difficile tradurre disegni bidimensionali in modelli tridimensionali soddisfacenti e, in definitiva, automobili?»] Il bidimensionale è solo la rappresentazione di un'immagine nella tua mente che è già tridimensionale. È forse più difficile rappresentare ciò che immagini su carta.
[«Dicono che sei più interessato all'architettura, alla costruzione e alla sostanza meccanica dei veicoli. Puoi separare il design dalla sostanza meccanica?»] Credo non si possa. In effetti, è forse uno degli aspetti più importanti del design. La forma più eccitante segue sempre la funzione.
[«Un'auto economica può essere attraente quanto una costosa?»] Sì, può essere. L'aspetto o il design devono essere relativi a ciò che rappresenta un'auto.
Il silenzio ha una forza incredibile e anche a fare cose a terra terra come disegnare un'automobile. Il silenzio è un qualcosa che coinvolge un po' tutto. Un modo di pensare, di comportarsi, di concentrarsi, ci si mette in un atteggiamento nei confronti del mondo particolare per cui qualche ideuzza la tiri fuori.
Ho una mia teoria sui romani, un romano: simpaticissimo. Due romani: insopportabili.
Per un certo periodo della mia vita ho gestito un'azienda e bisognava essere in ufficio alle 8. Nonostante fosse un'aziendina piccola, circa cinquanta persone, per farla funzionare bisognava curare ogni persona. Quando si lavorava la domenica oppure la notte, c'ero sempre anch'io, anche per rispetto verso i miei collaboratori. Se volevamo portare a casa dei risultati bisognava prestare molta attenzione a consegnare un prodotto fatto bene e in tempi utili. Avevo instaurato — non proprio con tutti, quando hai a che fare con 50 personalità non è possibile — con alcuni un rapporto di stima e fiducia reciproca. Ricordo un'occasione, dovevamo fare circa dodici prototipi della [Innocenti Nuova] Mini, quelli che si fanno prima di avviare la produzione. Era circa il 1972, mi ero preso l'impegno di consegnarne uno ogni 20 giorni. A memoria i primi due furono consegnati senza nessun problema. Con il terzo, invece, eravamo in ritardo. Alle 22, ho visto che era praticamente impossibile rispettare la consegna. Ho ringraziato tutti, ho detto "va bene ragazzi, pazienza per domani, sgarreremo di un giorno". Mi sono avviato verso l'uscita e uno dei collaboratori mi rincorse e disse "se permette, noi vorremmo comunque provare". Si erano consultati tra di loro e volevano provarci. Personalmente ero scettico, ma se loro avevano deciso così, allora era giusto farlo. E così che al mattino il prototipo fu consegnato. L'aiuto è venuto spontaneamente, non ho chiesto niente. Penso che se si imposta il lavoro in un certo modo, si possono avere delle soddisfazioni. [...] se si vuole creare un bel gruppo bisogna farne parte e non soltanto comandarlo. Sono cose che fanno parte della vita da baracca.
Quando ci si accinge a lavorare, bisogna prepararsi un po' all'idea per questo detestavo iniziare alle otto. Quando mi sono messo in proprio [...] invece di svegliarmi presto per essere puntuale al lavoro, iniziavo facendo una corsa in montagna e per le 11 iniziavo a lavorare. Era un'abitudine molto piacevole e produttiva, penso che sia molto civile incominciare a lavorare verso le 11.
Con la Lamborghini Miura ero agli inizi del mio lavoro e non avevo un'autonomia tale da poter fare proprio quello che volevo. Mi ero affidato un po' al gusto della grande macchina sportiva 50/60 e poi dal fatto di fare qualcosa che fosse diverso, ma che, allo stesso tempo, fosse già nell'occhio della gente. Quindi aggressiva, ma con qualche dolcezza, un misto. Il disegno della Miura era un compromesso tra il desiderio di fare qualcosa di nuovo, e qualcosa di diverso, ma di non dispiacere il pubblico.
Quando feci la Countach ci vollero anni prima che fosse totalmente accettata. A qualcuno è piaciuta subito, però alla maggior parte, anche dei giornalisti, ci sono voluti anni. Tanto è vero che è rimasta in produzione per 17 anni.
[...] nella Miura quel poco di audacia che c'era era reso accettabile dalla dolcezza, dall'andamento del disegno. Nessuno rifiutò la Miura, ci fu un consenso immediato. Anche di più di quel che meritasse.
[«Ho letto in più interviste che lei ritiene la Lamborghini Miura "inguardabile"»] Per me sì, ma me ne rendevo conto. [«Personalmente trovo la Miura bellissima e il dettaglio delle branchie è il mio preferito»] Quelle fanno parte di quel tocco di originalità necessario, che bisogna metterci perché sennò non c'è novità. Come le ciglia nei fari, disegnate semplicemente per mascherare il faro della Fiat 850. Per fare i prototipi si utilizzavano prodotti di serie di altre vetture, cercando poi di mimetizzarli il più possibile. C'era un motivo pratico in alcuni casi. Le prese d'aria ci volevano, potevano essere disegnate diversamente, oppure messe in un altro posto, ma c'era una funzione pratica perché bisognava sostenere il vetro a giorno, senza cornice, e c’era bisogno di una guida in qualche modo. Anche le griglie con gli esagoni, servivano a diversificare un qualcosa che era già di serie.
La Marzal va vista dal vivo perché cambia moltissimo rispetto alla fotografia. La Lamborghini Marzal doveva andare negli Stati Uniti ma, per motivi doganali, è stata abbandonata alle intemperie stagionali al porto di Genova, per un anno! Una storia disastrosa. L'acquistò un collezionista svizzero, Albert Spiess, che la restaurò esattamente com'era, mantenendo l'originalità del prototipo. [...] [«Troppo futuristica per i tempi? Era il 1967»] Sì, era un po' come andare sulla luna, appunto, era fantascientifica. Quando ho rivisto questa cinquantenne e più, al Concorso d’Eleganza Villa D'Este del 2019, sono rimasto colpito.
[...] l'automobile ferma è un'altra cosa. Le vetture vanno viste in movimento. Nella mia vita ho fatto una quantità enorme di modelli, di studi, per alcune case produttrici come la Renault o la Volkswagen, e ricordo che tutte le volte, per ciascuno di questi modelli, il giorno che la dovevamo caricare sul camion, anche spinta a mano, faceva subito un'altra impressione: nel bene e a volte anche nel male. [«Il movimento cambia la visuale?»] Il movimento, anche se lentissimo cambia il punto di visuale. Il moto cambia la forma della macchina, contemporaneamente si vedono le parti nascoste e le parti visibili cambiano forma. Si percepisce completamente il volume della vettura, come in un ologramma. Certe volte anche in peggio! La fotografia di una vettura è ben difficile che dia l'idea della linea, perché è un'immagine fissa e può ingannare. La macchina ha bisogno di essere vista nel suo volume.
Adesso i prototipi presentati sono tutti finti, non sono neppure prodotti nei materiali giusti. Talvolta fatti in vetroresina, sono semplicemente dei modelli, perfettamente fatti, ben finiti, ma trovo inutile spendere dei soldi così. Invece una volta erano delle automobili e bisognava che funzionassero.
[«È molto critico nei confronti del suo lavoro»] Sono capace di vedere quando una cosa è brutta, diciamo che ho la mia teoria, se uno è riuscito a fare decentemente metà delle cose che ha fatto è già un bel successo.
Personalmente penso che la bellezza sia la possibilità di creare emozioni. Se vedo una vettura e dico "bella", lo dico tanto per dire qualcosa. In realtà dovrei dire "mi emoziona", oppure che "stimola certe sensazioni".
[Su Alejandro de Tomaso] [...] io spezzo sempre una lancia a suo favore, anche se ha avuto una pessima fama di "mal pagatore". De Tomaso mi ha corteggiato per tanti anni perché l'ho conosciuto quando era appena arrivato in Italia, aveva l'ambizione di fare le auto da corsa e non aveva una lira. Arrivò a Modena, chiese quale fosse il miglior albergo della città, gli risposero il Canal Grande e lui ci si insediò. Dopo un certo periodo l'albergo esigeva il saldo del conto, che lui non era in grado di pagare, quindi lo cacciarono con qualche nomignolo. Quando ebbe la possibilità finanziaria cosa fece? Comprò il Canal Grande, questo fatto mi ha sempre divertito molto.
[«Non considera l'auto un'opera d’arte?»] Personalmente no, però ha in comune con l'arte quella di generare emozioni, come si diceva prima sulla bellezza. A mio avviso, in ogni caso, è una cosa molto diversa. Ha qualche parentela con la scultura. Le automobili hanno le stesse esigenze di una scultura, quella di dare delle emozioni e poi il fatto di essere tridimensionale. Anche la scultura, se lei prende, il David e gli gira intorno, ha la sensazione di un qualcosa di vivo, di una persona.
Nuccio Bertone faceva l'industriale, ed era bravo a fare il suo mestiere. Le automobili dovevo farle io e devo dire che lui non si intrometteva mai.
Le portiere a forbice, introdotte con la Alfa Romeo Carabo e poi adottate dalla Countach, le feci perché davano una sensazione diversa... con molte titubanze, perché non ritenevo una cosa logica le porte fatte così. Come responsabile della costruzione dei prototipi, dovetti studiare qualcosa. Avevo il problema, che mi facevo solo io, che se una macchina si fosse ribaltata, il pilota e il conducente non sarebbero più usciti. Allora avevo studiato un artificio: erano delle porte a forbice fissate con dei coni, erano bloccate da una levetta che sganciava la porta nel caso di cappottamento. La portiera veniva espulsa, quindi i passeggeri potevano uscire. Per il secondo prototipo ci avevo lavorato veramente un mucchio per mettere a punto la porta sganciabile e poi la casa madre mi disse "ma no", non l'ha voluta. Poi ci sono state tantissime imitazioni e tutte quante in caso di ribaltamento non si esce più.
[«Uno dei pochi nomi, per Lamborghini, che si allontana dal mondo dei tori: Countàch»] È un intercalare piemontese che letteralmente vuol dire "contagio, peste", intesa come "dannazione". Un operaio ogni tre parole diceva Countàch! Aver tirato fuori questo nome nasce da uno spirito di gruppo... e in quella notte, c'era anche Bob Wallace, abbiamo detto chiamiamola Countàch. Quando si lavora di notte, anzi più notti consecutive, si crea uno spirito di fronda, un modo di ricompensarsi dalla fatica notturna, si ride un po'. Countàch non è una bella parola, ma viene usata anche come affermazione di ammirazione, sorpresa, stupore... "Perbacco"!
L'automobile non è una cosa artistica, ma è comunque un'attività della mente... anche della mente inconscia del bambino. Da piccolo sognavo le macchine e c'è qualcosa che mi ha accompagnato negli anni. Personalmente non mi sono mai spaventato nel fare una cosa nuova o diversa, la paura del foglio bianco non l'ho mai avuta, anzi ho sempre amato il foglio bianco. Potrei partire integralmente da zero, meccanica, carrozzeria, metodo di costruzione. Il foglio bianco è stimolante.
Ho avuto un certo successo facendo un progettino, relativo alla riduzione della superficie degli stabilimenti per la costruzione di automobili. Lo scopo dello studio era quello di ridurre il numero degli operai, degli orari di lavoro, del costo degli stabilimenti, sia di costruzione che di gestione: in breve vuol dire ridurre le dimensioni. [...] Per fare tutto ciò bisogna, principalmente, cambiare l'automobile. In certi stabilimenti si cerca, con i robot, di migliorare la produzione e di ridurre i costi... e qualcosa si ottiene. La mia visione era più drastica. L'ambizione del mio progetto era di ridurre tantissimo la dimensione degli stabilimenti. Per costruire un'automobile bisogna: comprare un terreno, costruire uno stabilimento, si deve attrezzare all'interno con tutti gli impianti... poi ci sono i costi di gestione... la somma di tutte le spese deve essere suddivisa per il numero delle automobili prodotte dall'impianto. Se si dimezza lo stabilimento, da subito si dimezzano le spese.
Quando abbiamo fatto la Stratòs — avevamo da poco presentato la Countach a Ginevra — non avevamo indicazioni da parte della Lancia così andavo avanti di testa mia. Insieme ai due collaboratori, abbiamo iniziato a fare un prototipo a grandezza naturale... uno dei due aveva fatto anche i disegni e si era basato molto su quello che avevo fatto con la Countach. In questo caso il tema era completamente diverso, ma l'ho lasciato fare perché se uno continua a dire "no", non si stimola. Quando il modello è stato abbozzato, non era proprio quello che avrei voluto, ma sono certo che se ne siano resi conto anche loro. Avevamo l'impegno di presentare l'auto al Salone di Torino, ad agosto andarono tutti in vacanza mentre restammo io e tre modellatori, i migliori che avevo. Ogni tanto andavo a farmi un giro con la Guzzi... in ogni caso in tre settimane abbiamo realizzato la Stratòs senza disegni, non sono mai esistiti. Tratteggiavo i pezzi che venivano ritagliati direttamente dal compensato. Al ritorno dalle ferie vennero tutti quelli della Lancia a vedere la macchina, che aveva una sola spennellata di ducatone e dei cartoni al posto dei vetri... chiaramente non era il massimo e questi avevano dei musi lunghi. Personalmente non ero preoccupato perché sapevo benissimo come sarebbe venuta. Quando abbiamo presentato il prototipo... i musi lunghi sono diventati dei sorrisi. La macchina da rally non aveva bisogno di essere bella, ma se non avesse vinto sarebbe rimasto almeno il bello!
[«Se tu potessi scegliere una vita totalmente diversa, chi vorresti essere?»] Un designer di automobili, alla Marcello Gandini, un uomo curioso che nei disegni metteva le sue esperienze di vita. Dico alla Marcello Gandini, e non come, perché lui è un maestro, irraggiungibile. (Michele Lupi)