L’estate italiana dei suicidi [dell'anno 1993] sarà ricordata come una delle stagioni più drammatiche del dopoguerra. Muore in carcere il campione dell’impresa pubblica, Gabriele Cagliari, e tre giorni dopo gli risponde lo sparo di Raul Gardini, campione di un’impresa privata che ha sfidato il grande mistero della chimica di Stato, fino a ripiegare sconfitto davanti al terzo interlocutore: i signori dei partiti, regolatori e padroni degli anni Ottanta. I due epiloghi, umanamente pietosi e politicamente feroci, ci dicono che quegli anni e quel potere sono finiti davvero, ma per dirlo scelgono la strada estrema del suicidio. Quasi che non si potesse sciogliere altrimenti l’ultima dipendenza da quell’epoca.[1]
Nel momento più acuto dello scontro sociale, con i sindacati divisi e il governo all'attacco della Cgil, scoppia il caso delle lettere di Marco Biagi, cento giorni dopo l'assassinio del giuslavorista da parte delle Brigate Rosse. [...] Nei testi c'è l'angoscia lucida e disperata di un uomo che si sente bersaglio del terrorismo, che riceve telefonate minatorie, che teme di fare la fine di Massimo D'Antona: e che vede revocata la sua scorta senza un motivo spiegabile, "per ragioni che ignoro", come scrive impotente [...]. È un documento terribile. Mentre si susseguono le telefonate anonime, informatissime sui suoi spostamenti e sulla sua inermità , Biagi si preoccupa per l'angoscia in cui vive la sua famiglia, e chiede a tutti di aiutarlo a portare avanti il suo lavoro, ripristinando la protezione: invano. [...] L'angoscia di un uomo che si sentiva ed era condannato a morte, merita considerazione e rispetto, e il governo e la polizia non hanno avuto né l'una né l'altro, lasciando Biagi solo. Oggi le parole del professore devono far riflettere tutti, a partire dal sindacato e dal governo, troppo spesso abituati nel loro linguaggio a scambiare gli avversari per nemici.[2]
Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all'isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest'avventura. E l'Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere.[3]
Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l'impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com'è avvenuto altre volte in passato, dovunque.[3]
Aggiungiamo pure Berlusconi, che mentre cercava l'amnistia ha trovato per strada l'amnesia degli italiani e si spaccia per Cavour, ma in realtà ha scosso per primo i muri maestri del sistema con la legislazione ad personam, il conflitto di interessi, la compravendita di parlamentari, la confisca totale del mercato televisivo del consenso. Avremo un perimetro completo dell'antisistema, che ci porta a un inevitabile paradosso democratico: anche se non lo sa, tocca alla sinistra di governo difendere il pensiero liberale, vero nemico dei due populismi.[4]
Mutando partner internazionali come in una quadriglia, passando da Adenauer a Orban, scambiando Putin per Roosevelt, preferendo Erdogan a Merkel, Salvini e Di Maio stanno in effetti accompagnando l'Italia fuori dalla collocazione internazionale della sua tradizione, senza assumersi la responsabilità di questo passaggio, delle sue ragioni e delle conseguenze davanti al Parlamento, muto e inconsapevole.[5]
Negli ultimi giorni pulsioni fasciste clandestine e segnali facinorosi pubblici si sono intrecciati, costringendo la destra politica a renderne conto. Giorgia Meloni ha risolto la questione spiegando che questi atti danneggiano la destra, come se fosse questo il problema, mentre è evidente che la destra è danneggiata dalla sua indulgenza, insidiata dalla sua ambiguità.[6]
Il virus [COVID-19] ha fatto politica, attaccando le istituzioni e costringendo il meccanismo burocratico e regolamentare di Bruxelles a stravolgere se stesso fuoriuscendo dai parametri e dai controlli per inventarsi una nuova missione: la ricostruzione, finanziata con gli Eurobond, la mutualizzazione del debito tra i diversi Paesi, cioè una misura straordinaria che soltanto pochi anni fa era impensabile e che cambia il volto dell’Unione.[7]
Non c'è [...] soltanto un'ossessione difensiva di sicurezza nella pretesa di Putin di ricreare intorno alla Russia un'area d'influenza che tenga a distanza i missili e gli uomini della Nato. C'è l'inseguimento della dimensione imperiale su cui in realtà si regge il patto autoritario tra ogni Capo del Cremlino e il suo popolo, perennemente orfano e pretendente di quell'aura di potere sovrano allargato: o per estensione territoriale, o per egemonia politica, o per preminenza culturale, o addirittura per destino della storia. Quel mandato che diventa missione assegnata dalla Russia a se stessa, rispondendo nel caso dell'Ucraina a una vocazione naturale e a un vincolo metafisico che Putin non ha avuto esitazione a definire "spirituale".[8]
Non rimpiange il comunismo, la bandiera rossa, la falce e il martello: ma la solidità del comando che quella dottrina conferiva a Mosca, l'autorità che quello stendardo portava con sé, la differenza originaria e perpetua che quel simbolo attribuiva alla Russia, dandole la potestà di rappresentare l'altra metà del mondo, nella lunga contesa bipolare con l'Ovest. Putin non ha bisogno dell'investitura bolscevica per esercitare un dominio assoluto sul Paese, garantito da un metodo autoritario che ha raso al suolo ogni opposizione, concentrando direttamente sulla sua persona l'esercizio del potere assoluto.[9]
Qui sta – nel piccolo spazio della vicenda italiana – addirittura qualcosa di universale, che consente a Bella ciao di diventare un canto che non ha confini e non ha fraintendimenti, si può intonare a qualsiasi latitudine perché parla a tutti i popoli proprio della semplicità radicale di un assoluto: l'opposizione e la lotta contro il sopruso dell'occupazione straniera e l'abuso di un potere dispotico ai danni della libertà.[10]
Meloni è atlantista, a differenza di Salvini: ma entrambi possono dire di essere occidentali? Non è la Nato che definisce quell’identità (se mai la difende), ma la democrazia dei diritti e la democrazia delle istituzioni, nate dalle costituzioni ispirate ai valori liberali. Resta dunque un dubbio, capitale: il giorno dopo il voto, se vince questa destra, ci sveglieremo ancora occidentali?[11]
Non per caso Mussolini appena arrivato al potere recide quel nodo che tiene insieme solidarietà, organizzazione, tutela, passione in un'embrionale proiezione inevitabilmente politica, e dopo aver devastato e incendiato in soli due mesi del 1921 59 Case del Popolo, 119 Camere del lavoro, 197 cooperative, 83 Leghe contadine, il 19 aprile del 1923 abolisce per decreto la festa del Primo Maggio.[12]
Questo è il vero obiettivo della destra estrema che ci governa: cancellare l’imprinting che la Resistenza, con la lotta armata al fascismo e al nazismo, ha dato alla democrazia italiana riconquistata, alla Costituzione che la traduce in principi, regole e valori, alle istituzioni che coerentemente ne derivano. Una Repubblica disossata, senza più una spina dorsale costruita nella lotta per il recupero della libertà, neutralizzata negli ideali, liberata dal mito fondatore della democrazia che spodesta la dittatura e recupera il concetto di Patria nello spirito della Costituzione.[13]
Per rassicurarci, potremmo cominciare col dire che la "cosa-democrazia" diventa rilevante quando la "parola-democrazia" non è più in discussione. Siamo una democrazia giovane ma ormai consolidata e non revocabile. Non si può ragionevolmente credere che oggi qui, in mezzo all'Europa, qualcuno sia capace di attentare al sistema democratico. Dunque si può ragionare senza rischi e senza ambiguità sul funzionamento delle nostre istituzioni e del meccanismo democratico. Potremmo dire che finalmente la società non si accontenta più di avere la democrazia, non le basta contemplarla, come un orizzonte statico di riferimento, immutabile: pretende di misurarla nel suo divenire. C'è per fortuna un'autonomia della società anche rispetto alle regole di funzionamento del sistema che, nel momento in cui vengono riconosciute, sono anche valutate e giudicate. E c'è per fortuna una vitalità della democrazia che si muove e muta insieme con la società che le dà forma. Non si tratta di una fede immobile o, peggio, di un'ideologia. Altrimenti sarebbe inutile misurarla nel tempo.
Citazioni
L'equivoco è nei concetti. La democrazia non ha bisogno di qualcuno che agisca "per il popolo" in quanto il popolo è sovrano. O meglio: se il popolo è sovrano, agire per il popolo sta nel mandato dei rappresentanti, non nella loro discrezionalità. Mi pare che qui stia anche l'insidia di un altro concetto, quello della cosiddetta "democrazia compassionevole", che sostituisce la benevolenza individuale e dei gruppi sociali alle strutture dello Stato-benessere, la carità al welfare e ai diritti. Com'è evidente, la beneficenza non ha bisogno della democrazia. Ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza. Insomma, la forma democratica pretende una sostanza democratica. (p. 26)
Preannunciata dalla musica molto alta, con i Disturbed che uscivano dalle casse e sembravano martellare proprio lui con i timbri dell'hard rock ("Are you ready? We see you"), l'auto risaliva piano via dei Velini e il sabato mattina impigrito di Macerata, quel 3 febbraio 2018, giorno di san Biagio. Con i finestrini abbassati, l'uomo guardava i due marciapiedi, a destra e a sinistra, rallentava dovunque vedeva persone muoversi da lontano, sole o in gruppo. Faceva così da qualche chilometro, come se cercasse qualcosa, o aspettasse qualcuno, o avesse un appuntamento in città, nelle strade, nelle piazze, nei giardini e poi, svoltando, davanti ai bar del centro. L'andatura dell'Alfa 147 nera era sempre la stessa, lui non aveva fretta. Non doveva arrivare da nessuna parte, doveva solo trovare quel che stava braccando, senza sapere quando e dove lo avrebbe incontrato.
↑ Da Orgoglio e mistero, La Stampa, 24 luglio 1993.