Intervista di Mario Manca, vanityfair.it, 22 maggio 2022.
Ho sempre trovato un'accezione di leggerezza nella parola "distrazione", invece, col tempo, mi sono resa conto che è una dissociazione della mente, una fuga dalla realtà legata a un significato profondo, preciso. È stato interessante raccontarlo. [...] Ho iniziato a cercare notizie di bambini perduti su internet, imbattendomi nel lavoro di un signore americano che, nel 2010, ha vinto il Pulitzer per aver approfondito il tema dei genitori che lasciano i bambini nei seggiolini.
Nella generazione delle nostre nonne il ruolo della madre era circoscritto. Oggi, invece, giochiamo su molti tavoli ma, per contrappasso, non abbiamo più libertà verso noi stessi. A farmi interessare al tema è stato anche aver lavorato a un programma della Rai – che non ha mai visto la luce – sulla fecondazione assistita: dovevamo affrontare due storie, una col bambino che è arrivato e l'altra col bambino che non è arrivato. È stato strano sentirmi dire dalla prima coppia che il percorso è stato durissimo e che ha portato quasi a un allontanamento: avere un bambino può mettere a dura prova.
La famiglia, dal punto di vista narrativo, è tutto. Mio padre ha avuto tre mogli e, infatti, noi siamo tre figli da tre donne diverse: mi interessa il punto di vista sia dei figli che dei genitori, anche perché mi sembra che tutti abbiano delle colpe, non si riesce mai a trovare la quadratura del cerchio, e questo mi intriga. Più in generale, cerco di occuparmi di cose che mi toccano e che posso studiare: rimango vicina al mio territorio.
Oggi c'è un'iperprotezione nei confronti dei bambini: il perché non lo so, ma credo che sia un muscolo sociale che sta andando in risarcimento rispetto a noi.
[Su Il terzo uomo] Il film è un potente affresco della città di Vienna lacerata dalla guerra, e si muove abilmente tra melodramma e noir. La critica lo ha spesso avvicinato ai film di Alfred Hitchcock, specialmente quelli del periodo inglese, per la commistione di ironia e violenza latente. Senza fornire soluzioni, The Third Man traccia un complesso conflitto tra il bene e il male: da un lato la rettitudine e l'ingenuità di Martins, dall'altro la sfrontatezza e il cinismo di Lime [...]. (The Third Man)
[Su Mel Ferrer] Interprete di numerosi film tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta, per il suo aspetto elegante e malinconico è risultato particolarmente efficace nei ruoli in costume di nobiluomini aristocratici e seducenti, il più famoso dei quali resta quello del principe Andrej in War and peace (1955; Guerra e pace) di King Vidor. (FERRER, Mel)
[Su Roberto Faenza] Nella sua attività si possono individuare due fasi: la prima fortemente caratterizzata da intenti politico-satirici, sulla scia della vena polemica, anticonformista e impegnata del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta; la seconda da una ispirazione letteraria, di accurata confezione formale, spesso di ricostruzione storica e in costume, per lo più magniloquente e calligrafica. (FAENZA, Roberto)
[Su Glenn Ford] Raggiunta la popolarità all'inizio della carriera grazie a Charles Vidor, che lo volle accanto a Rita Hayworth in Gilda (1946), F. ha continuato a indossare la maschera del "duro dal cuore d'oro" in noir (come The big heat, 1953, Il grande caldo, di Fritz Lang) e western, interpretando con sobrietà ed efficacia eroi spesso ambiguamente al confine tra il bene e il male. La felicità della recitazione, le doti di simpatia, eleganza, ironia lo hanno reso interprete non meno suggestivo di commedie sofisticate, melodrammi, nonché storie di violenza metropolitana, come The blackboard jungle (1955; Il seme della violenza) di Richard Brooks, in cui ha offerto una delle sue prove migliori. (FORD, Glenn)