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romanzo scritto da Sebastiano Vassalli Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Un infinito numero è un romanzo fantastico di ambientazione storica dello scrittore Sebastiano Vassalli, edito da Einaudi in tre edizioni: 1999, 2001 e 2015.
Un infinito numero | |
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Autore | Sebastiano Vassalli |
1ª ed. originale | 1999 |
Genere | romanzo |
Sottogenere | fantastico, storico |
Lingua originale | italiano |
Il titolo del libro si riferisce a un pensiero del protagonista, Timodemo, il quale capisce, attraverso i suoi viaggi in Etruria e nel tempo, che la storia è destinata a ripetersi:
“Cosa verrà dopo il futuro?” “Tornerà il passato, cos'altro vuoi che succeda?"[1]
Il romanzo è incentrato sul monologo di Timodemo, nato a Nauplia (Grecia) ed abbandonato dalla madre in tenera età al venditore di schiavi Musodoro nel paese di Dorikranos. Istruito come grammatico dal maestro Quinzione, viene portato a Napoli dal grossista di schiavi Acrone, dove viene acquistato dal poeta Virgilio come suo segretario.
Ha inizio per lui una nuova vita a fianco dello scrittore, il quale fu incaricato da Ottaviano di scrivere un poema che celebrasse le origini di Roma.
L'etrusco Mecenate, protettore della cultura e degli artisti della capitale, suggerisce a Virgilio di intraprendere un viaggio nella terra dei Rasna, sconvolta dagli esiti della guerra civile imperversata tra Antonio e Ottaviano, sullo sfondo di una civiltà etrusca giunta al termine del suo destino di inesorabile declino. All'avventura prenderanno parte Mecenate stesso, Virgilio, Timodemo, Tanai, Sarmento e le ballerine Tecmessa e Ninfa. Lì infatti sono racchiusi i segreti della nascita di Roma.
Dopo numerosi e faticosi giorni di viaggio, il gruppo raggiunge le città di Surina e di Arezzo, dove Mecenate chiude i conti con due amministratori che avevano approfittato dei suoi beni in sua assenza.
Finalmente arrivano presso la città sacra di Sacni: mentre attendono di poter incontrare il sacerdote del dio Velthune, visitano i templi dedicati alle divinità di Velthune, dio della vita, Northia, personificazione del tempo ed infine Mantus, dio della morte e dell'oltretomba .
Quando il cielo è favorevole alla loro visita, i tre vivono un'esperienza catabatica all'interno del tempio di Mantus: un soprannaturale viaggio nel passato in cui, liberati dalla finitezza temporale dei propri "involucri" vitali, potranno rivivere l'"infinito numero" di tutte le vite pregresse, un'esperienza in grado di penetrare l'oscuro mistero che avvolge la nascita di Roma, e l'enigmatico rapporto dei Rasna con la storia, la memoria e la scrittura.
Dopo essere fuggiti da Troia, Enea e i suoi compagni, i Lidi, sbarcarono sulle coste del Lazio, dove fecero strage della popolazione autoctona… e l'origine di Roma, da sempre esaltata dai più grandi poeti, viene mostrata nella sua realtà.
“noi donne siamo state trascinate in uno spiazzo ai margini della città, perché dovevamo servire alla festa dei vincitori. […] Ho visto i diavoli venuti dal mare che bevevano il vino di mio padre direttamente dalle anfore, dopo averlo allungato con l'acqua della sacra sorgente, e dopo aver mescolato con le spade ancora sporche di sangue!”[1]
Sicuramente è messa in risalto la figura di Enea, diversa dall'immagine classica, tramandata nel corso dei secoli. “… il loro capo Enea: un uomo grasso e schifoso, più viscido di una lumaca e più puzzolente di un porco”.[1]
Qualche giorno dopo il risveglio, Mecenate, Virgilio e Timodemo riescono ad incontrare il sommo sacerdote, Aisna, discutendo sul perché una civiltà così evoluta, che conosceva e padroneggiava la scrittura, non abbia lasciato alcuna traccia di sé in opere scritte.
Virgilio: “Perché non avete mai scritto la vostra storia, e nemmeno le vostre riflessioni sulla vita e sul mondo?”
Aisna: “La scrittura ci fa orrore, così come ci fa orrore la morte. La parola scritta è un segnale di morte, non lo sai? […] Gli animali non possono morire: soltanto i loro nomi muoiono. Chi non ha un nome, e non può scrivere il suo nome, non muore in eterno.”[1]
Per dimostrare il potere distruttivo della scrittura, Aisna scrive su un pezzo di carboncino il proprio nome, quello della madre Ramutha e della bellissima Velia, di cui è innamorato Mecenate: entro il giorno seguente questi personaggi moriranno. Come annunciato dal sacerdote, è la fine dell'era dei Rasna: l'ultimo chiodo nel tempio di Northia è stato posto sulla parete-calendario della civiltà dei Rasna.
Terminato il viaggio in Etruria, Virgilio è continuamente sottoposto alle pressanti richieste di Ottaviano per la realizzazione dell'Eneide, la cui stesura è caratterizzata da continue modifiche. Negli ultimi mesi di vita, Virgilio si reca ad Atene dove incontra il principe: l'opera è ancora incompleta e la sua intenzione è quella di non pubblicarla, poiché la Roma e gli eroi presentati non corrispondono alla realtà.
“Roma era stata una città etrusca, e la sua storia era un rivolo della storia dei Rasna!”[1]
Dopo la morte del poeta, Timodemo tenta, insieme al servo Marittimo, di scappare con i manoscritti dell'opera, ma i due vengono scoperti: Marittimo viene catturato e crocifisso e i manoscritti vengono divulgati, nonostante il desiderio di Virgilio di distruzione dell'opera. La pubblicazione, voluta da Lucio Vario Rufo e Plozio Tucca, favorisce la diffusione di un'immagine falsificata di Enea, “massacratore di donne e bambini”[1] presentato come “modello di uomo romano: saggio, forte, paziente, generoso, rispettoso di tutte le leggi e tutte le divinità”.[1]
A Timodemo non resta altra via che sfuggire alla condanna a morte, imposta da Augusto: cercando l'oblio da quel mondo, si ritaglia una diversa identità e una nuova remota esistenza in una sperduta fattoria dell'Apulia, in cui la lettura continua a rappresentare la sua più forte passione.
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