Intervista di Irene Gianeselli, Oubliettemagazine.com, 10 marzo 2017.
Ritengo che per un attore l'esperienza del gruppo sia fondamentale perché tutti gli elementi devono sentirsi creativi tutti allo stesso modo del regista. Ciò che un gruppo richiede al singolo attore, oltre che la professionalità e l'apporto specifico della recitazione, è una partecipazione creativa e immaginativa.
Io venivo dalla danza, un mondo in cui la parola era meno determinante ma per me anche la parola è corpo.
Un attore senza corpo è un attore radiofonico. Anche nella parola ci deve essere la partecipazione del corpo.
Rivendicare il teatro come spazio d'immaginazione, in un momento dove tutto è schiacciato dalla televisione, dalla bidimensionalità.
Il teatro può essere ancora un luogo dove l'immaginazione è sovrana e in questi termini è il luogo dove l'attore può trasformarsi totalmente per fare ciò che la vita non permette di fare.
Sono un po' pessimista sulla situazione teatrale italiana, perché ovunque si tende a produrre e immaginare prodotti che sono di puro consumo. Il teatro sembra un bazar, con l'attore televisivo, con le cose messe su con un cinismo e una mancanza di necessità abbastanza aberranti.
La vocazione dell'attore come tutte le vere vocazioni è una dimensione che va messa in crisi.
Le vere vocazioni sono quelle in cui non dai mai per dato il tuo credo. Lo metti in crisi, lo frantumi e lo recuperi con lo stesso movimento che ha la vita.