Nessuno di noi si aspettava che i liberi prezzi avrebbero portato d'incanto le merci nei negozi.[1]
Se la Russia non evita la crescente minaccia dell' iperinflazione, sarà costretta a scegliere un terzo modello per la sua trasformazione economica, quello dei paesi del Terzo Mondo.[2]
Intervista di Enrico Franceschini, la Repubblica, 11 dicembre 1992.
Il referendum non ha lo scopo di eleggere un nuovo Zar di tutte le Russie, che sia Boris Eltsin o il leader del Parlamento, ma semplicemente di capire in chi si riconosce il popolo per uscire dalla crisi. Il presidente ha deciso che con questo Parlamento egli non può governare normalmente la Russia. Perciò fa una proposta molto semplice al paese: scegliete un nuovo Parlamento, o un nuovo presidente.
C'è il rischio che Eltsin perda il referendum, c'è il rischio che il presidente sia costretto a dimettersi, c'è il rischio che un nuovo Parlamento sia peggiore di quello di oggi. Ma Eltsin ha pensato che a questo punto occorre rischiare, ed è necessario ascoltare la voce del popolo, qualunque sia il suo verdetto.
Da sempre dico a Eltsin che sono pronto a dare le dimissioni, se lui me lo domanda, se è necessario per mantenere la pace sociale. Me ne andrei subito, senza protestare.
Intervista di Fabio Squillante, La Stampa, 25 dicembre 1992.
Il problema non era trovare un modo per passare piacevolmente, in modo indolore all'economia di mercato, ma di evitare la catastrofe e assicurare le funzioni elementari dell'economia: garantire alla popolazione il cibo, il funzionamento dei trasporti e delle forniture di energia.
Ora che è iniziata la privatizzazione su larga scala, rendere irreversibile la trasformazione radicale della struttura politico-economica del Paese è una questione di mesi.
Esistono diversi gruppi della vecchia "nomenklatura". Ci sono i nazionalisti estremisti di ispirazione fascista e gli estremisti comunisti, che hanno trovato un'ottima intesa e sono diventati praticamente indistinguibili sia per gli slogan che per il colore delle bandiere. L'arrivo al potere di questa gente muterebbe in modo catastrofico la situazione non solo nel nostro Paese, ma anche nel resto del mondo.
1993
Capisco che c'è un sacco di gente che non appoggia le nostre riforme, e che voterà per i comunisti o i loro alleati, ma io ho fiducia nel buon senso del nostro popolo, e sono convinto che la grande maggioranza non ha voglia di un altro "esperimento socialista" nel nostro paese, almeno per questo secolo.[3]
Zhirinovskij significa guerra per la Russia. [...] Siamo in una situazione simile alla Germania di Weimar. Sarebbe terribile se ci fosse la minima possibilità che quest'uomo diventasse presidente.[4]
Intervista di Fiammetta Cucurnia, la Repubblica, 24 dicembre 1993.
In Russia non c'è mai stata una vera "terapia shock". Ci sono state misure radicali, ma parlare di shock è ridicolo.
Troppo lentamente sono stati eliminati i retaggi della regolamentazione statale. La politica antimonopolio non è adeguata alle necessità. Non è stata incentivata la nascita di aziende piccole e medie. I sussidi alle aziende non produttive e i crediti sono stati tagliati troppo lentamente, riducendo le risorse da destinare a scopi sociali.
In Russia il rapporto tra datore di lavoro e operai che non si basa esclusivamente su fattori economici, come da voi, ma ha sfumature paternalistiche, quasi familiari. Prima di licenziare, i direttori le provano tutte.
1994
[Sulla prima guerra cecena] Sarebbe un'importante vittoria del partito della guerra, un errore tragico che avrebbe conseguenze gravissime per la democrazia in Russia. Porterà vittime e terrore.[5]
[Sulla prima guerra cecena] Faccio appello a Eltsin affinché non permetta una escalation militare in Cecenia. L'intervento è stato un tragico errore. Conquistare Grozny costerà enormi perdite umane. Farà peggiorare la situazione politica interna in Russia, sarà un colpo all'integrità della nazione, alle nostre conquiste democratiche, a tutto ciò che abbiamo ottenuto negli ultimi anni.[6]
Lettera di dimissioni, la Repubblica, 17 gennaio 1994.
Ho provato a fare del mio meglio per permettere all'economia della Russia di rialzarsi in piedi il più presto possibile e per superare prontamente il periodo di dolorosa transizione. Grazie al coraggio e alla pazienza dei nostri compatrioti, grazie alla sua determinazione, siamo riusciti non soltanto a evitare i cataclismi sociali ed economici che stanno sconvolgendo altre ex-repubbliche sovietiche, ma ad aprire la strada al futuro rinascimento del nostro paese.
Io speravo che il governo, anche se composto da persone di idee diverse, si unisse dietro il presidente e seguisse una politica diretta a stabilizzare l'economia e a prevenire una catastrofe. Purtroppo, negli ultimi tempi sono state prese sempre più decisioni nel preparare le quali io non ho avuto alcuna parte, e alle quali sono anzi categoricamente contrario.
Non siamo abbastanza ricchi per sacrificare il benessere dei nostri cittadini in nome di considerazioni politiche.
[Sulle guerre jugoslave] Conosco la situazione nell'ex Jugoslavia e la sua storia. Mi sono convinto che là non esistono angeli o diavoli. È un conflitto etnico molto complesso, e cercare di attribuire colpe è una "missione impossibile". Posso soltanto dire che io sono categoricamente contrario a un coinvolgimento russo nella guerra dei Balcani.
Vista la trasformazione socio-politica molto dolorosa, traumatica che la nostra società sta attraversando, il pericolo dell'estremismo di destra è particolarmente elevato. Questo non possiamo sottovalutarlo.
Dal 1992 il governo praticava, si può dire, due politiche. La prima, una linea "morbida" fatta di promesse: finanziare vari progetti di bilancio, fornire più sussidi e privilegi. La seconda, una linea dura di realismo finanziario. La discrepanza tra queste due linee era molto forte. Si aveva l'impressione che alcuni nel governo si impegnassero a far cose buone e che altri, chissà perché, li intralciassero. E questi venivano considerati responsabili delle belle promesse non mantenute.
1995
[Sulla prima guerra cecena] Un crimine di guerra e una catastrofe militare. [...] Dal 31 dicembre il conflitto ceceno ha smesso di essere un affare interno della Russia e impone l'attenzione della comunità internazionale.[7]
[Sulla prima guerra cecena] L'avventurismo del potere che ha scommesso su una vittoria militare, rende ancora più grave la minaccia dell'instaurazione di un regime poliziesco nel Paese.[7]
[Sulla prima guerra cecena] Ho sperato a lungo che Eltsin potesse essere il candidato per il nostro schieramento. Sapevamo perfettamente quali erano i suoi punti deboli, ma egli rappresentava la stabilità ed una diga contro il pericolo della restaurazione del comunismo. Dopo la Cecenia però sarà molto difficile per me credere che Eltsin possa essere e voglia essere il candidato dei democratici.[8]
[Sulla prima guerra cecena] Quando Eltsin ha imboccato la strada dei militari per risolvere la questione cecena, ha portato la democrazia russa su una via molto pericolosa, siamo quindi costretti a schierarci contro di lui. Ed io non provo alcuna gioia per questo. Anzi la vedo come una grande sconfitta per la giovane democrazia russa.[8]
La sanguinosa sconfitta in Cecenia non è una sorpresa. È il risultato inevitabile di un regresso della politica russa, evidente fin dall'inizio del '94, verso una mentalità imperiale e il cosiddetto «rafforzamento dello Stato».
In apparenza, non è rimasto nessuno nella cerchia del Presidente ad ammonirlo che, quando qualcuno in Russia parla con voce flebile di «rafforzare lo Stato», di solito prepara un bagno di sangue, specialmente quando vuol dire che il governo intende risolvere complessi e delicati problemi etnici con la forza. Ora quegli stessi consiglieri rifiutano ogni responsabilità per quello che è accaduto.
La guerra in Cecenia è, innanzitutto, un duro colpo all'unità della Russia. Appena sei mesi fa, si poteva dire che tutti gli allarmi sulla dissoluzione della federazione russa fossero speculazioni irresponsabili di gente che aveva capito poco. Oggi, questa minaccia è diventata drammaticamente seria.
1996
[Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Se c'è una possibilità di liberare gli ostaggi con uno scambio, sarebbe un peccato mortale non coglierla. Sono pronto a volare immediatamente a Pervomajskoe e ad offrirmi come prigioniero e "scudo umano" per i ceceni.[9]
[Sulle elezioni presidenziali in Russia del 1996] Ricandidare Eltsin è un suicidio. [...] Dopo tutto quello che è accaduto, scommettere su Eltsin è il miglior regalo che il fronte pro-riforme può fare ai comunisti.[10]
[Su Boris Nikolaevič El'cin] Non possiamo più sostenerlo dopo quello che è successo a Pervomajskaja, dove non si può dire cosa sia stato peggio: se l'incapacità, la violenza o la menzogna.[11]
Intervista di Maddalena Tulanti, L'Unità, 13 febbraio 1997.
Io non credo che la Nato sia un nemico della Russia e quindi che il suo ampliamento sia pericoloso. Penso piuttosto che esso sia irragionevole. Sì, sono convinto e l’ho detto più volte ai miei amici occidentali: l’allargamento della Nato è giustificato, è possibile, è ragionevole solo se si abbina alla stipulazione di una seria alleanza politica con la Russia. Penso anche però che la Russia non deve lasciarsi coinvolgere in un’idiotesca, nuova spirale della corsa al riarmo con la Nato. Questo sarebbe ancora più pericoloso, anzitutto per la Russia, per gli interessi russi, per la sua economia.
Che sia sano o malato, Eltsin le decisioni le prende da solo, ho lavorato con lui e lo so bene. So anche come si prendono le decisioni più importanti e che in realtà esse non sono molte. Certamente il presidente è poco presente nella vita pubblica, è vero. E senza alcun dubbio la sua seconda malattia gli ha impedito seriamente di dimostrare la propria forma. Ma l’idea che qualcuno governi il paese in vece sua si basa secondo sulla totale incomprensione della situazione.
Eltsin è andato al potere accompagnato da slogan populistici e anti-comunista, non liberali.
Il mio paese, è vero, odia i liberali, ma ha un estremo bisogno delle riforme liberali.
1998
Quelli che hanno un passato comunista non sono in grado di condurre una politica di riforme.[12]
Intervista di Irina Alberti e Barbara Spinelli, La Stampa, 4 giugno 1998.
Non si può far altro che riformare, proprio quando sembra regnare il panico nelle finanze e nella società. Non si può far altro che pedalare, perché la Russia intera è oggi nelle condizioni di chi va in bicicletta. Non ti puoi fermare, altrimenti caschi per terra. La strada è tutta in salita, tu sei forse molto stanco, affaticato, ma in cuor tuo lo sai: se smetti di andare, è la fine.
Sciogliendo il governo Cernomyrdin, Eltsin ha messo fine a un clima di stabilità, che l'ex premier sembrava garantire restando fisso per anni al suo posto. Ma la stabilità non è tutto in politica: può divenire un inganno, una trappola.
Il male effettivo non è nel Tesoro pubblico: è nella profonda criminalizzazione del tessuto intermedio che esiste tra governo e destinatari degli stipendi.
Nessuno fa mai riforme per fare a se stesso un piacere, visto che in genere le riforme sono noiose, spiacevoli, procurano guai. Per farle occorrono circostanze imperiose, tali da risvegliare gli animi, e una disfatta militare può divenire in effetti un fattore positivo.
Il neonazismo riesce per la prima volta a far presa sulle giovani generazioni, cosa che non capitava nel periodo dei nazi-comunisti. Esattamente come succede in Germania Est. Ma quello che è veramente pericoloso è la passività assoluta delle autorità giudiziarie, delle procure, e l'inadeguatezza delle forze dell'ordine. O meglio sarebbe dire la complicità: tra giudici e procuratori ci sono parecchi simpatizzanti nazisti.
Lo Stato russo affonda ancora le sue radici in una realtà totalitaria, e questo è una fonte di contagio inesauribile: perfino le poche riforme democratiche sono state contaminate. Il fatto è che i governi son sempre stati dipendenti dal potere supremo in Russia, fin dai tempi dello zar: erano come uffici dell'amministrazione imperiale, e questa tradizione non è mutata mai. Dalla Russia imperiale è passata alla Russia bolscevica, e oggi sopravvive nelle menti degli stessi democratici.
Quel che bisogna infatti capire è che quando sotto il peso delle proprie contraddizioni il socialismo inevitabilmente crolla, il capitalismo che ne fuoriesce non nasce come Venere dalle onde del mare, in tutta la sua bellezza. Nasce interamente coperto di piaghe, di ferite. Ed è qui che ci si rende conto di come il socialismo ha annientato tutte quelle componenti e forme che sono assolutamente necessarie, affinché una società possa esistere e funzionare normalmente.
In Russia è crollato il comunismo, e nel corso di pochi anni – con la violenza – ci troviamo a dover costruire quello che negli altri Paesi, che non sono passati attraverso il trauma comunista, è stato faticosamente e lentamente costruito nel corso dei secoli.
Il comunismo lascia in eredità una forma di infantilismo, nei rapporti tra la persona e lo Stato. Nel socialismo lo Stato non è creato e fatto dalla gente, per la gente, e mantenuto da chi paga le tasse. È qualcuno che promette ai propri sudditi una "cura materna", come ripetevano gli slogan socialisti. È il padre giusto ma severo, che di tanto in tanto può darti un cioccolatino ma che ha il pieno diritto di punirti. I mali postcomunisti nascono da questa mentalità familistica, infantilizzante. [...] Prima i russi avevano genitori socialisti, che erano cattivi e non facevano quel che dovevano per i figli. Adesso il loro posto è preso da mamme e papà capitalisti che saranno buoni e ci daranno tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Ovvio che quando a un bambino simile dici che il gelato non glielo puoi più comprare, che l'infanzia è finita, che tocca cominciare a lavorare, che devi crearti una vita con le tue mani, il trauma è terribile.
Non cambierei nessuna delle mie opinioni. Il mio solo errore, forse, è stato di non aver creduto abbastanza nella bontà delle mie idee.
Una volta chiarito che alternative alla politica delle riforme non ce ne sono o sono totalmente inaccettabili, le idee liberali riguadagneranno terreno.
[Su Jurij Masljukov] Non crede alla favole degli economisti gorbacioviani quando sostengono che stampare moneta aiuta la produzione.
[Su Viktor Geraščenko] Non puoi mai sapere se crede veramente alle cose che dice.
Colloquio con Barbara Spinelli sulla guerra del Kosovo, La Stampa, 16 maggio 1999.
[L'Occidente] si ostina a non capire che i Milosevic russi sono già alle porte, attendono il loro momento. Che sono infinitamente più minacciosi per la civiltà occidentale, visto che la Russia ha le atomiche. In genere tutti i piccoli dittatori saranno spinti da questa guerra a dotarsi delle armi più micidiali – atomiche e chimiche – per meglio tener lontani gli Occidentali e l'America. I cloni rosso-bruni di Milosevic sono pronti, da noi. Sono pieni di ammirazione per il regime serbo. Hanno fatto molto per sostenerlo. E profittano di questa assurda operazione aerea della Nato – assurda guerra a zero morti, dove non si vuol perdere la vita d'un solo soldato – per alzare fieramente la testa.
La verità è che volevate evitare un Milosevic in Russia, e avrete il Milosevic che temevate. Il pericolo non è ipotetico: è reale. La verità è che la Nato sta uccidendo la democrazia in Russia.
Non dimentichi mai che l'80 per cento dei tedeschi era favorevole al nazismo, nel '48. Ma la Germania era una nazione occupata, la sua sconfitta era inquivocabile, la rieducazione infine riuscì. Non poteva più giocare con la propria storia, come aveva fatto dopo la prima guerra mondiale. Mentre la Russia può barare e cercare sempre nuovi colpevoli, non essendo stata sconfitta in guerra e non avendo processato il comunismo.
Intervista di Andrei Tsunskij, Espresso. Il Giornale Italiano di Mosca, numero 1(92), 1 - 28 febbraio 2005.
Certamente, la nostra imprenditoria, che in forza di motivi storici non vanta per tradizione comportamenti conformi alle norme etiche, ed è nata in circostanze socio-politiche particolari, ha fatto parecchie cose per guadagnarsi la sfiducia dei nostri cittadini. Villanie provocatorie, ostentazione delle proprie ricchezze, competizione nei consumi smodati (chi ha la cravatta più costosa?), atteggiamenti ormai resi famosi dalle barzellette dei primi anni postsovietici: tutto ciò era stupido, pericoloso e disgustoso. Ma pare che sia stato inevitabile. È possibile che una cultura e delle tradizioni nascano immediatamente in un Paese che per diversi decenni ha eliminato la proprietа privata?
In che modo crollano i regimi autoritari? Sempre in modo diverso, e per parecchi diversi motivi, da una calamitа naturale al calo dei prezzi dei prodotti principali d’esportazione. Tali regimi non sono infatti capaci di affrontare problemi seri, le sfide con le quali le contingenze li obbligano a confrontarsi. Sono convinto che in Russia, in prospettiva a mezzo o a lungo termine si riesca a far nascere una democrazia perfetta. Sarebbe bello se ciò avvenisse in modo mite, senza violenza, senza rivoluzioni. Dio ci salvi dal viverne un’altra. Nel secolo scorso la Russia ne ha viste anche troppe.
[Sulla rivoluzione arancione] Ciò che è successo in Ucraina, è un tentativo di affrontare quelle cose che non erano state affrontate negli anni precedenti. L’Ucraina non ha vissuto una rivoluzione come quella russa, in cui i cambiamenti sono stati molto più radicali, seri e anche pericolosi. Noi abbiamo uno stranissimo atteggiamento storico nei confronti della rivoluzione: la vediamo come qualcosa di positivo. “La rivoluzione, com’è romantico, com’è bello!”. In realtа, la rivoluzione è una cosa terribile. È una svolta drammatica nella sorte di un popolo intero, un momento tragico della storia. Noi l’abbiamo vissuta nei primi anni novanta. Dopo questi cataclismi si è andata ricostruendo una parvenza di normalitа. Spero che in Ucraina non debbano vivere tutto questo nella stessa forma. Dio gliela mandi buona!
Mi è toccato essere alla guida del Governo negli anni della rivoluzione, e posso dire onestamente che non augurerei quest’esperienza neanche ad un mio nemico...
Quando venni a lavorare al Governo russo, l’URSS stava dichiarando la bancarotta. Le riserve auree valutarie ammontavano a 16 milioni, non miliardi, ma milioni di dollari, cioè, praticamente, allo zero. Lo Stato Russo non aveva abbastanza pane per sfamare la propria gente, ma aveva trentamila cariche nucleari, delle quali undicimila e mezzo strategiche e operativo-tattiche, e le altre tattiche. La Russia non aveva la sua Banca Centrale, perché c’erano sedici banche che stampavano il denaro pubblico; la Russia non aveva un servizio doganale, le dogane dei porti più grandi non erano sottoposte né alle autoritа sovietiche, né a quelle russe; la Russia non aveva un servizio di frontiera; la Russia di fatto non aveva le stesse frontiere. Il Paese si trovava alla soglia di una catastrofe globale, più imponente di quella che aveva affrontato dopo la rivoluzione del 1917, perché, a prescindere da tutto il resto, avevamo trentamila cariche nucleari difficilmente controllabili. E il nostro Governo, diretto da Boris Nikolaevich Eltsin, con tutti i problemi nati successivamente, è riuscito a prevenire quella catastrofe. Ed è questa, secondo me, la cosa più importante di quelle che ho fatto con i miei colleghi.
Incipit
Questo libro è dedicato ai problemi che devono affrontare i regimi autoritari di paesi multietnici, la cui economia dipende in buona misura dalle imprevedibili oscillazioni dei prezzi dei carburanti e delle risorse energetiche. Si tratta di una tematica attuale anche per la Russia contemporanea. L'autore del libro si pone l'obiettivo di individuare le ragioni alla base degli errori commessi dall'Unione Sovietica affinché la stessa esperienza non si ripeta.
Citazioni
Nel presente lavoro con il termine "impero" si intende un potente stato multietnico in cui il potere, o almeno il diritto di voto, è concentrato nel territorio metropolitano e in istituzioni democratiche, se esistono, che non si estendono all'intero territorio sotto il suo controllo. (p. 36)
La storia, sopratutto l'esperienza della seconda metà del Novecento, ha dimostrato che gli imperi si disgregano. L'identificazione della grandezza statale con lo status imperiale rendono la sua perdita estremamente difficile per la coscienza nazionale russa e lo sfruttamento della sindrome post-imperiale rappresenta un efficace mezzo per guadagnare sostegno politico. Il concetto d'impero come stato potente, dominante su altri popoli, è un prodotto che si vende tanto facilmente quanto la coca-cola o i pannolini e per venderlo non servono sforzi intellettuali. (pp. 36-37)
[Sulle rivoluzioni colorate] L'esperienza dei fallimenti russi negli anni 2003-2004 in Georgia, Adjarija, Abcasia, Ucraina, Moldavia è stata la prosecuzione di errori già commessi tanto tempo addietro, ma la coscienza post-imperiale difficilmente è in grado di comprenderlo. È più facile credere che siamo stati battuti non dai georgiani o dagli ucraini, ma dal "complotto mondiale" che sta dietro di loro. Se le decisioni vengono prese (oppure se le soluzioni si attuano) nell'ambito di questo paradigma è possibile, serbando rancore contro tutti, continuare a commettere un errore dopo l'altro. (p. 37)
L'imprevedibilità e la velocità con cui crollano imperi apparentemente saldi, provocano una sensazione di irrealtà, qualcosa molto vicino all'irrazionalità che rende plausibile qualsiasi miracolo. Non è difficile convincere la società che uno Stato sgretolatosi così facilmente, altrettanto facilmente possa essere restaurato: è un'illusione. Non solo: un'illusione pericolosa, pagata con il bagno di sangue della Seconda Guerra mondiale. (p. 39)
Così come nell'ambito medico se a un uomo viene amputata una gamba, la sensazione di averla dolorante non passa, lo stesso vale per la coscienza imperiale. La perdita dell'URSS è una realtà, un dolore sociale, generato dai problemi delle famiglie divise, dai travagli dei concittadini all'estero, dai ricordi nostalgici della grandezza passata, della geografia familiare del paese natio, che si è ridotto e ha perso i confini abituali. Non è difficile sfruttare politicamente questo dolore: è sufficiente pronunciare qualche frase del tipo "ci hanno dato una coltellata alle spalle", "la colpa è tutta degli stranieri che hanno depredato la nostra ricchezza", "adesso gli togliamo le proprietà e faremo una bella vita", e la cosa è fatta. Non c'è bisogno di inventarsi queste frasi: è sufficiente leggere un manuale dedicato alla propaganda nazista: il successo è garantito. (p. 41)
Il significato degli Accordi di Belaveža non deve essere esagerato. Si trattò della formalizzazione giuridica di un divorzio ormai avvenuto. [...] Non hanno certo eliminato il dolore della disintegrazione dell'impero, ma hanno contribuito ad evitare massacri e una catastrofe nucleare. (p. 42)
Maggiori sono i tentativi della propaganda ufficiale russa di rappresentare la Grande guerra patriottica come una serie di eventi che hanno portato alla vittoria per merito del capo, più velocemente scompare la memoria delle repressioni staliniane e viene dimenticato che lo stesso Stalin, avendo approvato il Patto Molotov-Ribbentrop, aveva giocato un ruolo non secondario nello scatenare la guerra. (p. 44)
Il fatto che l'Unione Sovietica fosse uno stato multietnico, in cui la componente russa rappresentava solo la metà della popolazione, ha esercitato un'influenza essenziale sul corso degli eventi legati al suo crollo. Tuttavia c'è un'altra cosa ancor più importante: era una società nella quale il potere, imperium, dominava anche l'organizzazione della vita quotidiana. La convinzione, delle autorità e della società, che lo Stato fosse capace di attuare una violenza senza limiti per reprimere le manifestazioni di malcontento, era assoluta. Questo tipo di organizzazione statuale, che può apparire stabile ad un osservatore superficiale, risulta fragile proprio perché non prevede meccanismi flessibili di adattamento, in grado di favorire l'adattamento alle mutevoli realtà del mondo moderno. (p. 45)
L'opinione pubblica russa oggi è dominata da questa visione del mondo: 1) vent'anni fa c'era un paese stabile, in via di sviluppo, potente, l'Unione Sovietica; 2) gente "strana", probabilmente agenti dei servizi segreti stranieri, ha avviato in questo paese riforme politiche ed economiche; 3) i risultati di queste riforme si sono rivelati catastrofici; 4) negli anni 1999-2000 è giunto al potere qualcuno preoccupato degli interessi nazionali; 5) successivamente anche la vita ha cominciato a normalizzarsi. Questo mito è altrettanto lontano dalla realtà quanto la leggenda della Germania non sconfitta e tradita, mito popolare nella società tedesca alla fine degli anni 1920-1930. (p. 46)
La Russia è stato l'unico paese che tra il 1918 e il 1922 riuscì a ricostruire l'impero disciolto, ma per farlo fu necessario ricorrere ad una violenza inaudita. Non fu solo questo a garantire il successo ai bolscevichi. L'ideologia comunista di stampo messianico, permise di spostare il centro del conflitto politico dal contrasto tra le etnie alla lotta tra le classi sociali e in ciò trovò il sostegno di una parte degli abitanti delle regioni non russe: proprio questo giocò un ruolo importante nella formazione dell'Unione Sovietica all'interno di confini che ricalcavano quelli dell'Impero russo. Nessuno fu in grado di ripetere questa esperienza nel XX secolo. (p. 71)
[Su Slobodan Milošević] Egli, prendendo atto della progressiva perdita di influenza dell'ideologia marxista, concluse che l'unico strumento a cui ricorrere per mantenere il controllo politico sulla nazione era quello del nazionalismo serbo e delle minoranze serbe sparse per la Jugoslavia, soprattutto in Kosovo, Bosnia e Croazia. Del resto, recriminare la divisione del popolo serbo a causa di confini tracciati arbitrariamente da Tito e sostenere la causa di una riunificazione era cosa assai facile. (p. 79)
Gli storici e gli scrittori che in contesti multietnici incitano a forme di nazionalismo radicale, di rifiuto dei popoli con cui si convive fianco a fianco, che ricordano torti storici inflitti un tempo ai compatrioti dovrebbero comprendere che preparano la strada alla pulizia etnica e alla sofferenza per milioni di persone. Purtroppo, persino l'esperienza diretta, raramente insegna e quella altrui quasi mai. Se non impariamo la lezione da quanto è successo al nostro paese e agli altri imperi del XX secolo, allora possiamo divenire una minaccia per il mondo. Questa è la cosa peggiore che potrebbe accadere alla Russia. (p. 81)
Per regimi autoritari si intendono quelle strutture politiche che non poggiano né sulla legittimazione tradizionale, né su quella elettorale, adottata dalle società contemporanee per la formazione del governo e del parlamento. I loro leader, una volta eliminati i concorrenti politici, soppressa l'opposizione, stabilito il controllo sui mass-media, spesso si convincono di essere arrivati al potere per sempre. Ritengono di avere a loro disposizione mezzi di costruzione sufficienti per assicurarsi una stabilità perpetua. Si tratta di un'illusione costata cara a molti di loro. Forme simili di organizzazione del potere sono, infatti, strutturalmente instabili, e ciò non solo per circostanze contingenti o eventualità impreviste, ma per la loro stessa natura. (p. 83)
I regimi autoritari, che sono riusciti a sopravvivere per un periodo superiore ai 75 anni (l'equivalente di tre generazioni) sono rari nella storia. Una delle principali eccezioni fu Roma, a cui peraltro risale la tradizione imperiale europea, ma il suo assetto politico fu un intreccio di elementi propri di un regime autoritario e di una monarchia agraria. (p. 84)
Il monarca ha un erede, il presidente o il primo ministro di un paese democratico arrivano al potere nel quadro di regole comprensibili e accettate dalla società. Per la grande maggioranza dei regimi autoritari, invece, l'instaurazione di norme di continuità è impossibile giacché un erede ufficiale rappresenterebbe una minaccia per l'autocrate. Da qui discendono i rischi per la stabilità del regime in caso di morte oppure di incapacità di agire da parte del leader che l'ha creato. (p. 90)
I tratti specifici [dei regimi totalitari] sono: un controllo più rigido sulla vita quotidiana delle persone rispetto a quello considerato ragionevole dai leader dei regimi autoritari e un'ideologia di natura messianica, volta a garantire legittimità al regime. In uno Stato autoritario è di somma importanza per il potere non permettere ai cittadini di intromettersi nella politica pubblica, impedire loro di partecipare a manifestazioni e presentare petizioni, rivolgersi alla stampa straniera per denunciare gli errori o i crimini del regime. Poco importa quello che poi dicono in cucina: sotto un regime totalitario si può finire dietro le sbarre anche per un aneddoto poco corretto nei confronti del leader del regime raccontato in casa propria. (pp. 92-93)
Il regime autoritario giustifica la propria necessità ricorrendo a delle argomentazioni di ordine pratico: imperfezione dei poteri democratici, rilevanza di una dinamicità nello sviluppo economico, necessità di contrastare l'estremismo. Il regime totalitario, invece, fa riferimento ad una simbologia religiosa, oppure pseudo religiosa: il Reich millenario, il comunismo universale, il califfato mondiale. (p. 93)
In un paese agricolo e di scarsa istruzione un regime autoritario può risultare stabile: la società non avanza richieste di libertà e coloro che protestano sono di norma un'esigua minoranza e talvolta essi stessi sono consapevoli che la libertà può significare crescita di richieste sociali da parte dei gruppi meno abbienti della popolazione, inaugurando una "frenesia di redistribuzione" che potrebbe ritorcersi contro di loro. Il regime poggia sul sostegno di un esercito reclutato da contadini indifferenti alle idee degli intellettuali cittadini, ma questa situazione invariabilmente muta con l'avanzare dell'industrializzazione e la diffusione dell'istruzione. (p. 94)
A differenza di Burbulis, burocrate freddo e incapace di sorridere, questo Gajdar, 35 anni, ispira pure la simpatia che si prova per i futuri vinti. Egli stesso non si nasconde il proprio destino, quello di essere «estremamente impopolare». Dimostra intelligenza, raccontando la sua massima aspirazione politica: resistere fino al '93, quando si voterà la fiducia al governo. (Demetrio Volcic)
Lui e i suoi compagni di università, usciti di fresco dall'anonimato dell'Accademia delle Scienze, si sono trovati in giovane età a dirigere un'operazione che era sfuggita di mano ai loro professori. Gajdar preferisce parlare di strategie di lungo periodo e di profonde riforme strutturali. Sono contenute in un documento di 30 pagine, zeppo di lodevoli indirizzi generali, ma curiosamente privo di dettagli. Taspare solo il desiderio di passare ai privati tutti gli impianti industriali che sarebbero ancora competitivi. Nel passato il mercato era dominato da giganti che oggi non riescono più a trovare materie prime a prezzi normali e dunque calcano sui prezzi di vendita per quel poco che producono. (Demetrio Volcic)
Non ha fatto altro che liberalizzare i prezzi in condizione di monopolio, slegando così le mani al mostro dell'economia socialista. (Aleksandr Isaevič Solženicyn)
Quando loro sono arrivati al potere avevamo il 6% di inflazione al mese, un calo della produzione del 15% annuo e il dollaro a 60 rubli. Oggi, dopo 9 mesi di riforma, abbiamo il 30% d'inflazione, il 15% di calo di produzione e il dollaro a 220 rubli. Perché le cose sono andate così? Perché l'obiettivo che si è posto Gaidar era assurdo: in un Paese che non esiste, con 15 parlamenti ed altrettanti presidenti Gaidar ha tentato di stabilizzare la moneta delle 15 repubbliche ex-sovietiche, mentre loro non avevano concordato nulla e facevano di questo rublo quello che gli pareva. (Grigorij Javlinskij)
Se ci fosse un Guinness inteso a premiare l'ingiustizia del destino, bisognerebbe assegnarlo a Egor Gaidar. (Enzo Bettiza)
Gajdar mi colpì soprattutto per la sua sicurezza. Non era una sicurezza sfrontata o la semplice sicurezza di un uomo energico e forte come ce n'erano molti attorno a me. Si vedeva subito che Gajdar era semplicemente una persona di grande indipendenza, con un profondo senso della propria dignità. Era cioè un intellettuale che al contrario di uno stupido burocrate non si sarebbe mai messo a nascondere i propri dubbi, le proprie riflessioni e le proprie debolezze andando tuttavia fino in fondo nella difesa dei propri principi, non perché l'ha detto il partito, ma perché sono cosa sua, frutto di un duro lavoro.
Gajdar sapeva parlare in modo chiaro, anche quello ebbe una grande importanza dato che prima o poi sia io che lui avremmo dovuto parlare con i nostri oppositori. Non è che semplificasse i propri concetti, ma piuttosto parlava in modo facile di cose complicate. Tutti gli economisti vorrebbero farlo, ma Gajdar è quello che ci riesce in modo più convincente.
Continuando la metafora medica mi viene in mente quando in Spagna, la mattina dopo l'operazione, con i punti di sutura ancora freschi, mi proposero di alzarmi e io lo feci, in un bagno di sudore, spaventato e teso, facendo pochi passi. Ecco, il ruolo di Gajdar consisteva nell'alzare la nostra economia paralizzata, riportare alla vita i suoi centri vitali, le sue risorse e il suo organismo. È crudele ma necessario. Mentre gli altri medici si consultavano sul da farsi, lui ha tirato fuori il malato dal letto e ha cercato di farlo camminare.
Era proprio Gajdar ad apparire il miglior garante delle riforme economiche agli occhi dei governi occidentali e io lo sapevo bene, ma un conto è vedere le cose dal laggiù, un altro è trovarsi in mezzo agli avvenimenti.
Infine, la riforma di Gajdar aveva creato un grande movimento macroeconomico, aveva distrutto la vecchia economia. Era stata un'operazione priva di qualsiasi eleganza chirurgica, che aveva strappato insieme al tumore anche parti vitali e funzionanti.
Gajdar non aveva capito fino in fondo che cosa volesse dire produzione, metallurgia, complesso petrolifero, industria militare, industria leggera; per lui questi erano concetti teorici. Era uno sbilanciamento pericoloso.
I detrattori dissero che le riforme di mio padre svalutarono i risparmi di milioni di cittadini russi. I sostenitori, invece, dissero che le sue riforme, benché dolorose per milioni di cittadini, contribuirono al boom economico russo. Di certo oggettivamente iniziò uno svecchiamento enorme, non senza difetti, come spesso accade ai riformismi.
Il timore di mio padre era la riproposizione russa di tragici errori del passato, tra cui uno sviluppo economico squilibrato, che la rende vulnerabile alle fluttuazioni del mercato dell’energia. Ora i danni sono evidentissimi e, peraltro, con le sanzioni Putin non potrà resistere a lungo. Le riserve non bastano.
Mio padre amava la letteratura russa, che, peraltro, è quasi sempre una letteratura di dissenso verso il potere autoritario.
Mio padre, morendo, ha portato nella sua tomba l’ultima esperienza riformatrice della storia della Russia contemporanea.