1 gennaio 1940. Ho esaminato per conto della Casa Editrice Gambino le poesie di Lanfranco Fava. Stupisce ora leggere versi così ossequienti alla metrica, limpidi e chiari e modestamente poetici. Qualche asprezza e zeppa o sforzo di accento qua e là, ma spesso belle immagini e onestà letteraria. Mondo poetico di una volta: nostalgia dell’infanzia, amore, speranza. Volo un po’ debole: i componimenti quasi sempre brevissimi, cominciano meglio di come finiscono; si aprono con espressioni concrete e precise e si chiudono con espressioni retoriche e vuote. Mi ha fatto piacere una ballatella «soave e piana» ad Angiolo Orvieto «ultimo poeta di Toscana».
Citazioni
[Commentando Le mie prigioni di Silvio Pellico] Libro profondissimamente vissuto, cosicché sfumano i molti difetti di costruzione, l'impaccio della lingua, gli arcaismi; anche lo spirito rassegnatamente religioso, che vorrebbe essere cristiano, ma è degno di ogni credente, non pesa e non guasta lo poesia, perché non è astrattamente aggiunto a posteriori, ma è un elemento concorde e coerente della lunga vita di sofferenze. (20 febbraio 1941, p. 22)
Avviene pertanto che la storia degli Ebrei rivesta singolarissimi caratteri, che la rendono sostanzialmente diversa da quella di ogni altra nazione. Essi, scartati dall'attività politica, si potevano trovare alla mercé di un principe senza scrupoli o di una plebe fanatica, e ne dovevano subire le persecuzioni senza reagire. Passiva quanto nessun'altra storia dei popoli è dunque la storia di Israele che sempre sottostà alla volontà di altri, ma sotto un diverso aspetto nessun popolo può vantare una più vivace e più consapevole attività individuale proprio perché l'ebreo non ha avuto nella diaspora un'organizzazione statale sua che lo difendesse, ma anche che gli imponesse un modo di pensare e di agire; al contrario, rifuggendo da conversioni che gli avrebbero reso la vita più facile e aperta, i nostri antenati vissero fuori della norma e delle convenzioni per la loro precisa e cosciente volontà. Quindi la storia degli Ebrei è insieme la più passiva e la più attiva fra le storie di tutte le genti. E tutti noi ebrei discendiamo da cento generazioni di eroi: di fatto siamo alquanto più buoni degli altri, incorriamo meno nella violenza e nella disonestà; di fatto la barbarie pagana sente nell'ebraismo il suo naturale nemico. (3 settembre 1941, p. 30)
Sabato 18 tra le grate del cancello della scuola ebraica si trova un biglietto scritto a mano: «Morte agli Ebrei! non vogliamo gli Ebrei in campo di concentramento, ma bensì al muro coi lanciafiamme». In varie parti di Torino centro, scritte analoghe a inchiostro indelebile. Una ventina di giovani ebrei, notti fa, avevano strappato i manifesti; io ero contrario, perché mi pareva che non fossero gli ebrei a doverli strappare, ma forse avevo torto. (20 ottobre 1941, p. 34)
Leggere dei cartelli, che mi sono tranquillamente copiato, nei quali ci si minaccia la morte, accusandoci per esempio di tradimento e di omosessualità, è una esperienza che non a tutti è dato di vivere. La prima impressione è di curiosità, poi ritorna l'eterna domanda fondamentale, la cui ingenuità non è sommersa da tanto studio e tante discussioni: «Che responsabilità abbiamo nell'essere figli di ebrei e non di cristiani?» uguale a quella che possono porsi i cittadini di terre devastate dalla guerra quando riferiscono le persecuzioni nemiche: «È colpa nostra se non abitiamo in un'altra regione»? (Il mese di ottobre 1941, pp. 35-36)
Piccole notizie: una spia ha chiesto dov'è l'infermeria. Pare che i tedeschi siano stati condotti da due che, fermati da Zama, furono condotti alla base di *** e interrogati brutalmente con percosse davanti al commissario. Se si potesse fare dello spirito, direi a Barbato[1] di chiamarci Bande Ezzelino da Romano e non Carlo Pisacane[2]. Così ora comprendo la gravità di aver ucciso qualche prigioniero. Già allora avevo protestato, ma ora capisco come sarebbe stato meglio ricordargli che i tedeschi uccidono i partigiani catturati, poi puntargli la rivoltella, graziarlo e trattenerlo un'ora a spiegargli la certa sconfitta di Hitler e le ragioni della nostra resistenza. Poi congedarlo. Se tornava fra i fascisti, poco male: uno più uno meno fra tanti non conta, ma c'era qualche probabilità che si ravvedesse, che ci restasse amico e ci rendesse qualche servizio, che almeno combattesse più fiaccamente contro di noi. Almeno davanti alla popolazione e alla storia si sarebbero rese note le differenze fra i due metodi. (31 dicembre, p. 145)
La Resistenza per Emanuele è uno sbocco naturale. Dopo i primi mesi con i garibaldini, nel gennaio 1944 si unisce agli azionisti della Val Pellice, di cui diventa commissario politico. Passa di banda in banda, batte la Val Germanesca, marcia per intere notti, partecipa ai combattimenti. All'apparenza è la persona meno adatta alla guerriglia: fragile, timido, maldestro, un «primo della classe» cresciuto in un mondo di libri, cultura e discussioni, oggi si direbbe un nerd.
Il 25 marzo [1944] Artom, che si trova con Franco Momigliano, Ugo Sacerdote, Gustavo Malan e Ruggero Levi, è raggiunto da una pattuglia di SS italiane che risale la montagna: gli altri riescono a fuggire, lui cade a terra sfinito; Ruggero Levi, un altro giovane partigiano torinese, si ferma per non lasciarlo solo. I due amici vengono portati nelle carceri di Luserna San Giovanni. Un fascista, a cui Emanuele ha salvato la vita, lo denuncia come ebreo. I «ragazzi di Salò» e i tedeschi lo sottopongono a spaventose torture. Semisvenuto per le percosse, per umiliarlo lo caricano a forza sul dorso di un mulo. gli mettono una scopa sotto il braccio, un cappellaccio in testa, e con il volto tumefatto lo fotografano ed esibiscono come trofeo di guerra. L'immagine appare sul settimanale bilingue «Der Adler», diffuso in Italia, con la didascalia: «Bandito ebreo catturato».
Il 31 marzo [1944] Emanuele Artom è trasferito alle nuove di Torino, dove muore il 7 aprile a causa delle sevizie. Due suoi compagni di prigionia sono costretti a seppellirlo di notte in un bosco presso Stupinigi. Il corpo dell'uomo che sarebbe forse diventato uno tra i più importanti intellettuali italiani del dopoguerra non sarà mai ritrovato.
↑ Pompeo Colajanni (1906 – 1987), partigiano, comandante delle Brigate Garibaldi della Valle Po con il nome di battaglia di "Nicola Barbato".