Ci ho messo sei anni per riuscire a portare questa storia d'amore tra un mostro e una donna sul grande schermo. Nella sua fase primigenia, per delinearne gli aspetti visivi, mi sono fatto ispirare dalla colonna sonora composta da Jon Brion per Ubriaco d'amore, diretto da Paul Thomas Anderson. Ovviamente la fonte di ispirazione più immediata è il film Il mostro della laguna nera, ma è stata quella musica a ispirarmi la love story tra un mostro marino e una donna, oltre a un B-movie giapponese su un pesce nero. E ci sono voluti tre anni per dare vita all’anfibio antropomorfo; credo la più lunga gestazione per una creatura cinematografica.
Il cinema è pieno di versioni di La Bella e la Bestia puritane e pudiche, dove il mostro diventa un principe, ma in cui manca la parte erotica. Oppure, ci sono le variazioni kinky e perverse. Io invece volevo una storia d'amore che includesse la sensualità. Avevo bisogno anche che Elisa non fosse una principessa, ma un personaggio unico, che impiegasse tre minuti per far bollire le uova, tre minuti per masturbarsi, tre minuti per lucidare le scarpe... Un personaggio puro e innocente, ma allo stesso tempo con istinti sessuali vivi.
L'idea più pericolosa al mondo è la perfezione. Tutti i fascismi e i nazionalismi manipolativi invocano la perfezione. L'imperfezione, invece, è raffigurata dai mostri. L'atto d'amore supremo che si può fare è riconoscersi l'un l'altro: se io ti vedo, allora tu esisti e viceversa. E, soprattutto, ti vedo così come sei e non come vorrei che tu fossi. Esattamente come i mostri che si presentano per quello che sono; per loro è impossibile mentire. King Kong è un gorilla ed è puro. Come Elisa, che è un’emarginata ed è innocente. Il mostro è l’emblema della tolleranza.
Intervista di Silvia Nittoli, Badtaste.it, 19 febbraio 2018
Sono arrivato alla conclusione negli ultimi dieci anni che non sono un fan de Il mostro della laguna, ma sono un chierico, sono un evangelista. Sento davvero un legame con questa creatura. Non sono il tipo di fan che tiene le figurine nella scatola. C'è qualcosa di complesso nella sua immagine che lo rende molto intimo per me. Avevo sei anni quando ho visto Julie Adams che nuotava con la creatura sotto di lei e mi sono sentito travolto dall’arte, ho sentito letteralmente la sindrome di Stendhal. Ero un bambino e sono stato travolto da delle emozioni che non conoscevo. Sapevo cosa era l'amore, l'amore in senso romantico, e credevo che il film sarebbe finito con loro che stavano insieme e così non è stato. Il film quindi per me è diventato un film che parla di un'invasione. Questa creatura stava nuotando nel suo habitat, nel suo fiume e quest'uomo arriva e la cattura! Una cosa così ingiusta. Quel mostro è stato con me per anni, da bambino poi ho continuato a disegnarlo tutti i giorni. Lui e il fantasma dell’Opera, li disegnavo sempre. Poi è diventata quasi un'immagine da balletto sincronizzato, come un musical che è rimasto nella mia testa, e me la sono portata dietro tutta la vita, fino a quando nel 2012 ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di La forma dell'acqua.
Mi ricordo da bambino un Gesù nella mia chiesa locale che era rappresentato con delle ossa viola e verdi. Quando ho visto Frankenstein aveva la stessa aria tragica, e ho pensato fosse una sorta di messia. I mostri sono diventati dei marcatori della normalità, nel senso che sono stati uccisi dai cosiddetti normali, e alla mia età non ho ancora capito cosa "normale" voglia dire! Non lo capisco e credo che quello che viene considerato standard sia in realtà distruttivo, perché se essere normale significa essere perfetto allora non è possibile. I mostri per me sono i santi patroni dell'imperfezione e io prego loro tutti i giorni perché siamo tutti imperfetti. Gli standard che ci imponiamo ci distruggono, crediamo che si debba essere bianchi o neri, ma in realtà è possibile vivere solo nel grigio, altrimenti viviamo nella paura. I mostri sono tolleranti, non mentono mai, sono quello che sono. Godzilla non verrà mai a dirci: "Prometto di non distruggere niente!". No, arriverà e con un colpo di coda distruggerà tutto. Dal primo secondo in cui vediamo i mostri sappiamo cosa sono.
L'unica cosa che si può fare sono i film che ti piacciono, perché nessun altro li farà, e magari per una buona ragione!
[«Perché hai ambientato il film negli anni '60?»] Perché parla dell'oggi, delle minoranze di genere, di maschilismo tossico, di dominazione, di razzismo, di abuso di potere, di divisione, di guerra fredda... di tutto quello che si parla al giorno d'oggi!
Il film è fatto con una palette di colori molto semplici. Il blu e il ciano sono per l'appartamento di Elisa che è sempre sott'acqua, pieno di perdite e di macchie. Al di là del corridoio, per ogni personaggio che vive all'aria, c'è il colore oro, quindi gli ambienti per Giles, Strickland e Zelda sono sull'ambrato. Poi il rosso per il cinema che rappresenta la vita e l'amore. Quando Elisa apre la porta del cinema infatti è tutto rosso, le poltrone, il sangue... Dopo aver fatto l'amore anche Elisa inizia un po' alla volta a vestirsi di rosso. E infine il verde che è il futuro, l'ossessione dell'America per il future, quindi le gelatine, le torte, le macchine, il laboratorio. Tutto quello che dovrebbe essere futuristico è stato pensato per essere verde.
Il personaggio di Michael Shannon nel film è il classico uomo che vuole avere tutto sotto controllo, dominare gli altri, sua moglie, la creatura, Elisa ed è un'immagine senza tempo perché il mondo è manipolato. Non è solo una persona a essere così e non lo sono tutti, è il mondo a essere fatto in questo modo ed è quello che dobbiamo cambiare attraverso le leggi.
Sally Hawkins per me è una delle attrici migliori e volevo che la protagonista fosse una persona bellissima e luminosa, ma non in una maniera da pubblicità di un profumo. Volevo qualcuno che si può incontrare mentre si aspetta l'autobus, qualcuno che illumina lo schermo appena viene inquadrato.
Come regista, è tuo dovere sforare il tempo e il budget. Se hai abbastanza tempo e soldi, stai sbagliando qualcosa.
Dirigere è una negoziazione di ostaggi con la realtà, è come orchestrare un incidente.
La maggior parte delle volte faccio film perché la premessa è stupefacente. Quando sei sul set e hai assorbito cento anni di cinema, devi fermarti e dire ‘Ok, è quello che succederebbe normalmente in quel film. Cosa posso fare per renderlo diverso?’ E ti fermi. Devi fermarti.
[Su Pinocchio] Mi ha colpito perché Pinocchio vedeva il mondo come lo vedevo io. [...] Dal mio punto di vista, non è un film fatto per bambini. Perché dico questo? Perché l’animazione in generale non è un genere per bambini, ma i bambini possono guardarlo se i loro genitori ne parlano con loro.
Mi infastidiva che le persone chiedessero obbedienza a Pinocchio, quindi volevo fare un film sulla disobbedienza come virtù, e sul fatto di non dover cambiare per essere amato. La nostra versione riguarda appunto la disobbedienza che è un fattore primordiale per diventare umani e diventare umani non significa cambiare te stesso o gli altri ma capire.
Il fascismo, per me, è una questione molto maschile, molto paternalistica e uno dei fili del film è quello. Non è la parte predominante, ma uno dei filoni. Uno dei temi toccati da questo film è quello della paternità. Il fascismo assomiglia a una forma paterna di diverso tipo, in noi c’è il desiderio di liberarsi di un padre che vuole imporci il suo pensiero. Lo sentivo sin da quando ero un adolescente che se avessi fatto Pinocchio, sarebbe stato così.
Intervista di Stefania Ulivi, Corriere.it, 14 dicembre 2022
Il rapporto con Pinocchio è iniziato quando ero piccolo. Quello Disney del 1940 [Pinocchio] è stato il secondo o terzo film che ho visto con mia madre. Mi impressionò nel profondo: per la prima volta ho sentito quello che di fragile e terribile si prova da bambini. Mi fece paura e insieme mi ci riconobbi. Mi sentivo come lui, non avrei saputo spiegarlo meglio.
Lo considero il terzo capitolo della trilogia iniziata con La spina del diavolo e Il labirinto del Fauno, ambientati durante il franchismo. Ho pensato subito di ricollocare la favola in questo momento storico. È una storia di padri e figli, uno dei perni del fascismo è la figura paterna, il paternalismo come forma di dominio ed educazione all’uniformità e al conformismo.
Volevo dire che Pinocchio deve essere amato senza cambiare. Pretendere che qualcuno si trasformi come requisito per amarlo mi sembra un ricatto terribile. Inaccettabile.
Era importante non mettere un finale tutto "e vissero felici e contenti". Non pretendo di dare messaggi con il mio cinema, ma spero che aiuti a fare capire che possiamo imparare ad amare l’attimo, i momenti di felicità. Perché passano.
La complessità del presente è che viviamo a stretto contatto, vicino alla morte, alla perdita, ai lutti. Negli ultimi tre anni ci siamo stati immersi con il Covid e la guerra: molti hanno vissuto lutti pesanti.
I due santi patroni della mia vita sono stati [Pinocchio] e Frankenstein. È in un certo senso la stessa storia raccontata in toni differenti, la storia di un padre che adotta un figlio e una creatura che deve imparare come stare al mondo. È una metafora meravigliosa del nostro percorso sulla Terra.
L’animazione è cinema e basta, non una sua forma minore. E non è neanche vero che sia un genere per bambini. È arte e basta.
[«Come si è regolato con gli altri Pinocchio: quello di Roberto Benigni, quello di Matteo Garrone, la nuova versione Disney con Tom Hanks?»] Ho cercato religiosamente di evitarli da adulto. Visto che mi aveva fatto quell’impressione da piccolo, sono cresciuto con la certezza di fare il mio. Ho visto alcune versioni animate, compreso un Pinocchio nello spazio giapponese, da piccolo. Da adulto li ho evitati, quando vuoi raccontare una storia non vuoi vedere cosa hanno fatto altri. Ne ho parlato con Matteo Garrone, che mi pare un regista sensazionale: con lui mi sono confrontato. Esistono almeno sessanta versioni a livello internazionale tra animazione e film di finzione. L’unica cosa che potevo fare era seguire la mia idea.