Al pellegrino che s'affaccia ai suoi valichi, | a chi scende per la stretta degli Alburni | o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra, | al nibbio che rompe il filo dell'orizzonte | con un rettile negli artigli, all'emigrante, al soldato, | a chi torna dai santuari o dall'esilio, a chi dorme | negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante, | la Lucania apre le sue lande, | le sue valli dove i fiumi scorrono lenti | come fiumi di polvere. || Lo spirito del silenzio sta nei luoghi | della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, | sofistico e d'oro, problematico e sottile, | divora l'olio nelle chiese, mette il cappuccio | nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce | con l'erba alle soglie dei vecchi paesi franati. || Il sole sbieco sui lauri, il sole buono | con le grandi corna, l'odoroso palato, | il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! | Ha il passo pigro del bue, e sull'erba, | sulle selci lascia le grandi chiazze | zeppe di larve. || Terra di mamme grasse, di padri scuri | e lustri come scheletri, piena di galli | e di cani, di boschi e di calcare, terra | magra dove il grano cresce a stento | (carosella, granturco, granofino) | e il vino non è squillante (menta | dell'Agri, basilico del Basento!) | e l'uliva ha il gusto dell'oblio, | il sapore del pianto.[1]
Come il ragno | costruisco con niente, | lo sputo, la polvere, | un po' di geometria.[2]
Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all'ombra.[3]
[Su Vincenzo Cardarelli]Scendo nelle ore d'afa | sulla stretta cornice d'ombra | dei palazzi di Porta Pinciana. | Balzo nel sole dentro la sua tana. | Poggiavi le braccia stecchite | sulla lastra di marmo, seduto | davanti a un bicchiere, | l'ultimo che hai bevuto. | Immobile, muto | guardavi contro l'intonaco della via | le rapide ombre, i lampi | della grazia fugace, | la liquida danza. | Avvolto nelle penne spiavi | il giorno senza speme, udivi | il riso, i patti osceni dei vivi. | Qui, in questa grotta, | parlasti serio agli amici | come si parla ai morti.[5]
[Su Genova]Sempre che torni sera | Per queste città dove le luci | Appena si staccano dai pali | E il mare brucia di là | Sul molo un'aria fiacca | Raccoglie il fischio della sirena. | Solo mi dico la mia pena e brillano | Agli occhi vaghi i lumi delle ville. | Troppo dolce il passaggio in queste terre, | Più sicura la morte, ad ogni viaggio | Non c'è speranza che resti sepolta. | Poi è la prima stella che si perde | Dietro le palme, più tardi un baleno | Verde che s'apre a uno schiocco di frusta.[6]