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scrittrice statunitense (1862-1937) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Edith Newbold Jones (1862 – 1937), scrittrice statunitense.
La ragazza uscì dalla casa dell'avvocato Royall, situata in fondo all'unica strada di North Dormer, e si fermò sulla soglia.
Era l'inizio di un pomeriggio di giugno. Il cielo trasparente e ancora primaverile spandeva una luce argentea sui tetti, sui pascoli e sui boschetti di larici che circondavano il villaggio. Una brezza leggera giocava tra le nuvole bianche e tonde che indugiavano sui fianchi della collina, spingendole al di sopra dei campi e del viottolo erboso che, entrando in North Dormer, assumeva il nome di strada, su cui esse proiettavano la loro sagoma. Il paese era costruito in un luogo alto e aperto, e mancava dell'ombra che abbonda nei paesini più riparati del New England.
"Oh, certo che ce n'è uno ma non lo riconoscerete mai."
L'affermazione, gettata lì ridendo, sei mesi prima, in un giardino pieno della luce dorata di giugno, si riaffacciò alla mente di Mary Boyne, apparendole sotto tutt'altra luce, mentre, nel crepuscolo di dicembre, attendeva che le lampade fossero portate in biblioteca.
Quelle parole erano state pronunciate dalla sua amica Alida Stair, mentre insieme prendevano il tè sul prato davanti a Pangbourne, e si riferivano alla casa in cui si trovava ora Mary, e della quale la biblioteca costituiva il cuore e il perno.
[Edith Wharton, Dopo, in "Storie di fantasmi", traduzione di Gabriella Ernesti, Bompiani]
Oh, ce n'è uno, naturalmente, solo che non lo riconoscerete mai». L'affermazione, profferita con allegria sei mesi prima in un gaio giardino di giugno, si ripresentò alla mente di Mary Boyne, con una nuova percezione del suo significato, in un imbrunire del mese di dicembre, mentre aspettava in biblioteca che portassero le lampade.
Le parole erano state pronunciate dalla sua amica Alida Stair mentre sedevano a prendere il tè sul prato di casa sua, a Pangbourne; ed erano riferite alla casa di cui la biblioteca in questione costituiva l'espressione centrale, il perno.
[Edith Wharton, Dopo, traduzione di Grazia Alineri, in "Il colore del male. I capolavori dei maestri dell'horror", a cura di David G. Hartwell, Armenia Editore, 1989. ISBN 8834404068]
Avevo sentito la storia, a frammenti, da varie persone, e, come spesso accade in casi simili, ogni volta era una storia diversa.
Se conoscete Starkfield, Massachusetts, conoscete anche l'ufficio postale. Se conoscete l'ufficio postale, dovete aver visto Ethan Frome fermarvisi dinnanzi col suo calesse, gettare le redini sulla groppa incavata del suo cavallo baio, e trascinarsi fino al bianco colonnato, attraversando il marciapiede di mattoni; e dovete aver chiesto chi fosse.
Fu qui, molti anni fa, che lo vidi per la prima volta: e il suo aspetto mi colpì.
[Edith Wharton, Ethan Frome, traduzione di Greti Ducci, Rizzoli]
Ho messo insieme la storia, tassello per tassello, sulla base dei racconti di varie persone, e, come in genere succede in questi casi, ogni volta era una storia diversa.
Se conoscete Starkfield, Massachusetts, conoscerete anche l'ufficio postale. Se conoscete l'ufficio postale avrete certamente visto Ethan Frome dirigersi da quella parte in calesse, posare le redini sulla groppa concava del suo baio e trascinarsi per il selciato di mattoni fino al colonnato bianco; e avrete senz'altro chiesto chi mai fosse.
Fu là che lo scorsi per la prima volta, parecchi anni fa: e alla sua vista mi arrestai di colpo.
[Edith Wharton, Ethan Frome, traduzione di Lucio Angelini, Newton, 1994]
Sulla terrazza-ristorante del loro albergo romano, due signore di mezza ma ben conservata età lasciarono il tavolo della colazione per andare ad appoggiarsi alla balaustra; e dopo essersi scrutate a vicenda posarono gli occhi, con la stessa aria di vaga ma benevola approvazione, sulle gloriose rovine del Palatino e del Foro.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
Eravamo dell'umore ideale per occuparci di fantasmi, quella sera dopo un'ottima cena in casa del nostro vecchio amico Culwin: tutto merito di un racconto di Fred Murchard, la cronaca di una sua singolare e personale avventura.
Vista attraverso il fumo dei nostri sigari al tranquillo chiarore di un fuoco di carbone, la biblioteca di Culwin, con le sue pareti di quercia e le vecchie cupe rilegature dei libri, costituiva un ottimo scenario per simili rievocazioni; e le manifestazioni di fantasmi essendo ovviamente, dopo il preludio di Murchard, l'unico genere che ci apparisse accettabile, decidemmo di far la conta di quanti eravamo e di imporre a ciascuno di noi di dare il suo contributo. Eravamo otto, e sette riuscirono, bene o male, a soddisfare la richiesta.
[Edith Wharton, Gli occhi, in "Storie di fantasmi", traduzione di Gabriella Ernesti, Bompiani]
A Saratoga la stagione delle corse era al culmine. Il termometro era salito oltre i trenta gradi, e una nebbiolina dorata filtrava i raggi del sole, alzandosi dagli olmi lunga la via di fronte al Grand Union Hotel e dagli stenti prati disseminati di giovani abeti e protetti contro le scorrerie di cani e bambini da una bassa staccionata bianca. La signora St. George, il cui marito era fra i più appassionati di corse, sedeva nell'ampia veranda dell'hotel, con una brocca di limonata ghiacciata sul tavolo accanto e un ventaglio di palma nella piccola mano, scrutando l'esterno attraverso le altissime colonne bianche del portico, che tanto spesso ricordavano ai viaggiatori in possesso di una certa cultura il Partenone di Atene.
Il grande transatlantico sembrava incombere sui rimorchiatori che gli brulicavano attorno nella baia di Algeri, mentre Martin Boyne, dal ponte della passeggiata, guardava in basso, sulla folla dei passeggeri di prima classe che si spintonavano sulla passerella, le facce rivolte in su, inconsciamente esposte alla sua ispezione.
"Non c'è un'anima con cui riuscirò a parlare... come al solito!"
La fortuna di certi viaggiatori è incredibile. Basta loro salire su un treno o su un piroscafo per imbattersi in un vecchio amico o, meglio ancora, per farsene uno nuovo.
Era l'autunno dopo che mi ero ammalata di tifo. Al termine di tre mesi d'ospedale, quando ne uscii ero talmente debole e malridotta, che le due o tre signore cui mi rivolsi per lavoro non se la sentirono di assumermi. Gran parte dei miei risparmi si erano volatilizzati nel frattempo, e, ospite in una pensione da due mesi, mentre facevo il giro delle agenzie di collocamento e rispondevo ad ogni annuncio che avesse un'aria rispettabile, mi ero persa d'animo, dal momento che le preoccupazioni non mi avevano certo restituita la buona cera e oramai disperavo che la mia sorte potesse mutare. E invece così avvenne, o per lo meno era quanto pensai all'epoca.
[Edith Wharton, Il campanello della cameriera, in "Storie di fantasmi", traduzione di Gabriella Ernesti, Bompiani]
Per quanto bizzarra e inesplicabile fosse la faccenda, all'apparenza parve abbastanza semplice... a quel tempo, almeno; ma col passare degli anni, e a cagione del fatto che non ci fu un solo testimone dell'accaduto, a parte la stessa Sara Clayburn, hanno cominciato a circolare versioni così esagerate, e spesso ridicolmente inesatte, da rendere necessario che una persona legata ai fatti, per quanto non presente – ripeto che quando la cosa avvenne mia cugina era (o pensava di essere) del tutto sola in casa – registrasse ciò di cui si aveva un'effettiva conoscenza.
Miss Bruss, la segretaria perfetta, accolse Nora Manford sulla soglia del salottino ("lo studio" come lo chiamavano i figli della signora Manford) con un gesto che voleva significare il più accorato rifiuto.
"Lei vuole, lo sai, mia cara, tua madre vuole sempre vederti", si giustificava Maisie Bruss con una voce che il continuo uso del telefono pareva aver assottigliato e appuntito. Miss Bruss, assunta al servizio della signora subito dopo il suo secondo e ultimo matrimonio, conosceva Nona da quando era una bambina, e godeva del privilegio, anche ora che lei era "in società" di trattarla con una certa familiare benevolenza, tanto più che la benevolenza era il tratto caratteristico di casa Manford.
"Dovresti proprio comprarla", mi aveva detto il mio ospite. "è il luogo ideale per un tipo solitario come te. E non sarebbe niente male essere il proprietario della più romantica dimora di tutta la Bretagna. I proprietari attuali sono in rovina e la puoi avere per quattro soldi. Sì, dovresti proprio comprarla."
Non fu affatto con l'idea di adeguarmi al personaggio attribuitomi dal mio amico Lanrivain (a dire il vero, sotto la mia aria di distacco ho sempre nutrito segrete aspirazioni a una vita domestica) che, un pomeriggio d'autunno, accolsi il suo suggerimento e mi recai a Kerfol.
[Edith Wharton, Kerfol, in "Storie di fantasmi", traduzione di Gabriella Ernesti, Bompiani]
Selden s'arrestò sorpreso. Alla vista di Lily Bart nella calca pomeridiana della Grand Central Station i suoi occhi si erano illuminati. Era uno dei primi lunedì di settembre e Selden tornava in città dopo una scappata frettolosa in campagna; ma cosa faceva mai Miss Bart in settembre a New York? Se l'avesse vista prendere il treno avrebbe pensato di averla sorpresa durante lo spostamento da una all'altra delle ville di campagna che si contendevano la sua presenza dopo la chiusura della stagione a Newport; ma la sua aria indecisa lo rendeva perplesso. Era ferma, leggermente discosta dalla folla, e lasciava che questa le fluisse davanti, diretta alla strada o alle banchine, con una tale aria di irresolutezza dipinta sul volto che avrebbe potuto benissimo mascherare una decisione ben premeditata.
"Ostacolo imprevisto. Pregoti rinviare tua venuta a fine mese. Anna."
Lungo tutto il tragitto, dalla stazione londinese di Charing Cross fino a Dover, le parole di questo telegramma avevano seguitato a martellare negli orecchi di George Darrow, risuonandovi in mutevoli toni d'ironia: ora quelle comunissime sillabe crepitavano come una scarica di fucileria, ora gli colavano a una a una nel cervello, in un lento e freddo stillicidio, ora invece frullavano come dadi gettati per gioco da un demone malizioso; finché, sceso alla stazione di Dover, ritto sulla banchina spazzata dal vento, di faccia al mare adirato, presero a balzargli contro, come scagliate dai flutti, pungendolo e accecandolo con rinnovata furia e derisione.
C'era una grande quiete nella piccola cappella abbandonata. I rumori della fattoria giungevano fievoli attraverso le porte chiuse: le urla d'incitamento ai buoi nei campi lontani, l'abbaiare lamentoso del vecchio cane da guardia e i richiami collerici di Filomena dalla cucina alla piccola trovatella dal viso smorto.
Quel giorno di febbraio volgeva al termine e un raggio di sole, penetrato da una fessura nel muro, rivelava la visione di una testa sovrastata da un'aureola, pallida e fluttuante sullo sfondo scuro del coro, come una ninfea sulla sua foglia. Il volto era quello del santo di Assisi, un volto incavato e devastato, acceso da un'estasi di sofferenza, che non sembrava tanto riflettere gli spasimi del Cristo ai cui piedi il santo era inginocchiato, quanto il muto dolore di tutta la povera gente calpestata nel mondo.
[Edith Wharton, La valle della decisione, in "La scogliera", traduzione di Roberto Luppi Pittigliani, Diabasis]
Una sera di gennaio del 1872 o 73 Christine Nilsson cantava nel Faust all'Accademia Musicale di New York. A quei tempi infatti — benché già si pensasse a un magnifico Teatro dell'Opera, degno d'una capitale europea, da costruirsi nelle lontananze metropolitane «al di là della 49a Strada» — la buona società newyorkese ancora si contentava dei malandati palchi rosso e oro della vecchia Accademia.
[Edith Wharton, L'età dell'innocenza, citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
Agli inizi degli anni Settanta, una sera di gennaio, Christine Nilsson cantava nel Faust all'Accademia di Musica di New York. Sebbene si parlasse già di costruire in una zona metropolitana lontana dal centro un nuovo teatro dell'opera, che per l'alto costo e per lo sfarzo avrebbe retto il confronto con quelli delle grandi capitali europee, il bel mondo si accontentava ancora di tornare a radunarsi ogni inverno nei mal ridotti palchi addobbati di rosso e oro dell'accogliente vecchia Accademia.
[Edith Wharton, L'età dell'innocenza, traduzione di Pietro Negri, Newton & Compton]
"Undine Spragg... come ti permetti?", protestò la madre, alzando la mano prematuramente rugosa e carica d'anelli a difendere un biglietto che un fattorino esangue aveva appena portato.
Ma il gesto era debole tanto quanto le parole di protesta, e la signora continuò a sorridere alla sua ospite, mentre la signorina Spragg, con un guizzo delle dita agili e giovani, si impadroniva del messaggio e si appartava nel vano della finestra per leggerlo.
"Tanto, immagino che sia per me", si limitò a rispondere alla madre girando la testa al di sopra della spalla.
"Ma si è mai vista una cosa del genere, signora Heeny?", mormorò la signora Spragg, che non era riuscita a nascondere l'orgoglio dietro all'indignazione.
Mentre attendeva che Madame de Malrive s'infilasse i guanti, John Durham sostava nel vano del portone guardando oltre Rue de Rivoli la luminosità pomeridiana dei giardini delle Tuileries.
I suoi soggiorni in Europa erano abbastanza rari da mantenere indenne la freschezza dell'occhio e sempre lo colpiva di nuovo lo spettacolo vasto e magistralmente ordinato di Parigi: quell'aria di essere stata progettata con audacia e ponderatezza come uno sfondo al godimento della vita, invece di trovarsi costretta a far concessioni di malavoglia agli istinti festaioli, oppure a barricarvisi contro in uno squallido oscurantismo, com'era il caso della sua deplorevole New York.
Anni fa mi sono detta: "Non esiste la vecchiaia; c'è soltanto la tristezza".
Col passare del tempo ho imparato che, sebbene questo sia vero, non lo è del tutto. Anche l'abitudine contribuisce a far diventare vecchi; il processo mortale di fare la stessa cosa allo stesso modo alla stessa ora giorno dopo giorno, prima per trascuratezza, poi per inclinazione, e infine per codardia o inerzia. Fortunatamente, la vita incongruente non è l'unica alternativa; infatti il capriccio è dannoso come la routine. L'abitudine è necessaria; è l'abitudine di avere delle abitudini, di fare di una traccia un solco, che è necessario combattere, se si vuole rimanere vivi.
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