poeta italiano (1891-1985) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Biagio Marin (1891 – 1985), poeta e scrittore italiano.
[Su Marco Pola] Caro Pola, ho avuto ieri la sua antologia e la ringrazio. Per combinazione era da me Vanni Scheiwiller. Ho letto ieri sera e questa mattina, parecchie delle sue liriche. Alcune in dialetto mi sono parse tra le più belle. Quella che più mi è piaciuta, incomincia così: A na vita che brusa / come na fassina / de sarmentèi... E quella invocazione di chiusura me la sono presa per me, perché è valida per tutti i poeti «ma dal calor che vene dala sfiamada / signor, fa che no resta demò zendro! / Se nò, percòssa viver e brusar?». Caro Pola, forse non esiste quel «percòssa»: forse la fiamma è la stessa vita e solo sua la legge. Non v'è la fine oltre l'ardere, il fiammare. Noi possiamo solo farci l'augurio che qualche nostro verso susciti una favilla in altri. Che è quello che lei invoca. E io con lei.[1]
Tamariso. || I t'ha piantào | dei árzini a difesa | nel palù desolào | là che la vita pesa. || E tu nel griso de la crèa | t'ha messo le radise, | anch'ele grise, | a fior d'ogni marea. || Sensa color el fior, | comò povera zente | che no' val proprio gnente, | massa lisiero el bon odor. || Solo, murtificào, | tu difindi le mote | árzini de le rote | contro del mar rabiào. || E tu virdisi | umile e solo | per tanti lunghi misi | a cielo ciaro o soto 'l nuòlo.
Tamerice. || Ti hanno piantato | a difesa di argini | nel paludo desolato | là che la vita pesa. || E tu nel grigio della creta | hai messo le radici, | anche quelle grigie, | a fiore d'ogni marea. || Senza colore il fiore, | come povera gente | che non vale proprio niente, | troppo leggero il profumo. || Solo, mortificato, | tu difendi gli isolotti | gli argini delle rotte | contro il mare arrabbiato. || E tu verdeggi | umile e solo | per tanti lunghi mesi, | a cielo chiaro o sotto il nuvolo.[2]
[Su Grado] Un dosso di rena, un lido stretto e falcato sul vertice di un delta, che un fiume di una volta ha dimenticato; quattro case corrose, strette a ridosso di due chiese, intervallate da poche calli, da quattro campielli odoranti di pesce fresco e di salamoia; una vecchia razza di pescatori inebetiti da molti secoli di fame e di isolamento: così era il paese. (p. 13)
L'incanto di Grado è al di qua dell'opera degli uomini; è proprio solo opera di Dio. Facile dire di che cosa è fatto, quando uno l'abbia vissuto. Facile dire che è fatto solo di luce e delle musiche che la luce intona a tutte l'ore; che è fatto di aria e di arie; che è fatto del gioco alterno delle maree. Ma luce e vento e maree sono propri di tutti i luoghi marini. Lo so; l'incanto di Grado sta nella misura divina cui questi elementi sono musicati. (p. 212)
Grado è tutta qui in questi intervalli tra terra e acque e cielo. Intervalli condizionati da una natura felice. Siamo a poca distanza dal Carso; a tramontana, oltre l'estuario c'è la piana del Friuli e, dietro a questa, prima le cortine dei colli poi le prealpi già azzurrine, poi le Giulie, le Carniche, e giù giù la cavalcata delle Dolomiti, tutte zuppe di serenità. Siamo, verso mare, sulla bocca del golfo di Trieste: di fronte a noi Pirano s'arrosa, e Salvore drizza solitaria in mezzo mare la sua lanterna, che a sera si vede baluginare a continuo richiamo. (p. 213)
Grado non era che uno scalo, un porto esterno della grande e ricca Aquileia. Era situata su un lido ampio e profondo tra le foci dell'Isonzo e quelle del Natisone, che anticamente sfociava in mare. Aquileia era allora la metropoli di tutta la Venezia che andava dall'Adda al Timavo. (p. 237)
Podê[3] vive nel cuor | comò drento[4] d'un brolo[5], | scoltâ[6] un rosignolo | che conta 'l so dolor. || Catâ[7] tra i veci muri | la zogia[8] de la vita | ne l'umiltà dei fiuri, | nel rîe de margherita. || E dopo la zornà[9] | e dopo quela festa, | piegâ[10] la nostra testa, | calmi, in umiltà. (Podé vive nel cuor, p. 19)
Doman! da mile cune un pianzotèo[11] | zentil, comò de l'aqua fra le giare, | e un canto dolse, coldo[12] d'una mare[13], | che su quel pianto la distende un reo.[14] || Oh! la vita no more. | la fioridura sempre se rinova, | dal sielo cade tepida la piova, | e dopo 'l sol el ciama a dute.[15] l'ore. (Doman se leverà el sol, p. 23.)
Dal fondo de la terra colda[16] e negra, | sughi de vita incontra le radise: | ele[17]le beve, el sielo se ralegra | de l'ale rosa su le rame grise. || Fa luse[18], tanta luse in alto; | ma quela luse vien da quel profondo | e la se spande in svolo nel sol biondo | drento 'l seren, d'un bel color cobalto. (Qui gera l'orto de l'antica brama, p. 26)
El mondo, duto[19], sensa pase[20] va | de fiama in fiama e no l'ha sosta: | da riva al mar a la lontana costa, | incontro sempre a la novela istà[21]. | El cuor patisse e canta a rusignol, | e in sto cantâ afiora la frescura; | el tempo passa, ma la fiama dura, | e ne la luse el cuor più no me duol. (El tempo de l'amor par finio, p. 31)
Comò[22] i sòrbuli[23] in casa russi e zali[24] | che sotto i travi un poco al dì madura, | e i se fa[25] dulsi e boni da magnâli[26], | l'anema mia se fa ogni dì più pura. (da Comò i sorbuli in casa russi e zali, p. 41)
La fiama alta de la nostra istae | l'ha brusao[27] duto[19], ogni verdura: | adesso cala la gran note azura | che me dormensa[28] per l'eternitae. (L'istae malao xe za passao, p. 53)
Signor, || [...] || fame murî d'istae | vardando[29] a note el rîe[30] del firmamento, | le stele inamorae | che cage[31] zo[32] col vento; || che posso arde e púo[33] brusâ[34] con ele | e pêrde la gno[35] vita in tanta luse | che senza dî[36] parola, la conduse | al de là de le stele. (Signor, p. 59)
Vardo[37] in giro comosso | el biavo[38] fâsse[39] d'oro | e l'oro fâsse rosso | púo 'l rosso fâsse moro. || E vien la note granda | co' le stele in colana | e Galassia fa girlanda | su l'isola graesana.[40] (Me sono in paradiso!, p. 64)
El duol, e pur el canta | e pur el mete fiuri, | el sogna amuri | di quî[41] che fa la tera santa. (No me lamento, p. 217)
E noltri[42], ninte semo, | se no breve caligo[43] | nel sielo imenso un sigo[44] | che più non ripetemo. || El più lontan dei geri[45] | xe senpre incuo[46], | el sol el xe cagiuo[47] | ma nei nostri pensieri. (Vido xe 'ndao, p. 231)
La morte a le gno[48] spale | la varda[49] che che scrivo, | tu son[50] incora vivo, | portâte via no vale.|| 'Ndaremo[51] via de qua | verso l'eternità | in ora più queta, | canta più forte mio poeta. (La morte a le gno spale, p. 238)
E lui eccolo lì, ancora, a fare tutt'uno col mare, col cielo, coi gabbiani, coi bambini, con le sabbie, con le paludi, col sole. Nel fuoco del sesso che copre il mondo con la sua lava celeste. Pur imparando tutto, il nostro poeta non ha imparato nulla. Ogni volta è come la prima volta, e la consolazione è sempre la stessa un raptus, per cui egli si rovescia come un guanto nel mondo, e il mondo si rovescia come un guanto dentro di lui: le due superfici interne dei guanti rovesciati coincidono, e tutto è un blocco di azzurro e di sensi. (Pier Paolo Pasolini)
In realtà il «parlare dentro» che è tipico di Marin non può avere argomenti più di quanto ne abbiano i movimenti delle onde o i voli dei gabbiani anche se è pieno documento e autorità proprio perché è uno dei fattori più attivi in cui l'ambiente-isola, il mini contesto, si organizza, per riagganciarsi (almeno alludendovi) ad un intero arcipelago. (Andrea Zanzotto)
La bellezza della poesia di Marin è la perfezione delle cose che hanno bisogno di molto tempo per crescere e formarsi, richiamano i tempi lunghi e lenti delle sue conchiglie che assumono impercettibilmente sul fondo marino, in un processo secolare, la loro impeccabile e misteriosa simmetria. È una bellezza da cui sembra spirare la saggezza di Hokusai, il pittore giapponese che si proponeva di arrivare all'essenza del disegno quando avesse raggiunto i cent'anni e che identificava quest'essenza con la perfezione della linea, da raggiungere aldilà delle innumerevoli parvenze della natura. (Claudio Magris)
Non ho potuto fare il conto delle parole usate da Biagio Marin ma credo siano nell'ordine delle centinaia, non certamente delle migliaia. Quanto a dire che Biagio Marin è un poeta petrarchesco, non dantesco. Contraddicendo con ciò la natura tradizionale e in qualche modo oggettiva del poeta dialettale. (Pier Paolo Pasolini)
Vedete come nel giro di una pagina è costretto a ritornare su pochi oggetti: il lido di sabbia, il mare, la laguna. Un mondo circoscritto e nello stesso tempo infinito. Fare poesia sarebbe stato per Marin insistere fino alla disperazione e alla solitudine su quei pochi tasti; e che non si trattasse di oggetti commerciabili di poesia ce lo conferma la povertà stessa del lessico assunto. Ma ciò che la parola non gli consentiva in lunghezza, Marin lo riscattava in profondità: probabilmente a forza di riprendere, di rimasticare quelle parole, egli rompeva i limiti el suo mondo originario, restava nell'ambito della realtà, trasfigurandola. (Carlo Bo)
↑ Da Lettera a Marco Pola, Grado, 4 marzo [19]76; in Poesia dialettale e poesia in lingua del Novecento Intorno all'opera di Marco Pola, a cura di Anna Dolfi, All'insegna del Pesce d'oro, Milano, 1994, p. 189. ISBN 88-444-1270-5