Claudio Bazzocchi, balcanicaucaso.org, 14 gennaio 2004.
In Albania non esiste il problema del crimine organizzato, l'Albania è gestita dal crimine organizzato e la classe dirigente albanese è al servizio dell'economia criminale a partire da Fatos Nano, che non può e non vuole fare nulla contro di essa.
Se nel periodo comunista noi eravamo in un sistema caratterizzato dal massimo di eguaglianza e dal massimo di autoritarismo, ora abbiamo un sistema con il massimo di ineguaglianza e il massimo di autoritarismo, insomma un sistema fascista che attua la spoliazione sistematica delle risorse della povera gente.
Tirana è in mano a pochi grandi costruttori e ad una gigantesca speculazione edilizia, che elimina giorno per giorno gli spazi pubblici della città e non si cura affatto dei bisogni sociali della popolazione.
In Albania, non è solo la società civile a non funzionare bene, ma non funzionano bene l'economia che è informale, lo stato, il sistema della giustizia, il pluralismo partitico che è ancora molto debole.
Ho sempre sostenuto la tesi che se in Albania si parla di Sali Berisha, Edi Rama, Fatos Nano, cioè la parte superiore del cerchio, e sono loro a fare il gioco, ad essere gli attori, in retroscena sono gli oligarchici a tirare i fili e pagare questi politici perché i loro stipendi sono minimali rispetto al livello di vita che hanno. Gli oligarchici in retroscena non si toccano, e non si tratta di colpire loro ma l'intero sistema. Serve qualcuno che dall'esterno del sistema possa combatterlo per poterlo cambiare.
È uno dei talloni d'Achille della società albanese il fatto che si pensi ai giovani come portatori del nuovo, del cambiamento, dell’idealismo, della moralità. Di fatto, oggi i giovani non lo sono.
Il sogno degli albanesi è diventato la fuga e la costruzione della vita in Occidente.
L'Albania è stata ed è minacciata da due pericoli imminenti. Il primo l’ha superato in parte ma non del tutto. Ed è la monopolizzazione del potere insieme all'autoritarismo che minacciano la libertà. L'altro, legato al primo, è il sistema economico degli oligarchici. Nel primo periodo di Berisha, i problemi principali erano l'autoritarismo e l'assenza della libertà di parola. Nel secondo periodo sembrava che fosse garantita la libertà di espressione ma il potere economico e politico si è concentrato in poche mani e ha manipolato la libertà di espressione non secondo le vecchie forme di controllo poliziesco ma comprando il giornalismo, gli intellettuali, una forma più soft ma ugualmente pericolosa. Il primo pericolo è sempre presente ed arriva una situazione in cui questo regime che è tollerante a modo suo, diventa più intransigente e autoritario. Per tanto l'esistenza di un'altra forza che resiste per quello che può è da sostenere perché crea un equilibrio e spazi di libertà.
Io non accetto il termine "dissidente" quando mi paragonano con quelli che si chiamano dissidenti in paesi come Polonia, Checoslovachia, Ungeria anche L'Unione Sovietica. La differenza sta nel fatto che da noi c'è stato un regime di terrore stalinista fino alla fine, mentre da loro è stato condannato il terrore stalinista. Quindi dissidenti come Saharov, Havel, Michnik potevano comunque infondere qualunque speranza alla gente con i loro atti, malgrado qualche anno di prigione, mentre da noi il regno del terrore non lasciava questo spazio. La nostra sorte infondeva solo paura tra la gente. Quindi mi considero più una vittima, un sopravvissuto, che un dissidente. Un po' come i sopravvissuti dell' Olocausto.
Io ho un rapporto ambiguo con i premi. Cerco di non dargli troppo importanza.
Penso che ci sia una grande differenza tra L'Europa che ho incontrato nel tempo della mia liberazione e l'Europa di oggi. Quella era una Europa delle speranze per tutti, questa è un' Europa delle delusioni per tutti. In quegli anni tutti volevamo, con grande volontà, salire a bordo della barca Europa, per intraprendere un viaggio verso un futuro comune. Oggi sembra che questo viaggio abbia perso la sua meta e molti vogliano scendere dalla barca. Secondo me bisogna ricostruire il futuro e, per riprendere il viaggio, anche modificare la barca.
A quindici anni amavo ancora Enver Hoxha. Una volta lo vidi a un congresso della Gioventù comunista vestito di bianco, come un dio. Tutti lo applaudivano. Allora non conoscevo la vera realtà albanese, conoscevo solo la mia bella vita, di cui la tv italiana faceva parte: la vita ai tempi di Enver Hoxha. Mancava la coscienza di sapere cosa c'era intorno. Quando Enver Hoxha, come un dio, iniziò a parlare dalla tribuna, solo per un momento la mia grande fiducia e devozione si incrinò. (p. 27)
Per tornare a Hoxha, non l'ho mai sentito esprimere niente di profondo o di raffinato dal punto di vista ideologico. Esercitò duramente il potere, niente di più. (p. 34)
Credo che ci sia stata una sorta di schizofrenia nella mente di Hoxha: sapeva com'era l'Occidente, ma in qualche modo se ne dimenticò o fece di tutto per dimenticarsene, tant'è vero che, una volta preso il potere, non andò mai più all'estero. Alcuni suoi ministri ci andarono; lui no. (p. 34)
Le cose importanti erano il partito, la patria, il socialismo. Per la propaganda, ma anche per la mentalità tradizionale e machista albanese, bisognava persino vergognarsi dell'amore, perché era un segno di debolezza. Per questo quel genere di amore nelle canzoni non si trovava. Lo sostituiva un sentimento artificiale, l'amore socialista, cemento della famiglia, pilastro della società. (p. 42)
Enver Hoxha decideva tutto. Se proprio nasceva da qualcun altro un'idea, bisognava sottoporla al compagno Enver, perché era lui a prendere tutte le decisioni. Tutto quello che si faceva doveva passare da lui. Era lui che stabiliva la linea del partito e faceva i cosiddetti discorsi programmatici. Tutti gli altri non dovevano far altro che mettere in atto le idee del compagno Enver, o farne propaganda. (p. 43)
Fatos Lubonja, Intervista sull'Albania. Dalle carceri di Enver Hoxha al liberismo selvaggio, Casa editrice il Ponte, 2004, ISBN 88-900811-5-5