Jerry Lewis, pseudonimo di Joseph Levitch (1926 – 2017), attore comico statunitense.
La felicità non esiste. Di conseguenza non ci resta che provare ad essere felici senza.[1]
[Alla domanda di Peter Bogdanovich Che tipo di film ti piace, a parte i tuoi?] Mi piace il buon intrattenimento, ma pulito, niente di spinto eh? Le cose spinte vanno tenute chiuse in una stanza con dentro una ragazza. Nessuno le vede. Non ho voglia di sedermi insieme a duecento persone a guardare qualcuno che fa le cose che a volte piace anche a me fare, ma in privato. Perché non solo mi mette in imbarazzo, ma finisce che quelle cose non le faccio più neanche in privato, per paura che anche la ragazza abbia visto lo stesso film... E non pago il biglietto per farmi spezzare il cuore. Posso benissimo chiudermi in camera mia, guardarmi nello specchio, e piangere a dirotto gratis. [2]
Ragazzi, come ci divertivamo. Una volta Dean faceva una serata da solo, e mi telefona. "Ti disturbo? Sei impegnato?" Io gli rispondo: "No no, niente. Ti ascolto". "Sai", mi fa Dean, "a metà della canzone mi è venuto da pensare: mi manca." "Per questo mi chiami? Perché ti manco?" E lui: "Sì. Ti rendi conto? Adesso siamo insieme! È fantastico!". Allora io gli dico: "Ehi, ma che cavolo dici? C'è della gente qui! Cosa sei, un frocio?". Ecco, cosette come queste le sviluppavamo nei nostri numeri. Dean mi telefonava ogni due secondi: "Perché mi hai chiamato?". "Mi mancavi." [2]
[Il primo incontro con Charlie Chaplin] "Charlie, le presento Jerry Lewis." "Come sta, Mister Chaplin?" "Charlie, per te." "Ciao Charlie." E lì gli ho fatto la mia prima battuta: "Puoi chiamarmi Mister Lewis". [2]
[Parlando con Charlie Chaplin] Sono rimasto a chiacchierare con Charlie fin verso le tre e mezzo. Abbiamo parlato dei suoi inizi, dei miei inizi. Lui ha parlato del lavoro fantastico che facevamo io e Dean, e mi ha detto che raccoglievamo l'eredità di Stan Laurel e Oliver Hardy, che eravamo una delle più grandi coppie comiche di sempre. [2]
Io ero talmente affascinato da Dean, che gli ho guardato dentro e ho visto meglio di tutti. Era così bravo Dean, ma così bravo che mai, mai avrebbero potuto pagarlo quello che valeva.[2]
[Su Martin&Lewis] La cosa più bella della nostra coppia è che potevo scrivere o inventare qualsiasi cosa, senza la minima paura. "Dai facciamolo!" "Si ma siamo in diretta, stasera ci guardano cinquanta milioni di persone. Vuoi fare questo numero senza provare?" "È già pronto. E cosa vuoi che mi succeda se la sbaglio? La prossima settimana sarò di nuovo qui." "E va bene." Ecco la bravura di Dean era che reagiva come se avessimo provato per quattro anni. Non mi ostacolava mai, sapeva sempre quando darmi la battuta, quando farsi da parte, dove volevo arrivare io e dove doveva portarmi lui. A volte, sulla scena, restavo a bocca aperta davanti a questa sua straordinaria bravura. E pensare che nel 97% dei casi neanche si rendeva conto di essere così bravo.[2]
[Su Elvis Presley] Era una delle persone più gentili che abbia mai conosciuto. [3]
[Su Dean Martin] Non gli davano mai il riconoscimento dovuto. Se avessimo scambiato i ruoli, se dopo tutto quel lavoro di squadra a restare in ombra fossi stato io, non sarei rimasto un anno, altro che dieci.[2]
Dean non ha mai potuto mettere tutto se stesso nelle sue canzoni perché non era certo del suo valore. Non aveva autostima. Autostima di nessun tipo, voglio dire. Metteva in ridicolo le sue canzoni e se stesso come cantante, perché se avesse fatto sul serio, il pubblico avrebbe potuto paragonarlo agli altri cantanti. Quando parlavamo di sua madre, venivano fuori i suoi demoni, le sue paure. Sua madre era un'italiana, una donna brutale che gli ha dato un solo articolo di fede per cavarsela nella vita. Cioè: tu i soldi te li metti in tasca e non li tiri fuori mai. Prendi sempre, non dare mai. Se piangi, non vali niente. Se hai emozioni, sei un frocio. E tutta questa roba gliel'ha piantata bene a fondo nella testa. Io, in un anno, gliel'ho espiantata per bene. Parlava con me come un ragazzino che ha bisogno di sfogarsi.[2]
[Su Dean Martin] Dean aveva trovato un trucco fantastico, nella vita. Stare in disparte andava benissimo per lui. Stare sopra la mischia andava ancora meglio. Il suo distacco, la sua freddezza ironica: ecco che cosa gli risolveva la vita.[2]
[Su Dean Martin] Il giorno del suo ventinovesimo compleanno mi abbracciò, perché l'avevo abbracciato io. E gli piacque, quell'abbraccio. Poi mi respingeva subito, come si fa col fratellino piccolo: "Cosa sono questi abbracci!". Ma gli piaceva, eccome se gli piaceva. [...] Con una mano mi respingeva, con l'altra mi tirava a sé. Perché a quel tempo io ero l'unico essere umano al mondo con cui Dean potesse comunicare. Era gentile, era generoso, era sciocco, era semplice.[2]
[Jerry Lewis descrive il suo primo incontro con Dean] Di colpo, tra Broadway e la Cinquantaquattresima, Sonny vide qualcuno che attraversava la strada: un uomo alto, scuro e incredibilmente bello, con un cappotto di cammello. Si chiama Dean Martin, disse Sonny. Il solo guardarlo mi intimidì: Come fa uno a essere così bello? (p. 9)
[Dopo la sua prima apparizione su un palco, a cinque anni] Da quel momento in avanti, lo showbusiness mi entrò nel sangue. Insieme alla solitudine. (p. 13)
Dio non mi aveva fatto bello, ma mi aveva dato qualcosa, l'avevo sempre saputo: il senso dell'umorismo. (p. 14)
La verità è che mi venivano sempre in mente frasi divertenti: io pensavo divertente. Ma con quella voce nasale da ragazzino che mi ritrovavo, mi vergognavo di cosa sarebbe venuto fuori se avessi parlato. (p. 15)
Diciannovenne ancora in via di sviluppo, ma con un ciuffo in testa che mi aggiungeva quindici centimetri grazie a un chilo e mezzo circa di brillantina arancione... che attirava anche le mosche! I pantaloni erano così attillati che mi bloccavano la circolazione del sangue sulle anche, e portavo il mio maglione Irvington High School, lana cento per cento, un po' pesantuccio per Atlantic City alle tre del pomeriggio di un giorno di luglio. La verità era che non avevo vestiti, a parte il mio abito blu da palcoscenico che sul culo era già diventato trasparente per il troppo uso. Finché i pantaloni non ti si logorano sul didietro, non sei un veterano. (p. 27)
[All'arrivo di Dean Martin per un periodo di lavoro insieme] Eravamo insieme, e la cosa mi rendeva molto felice. Non ero tagliato per la solitudine. (p. 29)
Dean filosofeggiava spesso, dicendo cose che avevo l'impressione avesse dentro di sé da tanto, tantissimo tempo. (p. 30)
[Skinny D'Amato chiede ragione del primo numero comico di Dean e Jerry] "Perché voi due non mi avete detto che facevate un numero insieme?" chiese Skinny. "Perché non lo sapevamo neanche noi" risposi. (p. 39)
Dean era sempre quello raffinato, il fico, quello più in alto di grado. Io ero lo sfigato, l'irriducibile bambino di nove anni insicuro ma pericolosamente disinibito. Quello che faceva lui, quando cantava e recitava, avrebbe funzionato anche senza di me, se si fosse sentito sicuro di sé. Ma quello che facevo io non avrebbe mai funzionato senza di lui. Perché tutto quello che facevo io lo facevo per Dean. Ogni mia mossa era motivata dal suo "Ah, ah". Nessuno capiva il potere del suo "Ah, ah". Faceva fermare anche i gatti randagi. (p. 44)
Ciò che vedeva il pubblico, in un'epoca di grande odio, era l'espressione degli occhi di Dean mentre mi guardava dare di matto. Era l'espressione dei miei occhi mentre lo guardavo cantare ed essere così perfetto. Non potevi fingerlo. E la gente lo vedeva. All'istante. Lo sentiva dal di dentro. (pp. 45-46)
Una volta esagerai a tal punto che ci trovammo letteralmente naso contro naso, con forse tre millimetri di aria tra di noi. E Dean disse, con un tono realmente arrabbiato: "Finalmente sono arrivato a un punto nella nostra relazione in cui posso dirti che se lo rifai è finita. Hai capito? F-I-N-I-T-A". Io gli stampai la mia bocca sulla sua dandogli un grosso bacio, e dissi: "Ho capito perfettamente". [...] Il 99% degli uomini di spettacolo sarebbero sbiancati, sarebbero saltati in aria e avrebbero interrotto la gag. Non il mio partner. Lui non si mosse. Nel frattempo la gente del pubblico piangeva dalle risate. (p. 48)
Stavo imparando che il successo e la fama hanno un effetto afrodisiaco tanto quanto il bell'aspetto. (p. 58)
"A te come va ebreo?" Per cinquant'anni Frank mi ha chiamato sempre così, e la cosa mi piaceva da morire. (p. 304)