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trasformazione del Partito Comunista Italiano nel Partito Democratico della Sinistra (1989-1991) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La svolta della Bolognina è stato l'epilogo di un processo politico che, partendo dalla fine degli anni 70 del XX secolo, portò il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del Partito Comunista Italiano e alla sua trasformazione nel Partito Democratico della Sinistra. Prende il nome dalla sezione del PCI presso la Bolognina, rione del quartiere Navile di Bologna, dove il 12 novembre 1989 il segretario del PCI Achille Occhetto ne fece l'annuncio.[1]
A partire dagli anni 70 del Novecento, quando il PCI è al suo massimo storico ed è guidato da Enrico Berlinguer, si fa via via strada presso pochi l'idea che il PCI potrebbe aumentare notevolmente i propri consensi se, in linea con gli altri partiti di sinistra dell'Europa occidentale allineati su posizioni socialdemocratiche, accentuasse il proprio carattere democratico e socialista, abbandonando il leninismo e, di fatto, riconsiderando le ragioni della scissione dal PSI del 1921 e la sua dipendenza ideologica dalle posizioni sovietiche.
La discussione su un riposizionamento del partito fu avviata dalla discussione sull'eurocomunismo e gli incontri con esponenti del Partito Comunista Francese e Partito Comunista Spagnolo, nel 1975 festeggiando Dolores Ibárruri, Berlinguer affermò:
«Occorre che con audacia e con intelligenza ci si sappia liberare da ogni scolastica applicazione della nostra dottrina intesa come dogma, o da orientamenti che non sono più adeguati all'esperienza e alle condizioni storiche attuali, per camminare verso vie nuove di avanzata verso il socialismo»
Nel 1976 Berlinguer, in un'intervista concessa al Corriere della Sera, riguardo la contrapposizione Est-Ovest si spinse ad affermare che «Mi sento più protetto sotto l’ombrello della NATO».[3]
In questo contesto nell'aprile 1978, al 41º Congresso del Partito Socialista Italiano a Torino, il neosegretario Bettino Craxi presentò il nuovo simbolo del PSI: un garofano rosso alla cui base, racchiuso in un piccolo cerchio, era disegnati il vecchio simbolo con falce e martello appoggiati sul libro; un emblema che si staccava nettamente dall'iconografia tradizionale della sinistra italiana.[4] Lo storico partito rinnovava così la propria immagine, decidendo di non identificarsi più nella falce e martello[5] e motivando il cambiamento anche con la necessità di eliminare qualsiasi possibile residuo legame – visivo e simbolico – con le politiche comuniste e sovietiche.[4]
Le voci di una richiesta di cambiamento anche per il PCI erano espresse soprattutto sul nuovo quotidiano la Repubblica, in edicola dal 1976 e fondato e diretto da Eugenio Scalfari, già tra i fondatori del Partito Radicale e poi deputato per il PSI. Dalle colonne di questo quotidiano, che diventerà il più letto dalla base del PCI mettendo in crisi l'Unità, Scalfari porrà direttamente questa richieste a Berlinguer in un'intervista del 2 agosto 1978 ricevendo questa risposta:
«Lei è proprio certo che oggi, 1978, dopo quanto è successo e succede in Italia, in Europa, nel mondo, il problema col quale dobbiamo confrontarci noi comunisti italiani sia proprio quello di rispondere alle domande se siamo leninisti o no? E non dico lei, ma tutti quelli che ci rivolgono tale domanda, conoscono davvero Lenin e il leninismo, sanno davvero di che cosa si tratta quando ne parlano? Mi permetto di dubitarne. Comunque, a me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria, andando cioè oltre "l'ortodossia" dell'evoluzionismo riformista, esaltando il momento soggettivo dell'autonoma iniziativa del partito, combattendo il positivismo, il materialismo volgare, l'attesismo messianico, vizi propri della socialdemocrazia. [...] Chi ci chiede di emettere condanne e di compiere abiure nei confronti della storia, ci chiede una cosa che è al tempo stesso impossibile e sciocca. Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità»
Questa posizione verrà ribadita pochi giorni dopo a chiusura della festa dell'Unità di Genova:
«I nostri critici pretendono che noi buttiamo a mare non solo la ricca lezione di Marx e di Lenin, ma anche le innovazioni ideali e politiche di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. E poi, di passo in passo, dovremmo giungere fino a proclamare che tutta la nostra storia - che ha anche le sue ombre - è stata solo una sequela di errori»
All'interno del PCI, salvo qualche sparuta voce discordante, tutti concordarono con Berlinguer. Anche Giorgio Amendola, ritenuto il principale esponente dell'ala destra del partito, intervistato dirà a Scalfari che:
«non si manipola la propria storia per una manciata di voti. Sarebbe un'offesa alla coscienza dei militanti e, soprattutto, un'operazione ipocrita verso il paese. Queste operazioni le fanno gli avventurieri della politica, ma non un grande partito che deve costruire la propria credibilità su basi certe. [...] Siamo un partito aperto che è nato sulla base di insegnamenti marxisti, leninisti, e di molti altri ancora, specialmente di Antonio Labriola, di Gramsci e di Togliatti»
Nella seconda metà del 1978 il partito modificò la sua linea di politica estera, per avvicinarsi a una posizione di equidistanza fra blocco occidentale e orientale. Il 19 ottobre i suoi parlamentari concorsero a confermare l'adesione dell'Italia alla NATO, alla Comunità economica europea e ai principi degli accordi di Helsinki di tre anni prima, partecipando al voto alla Camera sulla politica estera.[7] Questa votazione verrà ricordata due mesi dopo in una mozione parlamentare a firma di Berlinguer, Gian Carlo Pajetta e altri, nel pieno della crisi internazionale provocata dall'inizio del dispiegamento sovietico dei missili nucleari SS-20 negli stati dell'Europa dell'Est e la minacciata risposta USA di costruire e installare i missili Pershing e Cruise nei Paesi della NATO; in questa mozione si chiedeva alle due parti la sospensione, o il rinvio temporaneo, della fabbricazione e installazione dei summenzionati missili oltreché l'apertura d'immediate trattative tra le due parti.[8]
Nel marzo 1979 si svolse a Roma il XV Congresso del partito, dove Berlinguer sostenne il bisogno della creazione di una «terza via al socialismo» come risposta alle asserite crisi di modelli sovietico e socialdemocratico. Questa ipotesi inizialmente farà guadagnare al PCI il favore di elementi dei partiti socialisti e socialdemocratici europei nonché l'interesse dell'Internazionale Socialista; favore presto raffreddatosi, per effetto della crisi della distensione fra Est e Ovest e delle vittorie dei partiti conservatori nel Regno Unito e nella Germania Ovest.[9]
La linea politica del PCI rispetto all'URSS e alla socialdemocrazia europea divenne, nell'estate 1979, oggetto di un'intervista a Berlinguer da parte del settimanale tedesco Stern, realizzata mentre il segretario comunista si trovava a Jalta, formalmente per le vacanze estive ma verosimilmente anche per degli incontri coi dirigenti sovietici; il contenuto della conversazione suscitò discussioni in Italia, e il testo nell'originale in lingua italiana fu ripubblicato dalla rivista Epoca.[10]
Alla domanda: «Nella Repubblica federale tedesca ci si chiede spesso dove è rimasta la differenza ideologica tra il PCI e i socialdemocratici», la risposta fu:
«Ma la storia, il passato e le concezioni attuali hanno reso e mantengono assai diversi i socialdemocratici tedeschi dai comunisti italiani. "Socialdemocratico" non è l'insulto peggiore che mi possa essere fatto. Ma io non mi sento socialdemocratico, mi sento comunista, Non ho disprezzo per la socialdemocrazia. Anzi, sono del parere che si può imparare anche dalle sue esperienze, ma per superarle.»
Riguardo alla richiesta di avere chiarezza sulla linea politica e sull'assenza di prese di posizione a proposito dei dissidenti sovietici, Berlinguer rispose:
«Noi abbiamo preso ripetutamente posizione a favore del rispetto di tutte le libertà anche nei paesi socialisti.»
All'insistenza del giornalista evidenziante il diverso atteggiamento dei comunisti spagnoli: «Ma nel giornale del vostro partito, l'Unità, finora non sono stati pubblicati né una lettera al direttore né un articolo di un dissidente. Perché lei lascia al segretario comunista spagnolo Carrillo la dichiarazione di solidarietà esplicita a favore dei dissidenti tedeschi Havemann e Bahro?», replicò:
«Ripeto: abbiamo preso posizione ripetutamente contro certe limitazioni delle libertà. Anche i casi Havemann e Bahro sono stati discussi su l'Unità. Noi abbiamo su queste questioni una chiara posizione di principio. Sui singoli fatti decidiamo di volta in volta le forme di iniziativa che ci sembrano più giuste ed efficaci.»
Alla successiva domanda riguardante i rapporti con i partiti dell'europa dell'est: «Lei considera il Partito comunista della DDR ancora un partito fratello?», la risposta fu:
«Questa parola – partito fratello – non fa parte del nostro vocabolario. Però considero la SED un partito con il quale abbiamo rapporti amichevoli anche se abbiamo posizioni diverse su una serie di questioni.»
E quindi al quesito: «Il vostro compagno spagnolo Carrillo ha detto che egli non considera l'URSS un esempio da seguire, non lo considera neanche più un paese socialista, La vostra indipendenza da Mosca fin dove arriva?», la risposta fu:
«Io ritengo che l'URSS sia un paese socialista. Questo non significa però che in URSS esiste un socialismo che noi vogliamo imitare. Non credo oltretutto che si possa misurare l'indipendenza di un partito comunista da una dichiarazione di condanna contro Mosca, La nostra totale indipendenza non ha bisogno di ciò.»
Pochi mesi dopo l'intervista a Stern, sul finire del dicembre 1979 l'URSS occupò militarmente l'Afganistan: l'azione fu immediatamente condannata da Berlinguer e, al contrario, giustificata da Amendola.[11] Il 16 gennaio 1980 Berlinguer, in un discorso al Parlamento europeo, riprese esplicitamente la condanna ma entro un contesto generale contro l'imperialismo, in cui citò lo stesso Amendola.[12]
Amendola morirà nel giugno di quell'anno, seguito in ottobre da Luigi Longo: con loro scomparivano gli ultimi padri fondatori storici del PCI.[11]
Il 13 dicembre 1981 il comandante dell'esercito polacco, il generale Wojciech Jaruzelski, dichiarò lo stato di legge marziale nel Paese allo scopo di fermare l'opposizione politica al regime, guidata dal movimento di Solidarność. Due giorni dopo, Berlinguer, rispondendo alle domande dei giornalisti durante il programma televisivo Tribuna politica affermò che «si era esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre» e che occorreva individuare una terza via tra la socialdemocrazia e il modello socialista est europeo capace di superarli criticamente.[13] Questa valutazione, che venne considerata come la scelta di sganciamento del partito dal legame con Mosca, fu positivamente salutata da molti commentatori politici della stampa, tra cui Eugenio Scalfari, Sergio Turone e Giampaolo Pansa,[14] mentre Armando Cossutta, esponente dell'estrema sinistra del PCI, la definì negativamente come uno «strappo da Mosca», polemizzando con il suo segretario.[15]
Negli anni 80 il movimento operaio entra in crisi e il PCI restò fortemente scosso prima dalla morte improvvisa di Berlinguer, l'11 giugno 1984, e poi l'anno dopo dalla sconfitta nel referendum abrogativo sulla scala mobile. Anche sul piano elettorale e degli iscritti le cose non andavano meglio: per la prima volta nella sua storia, il PCI non avanzò e per di più il PSI, che sembrava moribondo fino al 1978, iniziava, con la nuova direzione di Craxi, una continua e costante ascesa – la cosiddetta «onda lunga» socialista – che l'avrebbe portato nel 1983 alla presidenza del Consiglio dei ministri. Il PCI restava il secondo partito italiano e il primo della sinistra, ma sembrava ormai possibile un non lontano sorpasso socialista.
Il PCI era in crisi e iniziò una discussione al proprio interno; ma alla guida dei comunisti italiani era subentrato Alessandro Natta il quale riparò a quello che era sembrato uno strappo dal Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS) ad opera di Berlinguer, andando a Mosca con un discusso viaggio organizzato da Cossutta che sembrò bloccare la via europeista del PCI.[16][17]
In questo clima la Repubblica rilanciò l'idea di una trasformazione, simile a quella in senso socialdemocratico portata avanti a suo tempo in Germania Ovest dalla SPD, per provare a salvare il PCI. Il 22 agosto 1985 venne pubblicato un articolo dell'ex deputato comunista Guido Carandini il quale, dopo aver descritto la storia del PCI come una «grande illusione», chiuse sostenendo che:
«se veramente si è arrivati, come io credo, a questo punto di non ritorno, perché quanti di noi, che ambirebbero respirare un'altra aria politica di quella che spira nel PSI e nel PCI, non fanno con totale franchezza un esercizio di fantasia immaginando e poi dichiarando pubblicamente ciò che gli piacerebbe che avvenisse? Per esempio, la convocazione di un congresso super-straordinario per decretare la fine dell'era euro-"comunista"? E poi, immancabilmente, una bella scissione fra l'ala continuista guidata dal compagno Cossutta e quella che, pur fra molti mugugni, decide di:
Dalla segreteria del PCI arriverà pronta la replica a Carandini (e altri) da parte di Adalberto Minucci:
«Quando Carandini arriva a sostenere che negli anni Settanta il PCI avrebbe puntato le sue carte su una "dissoluzione" in atto "della forma stessa di produzione capitalistica". Certo è facile bollare una tale idea come "fantasia sciocca, pericolosa, infantile". Ma è assai più probabile che si confonda la crisi di una politica con ciò che è stato, assai più modestamente, un abbaglio personale. Se su questa base il nostro amico vuol fare un "congresso superstraordinario" per proclamare la nascita di un "partito del lavoro" basato sulle correnti e sulla rivalutazione della socialdemocrazia, si accomodi pure. Mi permetto di suggerire la parola d'ordine di una tale assise: "Evviva la modernità! Avanti verso l'Ottocento!"»
Il dibattito sulla stampa si arenò su Minucci che definì orgogliosamente il PCI «un partito riformatore moderno o, se si vuole, un partito rivoluzionario moderno».[20] Per i critici è un assurdo ossimoro, ma dalla segreteria Achille Occhetto su l'Unità bollò queste discussioni come «nominalistiche» spiegando che il PCI intende «prestare ascolto al pungolo critico di quanti ci vorrebbero diversi. Ciò non vuol dire che vogliamo o dobbiamo accettare le ricette un po' troppo semplici che ci vengono proposte» (29 agosto 1985).[21]
Mino Fuccillo recatosi per la Repubblica alla festa nazionale de l'Unità del 1985 a Ferrara, così descrisse il clima che si viveva alla base come al vertice del partito:
«Ci spiegano che questa storia del nome è una panzana, che all'Est i partiti più filo-sovietici non si chiamano "comunisti" ma caso mai "del lavoro", ci ricordano, pungenti, che di partiti pragmatici, che amministrano lo Stato e lo status quo, in Italia ce n'è in abbondanza. Se ne resta uno che pecca di "idealismo" non sarà poi tanto male. E ti rimbeccano: "Quelli che spingono a cambiar nome vogliono un'altra politica. Ma se ce l'hanno, la tirino fuori, aspettiamo serenamente". Sali un po' su nella gerarchia e trovi la stizza: il professor Vacca liquida il tutto come "paccottiglia", si trincera dietro la vacuità del dibattito sul nome del partito. Ma è nervoso, duro, tagliente e adirato quando racconta alla prima folta platea del festival come i giornali stiano rubando il congresso al PCI. Nessuno vuole cambiare nome, da Natta al compagno dell'ultima sezione, ma di quella "paccottiglia" discute il PCI e soprattutto da quella "paccottiglia" si sente assediato.»
La perdurante crisi del PCI, l'insediamento a Mosca di Michail Gorbačëv come segretario generale del PCUS nel 1985, la crisi conclamata delle repubbliche popolari dell'Est Europa e lo speculare splendore dell'Occidente ringalluzzito da un'economia forte e dall'impronta radicalmente neoliberista, riproporranno il dibattito sul nome del PCI, trovando terreno fertile nel nuovo segretario generale del PCI Achille Occhetto, eletto dal comitato centrale del partito nel giugno 1988, dopo un leggero infarto che aveva colpito l'allora segretario Alessandro Natta.
Dal suo insediamento, Occhetto con la sua giovane segreteria cercò di imprimere dei forti cambiamenti al partito: tale indirizzo venne criticato sia da Cossutta, che vedeva ormai nel PCI un partito «liberal-democratico»,[23] sia da Augusto Del Noce, che vi vedeva conferma della sua tesi circa l'evoluzione come «partito radicale di massa».[24] In effetti, dopo una crisi ormai decennale, si è fortemente fatto strada l'ipotesi che il PCI potesse ritrovare linfa solo percorrendo nuove strade, utili per approdare nell'Internazionale Socialista e dar vita a un partito unico della sinistra italiana, incoraggiata dal contemporaneo rinnovamento sovietico.
Circa venti giorni dopo la sua elezione a segretario, Occhetto, in occasione dell'inaugurazione di un busto a Palmiro Togliatti, espresse un forte accenno critico verso la figura dello storico segretario del PCI: «fu inevitabilmente corresponsabile di scelte e di atti [...] di un'epoca piena di ombre nella storia del movimento operaio».[25] A tali affermazioni, che fecero parlare di sconfessione del passato, venne altresì dato ampio risalto due giorni dopo sulla prima pagina dell'Unità, in un editoriale di Enzo Roggi intitolato Occhietto su Togliatti: la novità c'è; la stessa pagina del quotidiano del partito aveva come titolo principale Gli Usa: «L'Urss ritirerà le truppe dall'Ungheria» e un occhiello, Per Bukharin e Rykov riabilitazione politica, due eventi che rimettevano in discussione la storia stalinista dell'URSS.[26]
A gennaio 1989, in un'intervista a Ferdinando Adornato per L'Espresso, motivata dal bicentenario della Rivoluzione francese, Occhetto arrivò ad affrontare il tema dell'origine ideologica del partito, affermando che «se guardiamo a quel momento fondamentale della Rivoluzione che fu la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, non c'è dubbio: il PCI è figlio di questo grande atto della storia. È figlio della Rivoluzione francese», parole che rimuovevano l'origine del partito dalla Rivoluzione d'ottobre bolscevica spostandolo alla rivoluzione borghese figlia dell'Illuminismo.[27]
Per questi motivi, dentro al PCI a qualcuno parve necessario mettere la parola fine a un certo modo di fare politica, vuoi per un tradizionale rispetto verso Mosca (se si rinnova il PCUS, si deve rinnovare anche il PCI), vuoi per la paura di rimanere sepolti da un partito ritenuto improvvisamente anacronistico. Anche se la svolta avvenne nel novembre 1989, sette mesi prima era iniziato un "nuovo" dibattito sul nome del PCI. A iniziarlo fu Giorgio Napolitano, considerato il leader dell'area più socialista del partito ed erede di Amendola, durante un dibattito radiofonico sulla sinistra con Alma Cappiello e Alberto Asor Rosa (Radio anch'io, 12 febbraio 1989).
Spiegava Napolitano:
«Il PCI ha preso ufficialmente in considerazione due volte la possibilità di cambiare nome: la prima nel 1945, la seconda nel 1965, quando cioè si è parlato di possibile unificazione tra PSI e PCI (o, nel '65, con una parte importante di esso) e allora la cosa sarebbe stata facilmente comprensibile. Io do grandissima importanza alla sostanza del nostro cambiamento: decidere di cambiare il nome del partito potrebbe dare l'impressione che vogliamo dimenticare la nostra storia. Noi non la dimentichiamo e credo che per essere credibili dobbiamo fare i conti, apertamente, con il nostro passato. In ogni caso non mi scandalizzerei di un cambiamento del nome, ma vorrei che fosse legato a dei fatti politici, nel senso di una ricomposizione della sinistra in Italia e in Europa, del superamento pieno delle divisioni e di tutto ciò che di storicamente vecchio e non più sostenibile c'è nella sinistra nel suo complesso.»
Quanto al nome, Napolitano boccia Partito Democratico perché un po' troppo generico: «Il nome più classico sarebbe senza dubbio "Partito del Lavoro" per un partito della sinistra che, pur rinnovandosi, voglia continuare ad avere una sua connotazione precisa; o partito dei lavoratori, come partito che non abbandona l'obiettivo della piena occupazione, sia pure concepita in termini diversi rispetto al passato».[28]
Napolitano fu quindi cauto, ma possibilista ad archiviare il nome del PCI per qualcosa di nuovo. Pochi giorni dopo il settimanale Epoca sondò sulla questione l'elettorato comunista, risultando che soltanto il 27,7% concordava con Napolitano. Allo stesso tempo i comunisti, secondo il sondaggio, non erano disponibili a modificare il simbolo del partito (cioè, presumibilmente, a rimuovere la falce e martello).[29] Un mese dopo il vicesegretario del PSI, Claudio Martelli, affermò:
«Si faccia coraggio Occhetto e piloti con franchezza il PCI nella socialdemocrazia europea, con tanto di nome nuovo per il suo partito»
Le novità occhettiane e la sua leadership saranno consacrati dal XVIII Congresso del marzo 1989: è il cosiddetto "nuovo corso", si parla di "nuovo PCI" e lo stesso Occhetto aprirà l'assise definendola un congresso di «rifondazione».[30]. Il programma politico del segretario raccolse il sostegno di un'ampia maggioranza; l'unica opposizione rilevante venne dal solo Cossutta.[31] Il 16 marzo 1989 Occhetto annunciò a Tribuna politica che al XVIII congresso si sarebbe visto «un PCI che discuterà anche della possibilità di cambiare nome, ma senza accettare diktat altrui. [...] Noi riteniamo che la questione del nome debba essere decisa autonomamente dal partito».[32]
In maggio, Occhetto sarà il primo segretario del PCI a ottenere il visto d'ingresso negli Stati Uniti d'America, dove si recherà assieme a Napolitano, al tempo responsabile della sezione esteri del partito. Durante questo viaggio incontrerà personalità del Congresso statunitense oltreché politologi ed esperti di relazioni internazionali, indicando loro le intenzione del "nuovo PCI" di essere parte integrante della sinistra europea e delle sue massime istituzioni.[33] La reazione di molti intellettuali della sinistra d'oltreoceano è più che positiva: Noam Chomsky giudica che il PCI sia ormai simile alla SPD tedesca mentre Victor Navaski, direttore della rivista The Nation, scrive che ha avuto l'impressione di discutere con un leader che parla lo stesso linguaggio dei liberals di Manhattan; proprio riferendosi a quest'ultimo attributo politico, Occhetto si spingerà ad affermare che «In America la parola "liberal" ha un significato che assomiglia molto a ciò che in Europa si intende con sinistra. Così in America, parlando del PCI si potrebbe parlare di un "Italian liberal party". Ma in Italia "liberale" significherebbe un'altra cosa».[34]
Anche se la questione del nome era posta, in realtà a tener banco fu la possibilità di un ricongiungimento fra socialisti e comunisti all'interno dell'Internazionale Socialista e all'opposizione in Italia. Tuttavia il PSI era sempre legato alla DC e al governo e, pur aprendo al PCI, non nascose una certa insofferenza verso i comunisti. PCI e PSI continuarono così a parlare di "unità socialista" e di "superare Livorno", cioè la scissione comunista del 1921, ma accusandosi reciprocamente di voler sabotare questo processo unitario.
Spiegava Craxi all'assemblea degli eurodeputati a Sorrento del 1989:
«Il rapporto tra noi e i comunisti è andato riequilibrandosi. Il PSI era un quarto del PCI, ora è la metà, un milione di voti si è riversato sul garofano. Ci accusano spesso di essere moderati: ma noi cresciamo con i voti comunisti, non con quelli moderati. L'alternativa non è ancora possibile, ma lo sarà. Il dato di partenza è che in Italia non c'è numericamente e politicamente ora una maggioranza di forze progressiste. Quindi è obbligatorio allearsi col partito di maggioranza relativa, la DC. Anche se questo vuol dire rapporti difficili nel governo, continue tensioni e verifiche.»
Craxi apprezzava le trasformazioni del PCI in senso socialista, europeo, occidentale, con riserva verso il suo mantenimento dell'ideologia comunista:
«È lo sviluppo logico, dettato dall'esperienza della storia. È naturale. Ma per essere socialisti bisogna anche chiamarsi socialisti: i latini dicevano che i nomi sono conseguenza delle cose. Invece la risposta complessiva data dal PCI è stata assolutamente deludente: quel partito non sarà più una formazione dogmatica e chiusa, ma resta pur sempre incerto e ambiguo, anche a causa di quel ripetere di voler restare comunque comunista.»
Sulla stessa linea si collocherà il mese dopo il New York Times (8 maggio 1989) che definirà il PCI «un partito socialdemocratico in tutto eccetto che nel nome».[35][36]
Tra il 15 aprile e il 4 giugno tutto il mondo fu scosso dai moti di rivolta nella Repubblica Popolare Cinese contro il governo gestito dal Partito Comunista Cinese, repressi con la forza nel massacro del 4 giugno 1989 in piazza Tienanmen. Occhetto, alla notizia della strage, interruppe un comizio a Firenze per recarsi a manifestare la sua protesta di fronte all'ambasciata cinese a Roma,[33] dichiarando: «Noi protestiamo non come parte di un movimento comunista; non solo perché questo movimento internazionale non esiste, ma perché non c'è nulla in comune tra noi e chi si rende responsabile di crimini come quelli che avvengono in Cina. Protestiamo come forza democratica e socialista europea».[37]
Nello stesso mese di giugno, all'avvicinarsi delle elezioni europee del 1989 si fecero più forti e pressanti le voci che volevano il PCI pronto a cambiar nome, per quanto suoi esponenti sia dell'ala destra come Luciano Lama, sia sinistra come Luciana Castellina, erano concordi nell'affermare che «per ora meglio di no» poiché non sono ancora intervenuti fatti tali (cioè, per esempio, la concreta possibilità di un'unità a sinistra) da rendere necessario un'operazione – tutt'altro che facile – come cancellare l'aggettivo "comunista".[38]
Ma fu appunto la repressione cinese a spingere a giugno l'intera classe politica italiana a fare pressione sui comunisti affinché cambino nome. Per esempio Giorgio La Malfa argomentava:
«I comunisti farebbero bene a cambiare, perché è un nome che ormai non si associa più a qualcosa che riguarda il progresso ma a forme di governo di Paesi storicamente falliti»
Il democristiano e al tempo ministro degli Esteri Giulio Andreotti così si espresse:
«La questione mi dà un certo avvilimento perché pur avendo creato momenti terribili di lotta, di difficoltà, il PCI, lo riconosco è stato in altri momenti elemento essenziale della vita politica italiana, nel costruire la Repubblica. Non è il nome da cambiare: bisogna abbandonare qualunque eventuale nostalgia per formule passate»
Intervistato da L'Espresso, Occhetto rispondeva:
«Cambiare? Non è un problema. Purché non sembri solo un maquillage. Prima però bisognerebbe cominciare col dire che non siamo come veniamo descritti. Se non si conoscono i contenuti che potrebbero portare al cambiamento del nome, alla fine non cambierebbe nulla.»
A commento delle elezioni regionali sarde dell'11 giugno 1989, Occhetto aggiunse:
«Quello che si teme dal PCI non è il vecchio ma proprio il nuovo. Non si vuole cioè che in Italia ci sia un partito socialista all'opposizione, come noi siamo, democratico, libero, autonomo, che non dipende da alcuna centrale. Il nuovo PCI però è chiamato, forse in anticipo rispetto ai tempi immaginati, a fare i conti con la nuova realtà internazionale e con i simboli stessi che la identificano. Cambiare nome allora? Il PCI ha un nome: comunista. E un cognome, italiano. E questo cognome è molto importante perché ha segnato e segna l'originalità della nostra posizione»
Il 15 giugno Occhetto chiariva, intervistato da Giampaolo Pansa su la Repubblica:
«Il problema del nome è secondario. E nel dirlo non mi rinchiudo in un rifiuto settario. Al contrario, noi vogliamo diventare uno strumento per costruire in Italia qualcosa di nuovo a sinistra, anche dal punto di vista organizzativo. Vogliamo costruirlo col PSI, naturalmente, e anche con altre forze, su basi programmatiche chiare. In questa prospettiva, possono esserci fasi intermedie: patti elettorali, forme di associazione o confederazione tra partiti, sino all'unificazione vera e propria, sino alla nascita di un'unica forza di sinistra, pluralistica anche se unitaria, e senza partiti-guida.[40]»
Tre giorni dopo, alle elezioni europee, il PCI riportava un discreto risultato col 27,6%;[41] il paragone con le consultazioni continentali di cinque anni prima (33,3%) è improponibile, perché influenzato dalla scomparsa improvvisa di Berlinguer. Nessun crollo dunque, come tanti pronosticavano anche dentro il partito, e addirittura un recupero rispetto alle elezioni politiche del 1987 (+1%):[42] la questione del nome sembra nuovamente accantonata.
In giugno, in Polonia, il Partito Operaio Unificato aveva perso le prime elezioni libere svoltesi il 4 e 18 del mese, permesse dal regime dopo una trattativa con Solidarnosh; in luglio l'ungherese Partito Socialista Operaio cambiò nome e aprì le frontiere. Il tutto dopo la decisione di Michail Gorbačëv che nel 1988, bloccò l'ingerenza sovietica sui suoi stati satelliti.
A settembre Martelli riapriva al PCI sulla possibilità dell'unità a sinistra e avvertiva che «nella giovane guardia comunista c'è però una disponibilità a cambiare nome al partito se si creano condizioni nuove. E questa è un'opportunità che va colta. Se si vuole inquadrare il processo di riunificazione nel perimetro della socialdemocrazia europea, allora chiamiamo la nuova formazione unitaria grande forza socialista riformista o in qualche altro modo. L'importante è non lasciarsi sfuggire l'occasione».[43] Ma più delle parole socialiste, furono gli eventi dell'Europa dell'Est che esercitarono una pressione maggiore; anche per il loro continuo e incalzante evolvere, accelerato dall'apertura delle frontiere ungheresi che provocò l'esodo di migliaia di tedeschi orientali con un effetto domino sulla stabilità politica della DDR.
Il 10 ottobre dalla segreteria, Claudio Petruccioli rigettò nuovamente la richiesta esterna di cambiare nome:
«Non scherziamo. Il partito ungherese giunge oggi, dopo un lungo travaglio, all'approdo della democrazia e del pluralismo. Il PCI è da gran tempo su questa sponda. Nessun parallelo è possibile. I partiti dell'Est devono necessariamente, per diventare credibili in una dimensione nuova, tagliare i ponti con la loro storia. Il partito ungherese si è identificato col potere dello stato, è stato il partito unico al governo, ha fondato e gestito un regime. Noi non siamo mai stati né un partito di regime né un partito di comando, la libertà nel nostro paese non l'abbiamo mai conculcata, l'abbiamo anzi conquistata e difesa. Un partito deve cambiare nome quando sente di avere responsabilità insostenibili verso il paese in cui opera. Sinceramente, di che cosa ci dovremmo vergognare noi di fronte al popolo italiano? Se c'è qualcuno che me lo dice.... Come abbiamo già ripetuto fino alla noia, il problema del nome si porrà di fronte a fatti politici nuovi, a nuove aggregazioni delle forze di sinistra.»
Dalle colonne de L'Espresso, La Malfa insistette:
«Quando gli ungheresi e i polacchi decidono di rompere con il nome stesso, si apre oggettivamente un problema al PCI. Ma insomma, voi chi siete?, è la domanda che viene naturale porre in mezzo a tutti questi sconvolgimenti.»
Il responsabile della cultura Pier Ferdinando Casini della Democrazia Cristiana commentò che «il cambiamento di nome del Partito Comunista Italiano non è un pretesto polemico né una esigenza nominale, ma rappresenta, in primo luogo per i comunisti, la cartina di tornasole della loro volontà di rompere con un passato caratterizzato da grandi fallimenti».
Proprio mentre andavano in stampa queste dichiarazioni, la sera del 9 novembre 1989 fu abbattuto il muro di Berlino. Quella sera Occhetto era a Bruxelles, dove, guardando in diretta televisiva le immagini degli avvenimenti berlinesi assieme al leader laburista inglese Neil Kinnock, commentò: «Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento», ricevendo come risposta da Kinnock la domanda «Cambierete nome?». Il giorno seguente Occhetto ne discusse con la segreteria del partito, che trovò solidale.[46]
Il fatto che la DDR rinunciasse al muro di Berlino e aprisse le frontiere, fu il segnale definitivo che l'ordine di Jalta era ormai tramontato: a quel punto il segretario generale Occhetto ritenne mutata la prospettiva del PCI.
Il 12 novembre Occhetto andò a sorpresa a Bologna per partecipare alla manifestazione per celebrare il 45º anniversario della battaglia partigiana della Bolognina, il quartiere interno al quartiere Navile. Davanti agli ex partigiani raccolti nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi 17, Occhetto annunciò che occorreva «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza [...] Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i veterani e gli disse: voi avete vinto la seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Per Occhetto, era necessario «non continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». E a chi gli chiese se quanto dice lascia presagire che il PCI possa anche cambiare nome, Occhetto rispose: «Lasciano presagire tutto».[47]
Dal giorno dell'annuncio iniziò una discussione: la sinistra del partito era contraria, ma anche nell'ala destra Pajetta, già dal giorno successivo all'annuncio, si dichiarò ostile alla svolta:
«Io non mi vergogno di questo nome né della nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là (i comunisti dell'Est, ndr). Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista? Io dico soltanto che quando Longo mi mandò da Parri per costituire il comando del CLN, né Parri, né altri mi chiesero di cambiare nome, ma soltanto di combattere insieme.»
Il giorno successivo, 13 novembre, se ne discusse ufficialmente in segreteria – compatta col segretario – e quindi per altri due giorni in Direzione. Qui Occhetto chiese che il PCI promuovesse una «fase costituente sulla cui base far vivere una forza politica che, in quanto nuova, cambia anche il nome», trovando opposizione tra alcuni quadri storici del partito come Pajetta, che al tempo presiedeva la Commissione centrale di garanzia del partito, e Pietro Ingrao[46] che, per forzare un po', proprio sulla svolta Occhetto pone la fiducia al suo mandato.
La Direzione durò due giorni e si concluse con un rinvio della discussione in Comitato Centrale. Spiegò Occhetto:
«Benché la direzione fosse ampiamente d'accordo con me, non ho ritenuto di dover mettere ai voti la mia proposta perché chi deve decidere è il partito. Da domani, non cambieremo nome, continueremo a chiamarci come ci chiamiamo. Voglio dire a tutti che non ci stiamo sciogliendo, che il PCI è in campo ed è talmente vivo che propone una cosa più grande. Su questo apriamo una discussione seria, e credo che tutti i compagni debbono essere molto tranquilli: la sorte del partito, il futuro del PCI è nelle mani di ciascun militante.»
La destra del partito quasi compatta si schierò col segretario spingendo verso una futura fusione col PSI nell'Internazionale Socialista, mentre il resto della direzione prese una posizione attesista. E su l'Unità il direttore Massimo D'Alema scrise: «Quella che prospettiamo non è la prospettiva della rinuncia o dell'abiura». Precisazione dovuta dopo che molti militanti avevano intasato i centralini del quotidiano protestando contro la svolta. Le telefonate saranno trasmesse dal 15 su ItaliaRadio,[48] da un anno e mezzo emittente radiofonica del PCI.[49]
Nel frattempo Cossutta affermava: «Occhetto intende lasciare il PCI. La domanda non può essere "cosa faranno i comunisti", perché è ovvio che essi vogliono rimanere in un partito comunista. La domanda vera è: quanti saranno quelli che, non sentendosi più comunisti, decideranno di seguire Occhetto in un altro partito non più comunista?». Da qui la proposta di un referendum fra gli iscritti o un congresso straordinario al più presto.
Il 16 novembre si delineò l'opposizione alla svolta: da Madrid rientrò Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del PCI: «Non sono d'accordo con la proposta avanzata da Occhetto. Spiegherò il mio dissenso nel Comitato centrale».[50] Lo stesso giorno la sezione "Togliatti" di Treviso fonda un Comitato per la difesa del simbolo guidato da Zeno Giuliato.[51]
Il 20 novembre, il Comitato centrale del partito, riunito nella sede di via delle Botteghe Oscure, iniziò una riunione in cui, per cinque giorni, i quasi 400 membri discuteranno della svolta. Ad accoglierli all'ingresso della sede ci sono 200 militanti che fischiano e insultano i favorevoli alla svolta; l'auto di Luciano Lama è presa pure a calci.[52] La tensione è alta e alla fine Piero Fassino, responsabile dell'organizzazione, proverà a calmarli incontrandoli nei sotterranei della sede comunista,[53] mentre al 5º piano del palazzo proseguiva il Comitato centrale.
Nella sua relazione introduttiva Occhetto affermò di «condividere il tormento» dei compagni, ma chiese «fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?», da qui l'idea di fare un nuovo partito con altri vicini di sinistra – definiti da Occhetto «sinistra diffusa» – per poi andare al governo col PSI e altri e ponendo la DC all'opposizione. Tra le stesse fila del segretario c'è chi come Napolitano vedeva nel nuovo partito l'occasione storica per andare verso un matrimonio col PSI e chi come D'Alema vi vede l'occasione per continuare con maggiore linfa un forte braccio di ferro a sinistra col PSI. Occhetto chiuse avvertendo che «prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica».
Da quel momento il dibattito sulla svolta della Bolognina sarà anche conosciuto come il "dibattito sulla Cosa" e si concluse con una votazione su questo ordine del giorno: «il Comitato centrale del Pci assume la proposta del segretario di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica», a cui presero parte 326 su 374 membri; i favorevoli furono 219, 73 i contrari e 34 gli astenuti. Contemporaneamente fu indetto un congresso straordinario da svolgere entro quattro mesi per decidere se dar vita a un nuovo partito, come proposto dalle opposizioni a questa linea.[46] Fra i contrari al cambio del nome vi era il presidente Alessandro Natta.
Il 21 novembre il deputato genovese Antonio Montessoro lasciava il PCI dopo trent'anni di militanza: «Non avevo scelta: quando ti accorgi che la situazione sta precipitando, stupidamente; di fronte all'inaffidabilità di questo gruppo dirigente, ad una prova di imperizia e di inesperienza assoluta, non potevo fare altrimenti. Mi sono sentito defraudato del mio lavoro, dei trent'anni di vita dedicati al partito: e me ne sono andato».[54] Dal 23 novembre Montessoro è iscritto al gruppo misto.[55]
I contrari alla svolta cercarono anche un incontro con Michail Gorbačëv, durante la sua visita a Roma in quel periodo, ma il segretario del PCUS non volle acconsentire all'incontro per mantenersi neutrale rispetto a un dibattito ormai considerato soltanto d'interesse interno al PCI.[33]
Il penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all'11 marzo 1990. Tre le mozioni discusse: una redatta dal segretario Occhetto, la quale proponeva di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore, nel solco dell'Internazionale Socialista; una seconda, firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva a una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; e una terza proposta da Armando Cossutta, simile alla precedente.
La mozione di Occhetto risultò vincente con il 67% delle preferenze, contro il 30% raccolto dalla mozione di Natta e Ingrao e il 3% di quella cossuttiana. Inoltre, Achille Occhetto venne riconfermato segretario, mentre Aldo Tortorella, che aveva firmato la mozione Natta-Ingrao, fu rieletto presidente.
L'ultimo congresso del PCI si aprì il 31 gennaio 1991 a Rimini. La mozione di Occhetto, appoggiata tra gli altri da Massimo D'Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino, risultò vincente sicché il 3 febbraio venne approvato lo scioglimento del partito con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti.[56] Nacque il Partito Democratico della Sinistra (PDS), avente come simbolo una quercia recante alla base del tronco, simbolicamente vicino alle radici, il vecchio emblema del PCI con falce e martello. L'8 febbraio venne eletto lo stesso Occhetto come primo segretario del PDS, con 376 voti di preferenza contro i 127 voti contrari; sebbene quattro giorni prima, a causa dell'assenza di 132 consiglieri, a sorpresa l'artefice della svolta non era riuscito a raggiungere il quorum necessario per l'elezione. Primo presidente viene eletto Stefano Rodotà.
Alla mozione del segretario si oppose il cosiddetto "Fronte del No", capeggiato dal filo-sovietico Armando Cossutta e sostenuto da Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Sergio Garavini e Fausto Bertinotti. Un gruppo di delegati di quest'ultimo fronte, tra cui Cossutta e Garavini (ma, almeno inizialmente, non Ingrao e Bertinotti) decise di non aderire al nuovo partito, e di dare vita a una formazione politica nuova, che mantenesse il nome e il simbolo del vecchio Partito Comunista Italiano: il 15 dicembre 1991 nacque così il Partito della Rifondazione Comunista.
In un'analisi del 2014, per Emanuele Macaluso «Il Pds, nato dopo la svolta della Bolognina, aderì all'Internazionale socialista, ma non al Partito socialista europeo, e il gruppo degli eletti a Strasburgo sostanzialmente mantenne la stessa equivoca collocazione del Pci nel gruppo parlamentare socialista»,[59] mentre per Gianfranco Pasquino «I compagni della Bolognina rimasero sconcertati quando sentirono dire da Occhetto che il loro dio non era mai esistito, e che comunque non doveva essere più venerato. Ma furono rassicurati dalla permanenza di una religione: la quale, come si sa, spesso prescinde da una fede e comunque ad essa sopravvive».[60]
Le vicende di quegli anni furono così giudicate dal socialista Rino Formica nel 2016: «Berlinguer e i suoi successori hanno peccato di presunzione. Hanno creduto di poter guidare il disfacimento del sistema perché erano la forza più robusta e organizzata [...] In fondo questo è l’ennesimo frutto velenoso del richiamo alla diversità, della convinzione di essere i migliori, di una mentalità che gli eredi di Berlinguer non hanno ancora abbandonato, benché siano ridotti al 16 per cento».[61]
Sempre Macaluso nel 2019 affermò: «La svolta è stata un inizio che non ha avuto seguito coerente e compiuto. Molte domande da cui prendemmo le mosse, sono ancora senza risposta. In questo senso è una ferita aperta».[46]
Montanelli, nella sua Storia d'Italia commentò: «[un] partito che nella sua sigla rinunciava sia all'aggettivo comunista sia all'aggettivo socialista, che aveva per simbolo la Quercia (radicata nella bandiera rossa con falce e martello), che cercava il suo collante, ha osservato Aurelio Lepre, "in una sorta di ideologia liberal". Il PDS riceveva in eredità dal PCI una organizzazione senza paragone più efficiente di quella d'ogni altro partito, e una dirigenza qualificata. Fortissimo era inoltre, nel PDS, il sentimento di "appartenenza", insomma il patriottismo di partito, che tanti militanti passatigli dal PCI avevano. Tutto questo rappresentò, per il PDS, una base più solida di quanto i più ritenessero».[62]
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