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sostanza commestibile, cruda o cotta, che viene scartata Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Lo spreco alimentare è il fenomeno della perdita di cibo ancora commestibile che si ha lungo tutta la catena di produzione e di consumo del cibo.
Si stima che, ogni anno, un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo dell'uomo vada sprecato.[2] Soprattutto nei paesi ricchi, una grande parte di cibo ancora buono viene sprecato direttamente dai consumatori. Mentre un'altra grandissima parte del cibo si spreca durante tutto il processo di produzione degli alimenti. Dalla produzione agricola alla lavorazione, alla vendita ed alla conservazione del cibo.[3]
Nei paesi in via di sviluppo infatti lo spreco alimentare domestico è quasi nullo, invece la maggior parte del cibo viene sprecato durante le fasi intermedie di produzione o per problemi di conservazione. Secondo le stime dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) in media una persona che vive in Europa o in America del Nord spreca intorno ai 95–115 kg all'anno, mentre nell'Africa subsahariana intorno ai 6–11 kg all'anno 35% animale 20% vegetale.[4]
In termini di impatto ambientale si tratta di un problema enorme.[5] Le perdite di cibo e lo spreco alimentare in generale rappresentano un grandissimo spreco di risorse usate per la produzione come l'energia, l'acqua[6] e la terra.[4][7] Produrre cibo che non sarà consumato porta a sprechi non necessari di fonti fossili,[8] largamente impiegate per coltivare, spostare, processare il cibo, insieme al metano prodotto dalla digestione anaerobica che si ha quando i rifiuti alimentari vengono buttati in discarica.[9] Queste emissioni contribuiscono in maniera cruciale al cambiamento climatico. In quanto ad emissioni di anidride carbonica, che la FAO stima essere circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, si calcola che se lo spreco alimentare fosse uno stato, dopo Stati Uniti e Cina, sarebbe al terzo posto tra i paesi che ne emettono di più.[10] Oltre che per le emissioni, lo spreco di cibo è responsabile di una deforestazione sempre maggiore, che porta a una grossa e inutile perdita in termini di biodiversità.[11][12]
Esistono numerose possibilità di riduzione dello spreco alimentare, soluzioni e miglioramenti di tutta la catena di produzione e consumo del cibo. Dall'investire nelle infrastrutture per la conservazione post raccolta, all'aumentare la coscienza e la sensibilità dei consumatori.[13] Il cibo che sta per essere sprecato, per esempio, può essere rediretto ad associazioni di carità che lo possono distribuire a chi ne ha bisogno. Se il cibo non è più buono per il consumo umano, può essere utilizzato come nutrimento per il bestiame e diventare così un'ottima alternativa alla produzione di mangimi per gli animali. Non coltivare cibo che verrebbe successivamente sprecato resta comunque la soluzione migliore.[13]
Negli ultimi anni il movimento contro lo spreco alimentare e la coscienza generale riguardo a questo problema si è molto diffusa grazie alle tante associazioni ambientaliste e culinarie che hanno portato avanti campagne di sensibilizzazione e progetti per ridurre lo spreco.[14] Alcune tra le campagne più conosciute sono le Disco Soupe[15] e Feeding the 5000[16], eventi nei quali si cerca di sensibilizzare le persone dimostrando quanto cibo ancora buono venga buttato intorno a loro.
Il problema dello spreco alimentare è un problema emergente, molto complesso e articolato, che non comprende solo lo spreco domestico, ma tutte le fasi di produzione, lavorazione e conservazione del cibo. Molto spesso, nella letteratura scientifica, si utilizzano indistintamente i termini "rifiuto alimentare" o "spreco alimentare", problema dovuto alla traduzione dall'inglese di "waste" (che può significare sia rifiuto che spreco).[3]
La Commissione Europea si è recentemente dotata di una definizione di spreco alimentare standard, basata sui risultati del progetto di ricerca FUSIONS:
La definizione di «alimento» di cui al regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio comprende gli alimenti nel loro complesso, lungo l'intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo. Per alimento si intendono anche le parti non commestibili che non sono state separate da quelle commestibili nel corso della produzione, quali le ossa attaccate alla carne destinata al consumo umano. Di conseguenza i rifiuti alimentari possono comprendere voci che includono parti di alimenti destinate ad essere ingerite e parti di alimenti non destinate ad essere ingerite.
I rifiuti alimentari non comprendono le perdite che si verificano in fasi della filiera alimentare in cui determinati prodotti non sono ancora diventati alimenti quali definiti all'articolo 2 del regolamento (CE) n. 178/2002, quali piante commestibili che non sono state raccolte. Non sono inoltre inclusi i sottoprodotti della produzione di alimenti che soddisfano i criteri di cui all'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2008/98/CE, poiché tali sottoprodotti non sono rifiuti.[17]
La definizione include quindi parti edibili (ad esempio, la carne di pollo) e non edibili (ad esempio, osso del pollo), mentre nelle applicazioni in ambito di ricerca suggerisce di effettuare sempre la distinzione tra le due frazioni, sebbene sia importante calcolare entrambe ai fini della comparazione dei dati a livello internazionale, così come proposto precedentemente dal WRAP[18].
Il Word Resource Institute (WRI) ha elaborato un manuale per la definizione e la quantificazione dello spreco alimentare, come frutto del lavoro di consultazione di esperti a livello globale[19]. Sebbene le metodologie proposte da WRAP, FUSIONS e WRI siano circa simili, è ad oggi molto difficile comparare i dati prodotti dalla letteratura scientifica internazionale proprio per l'eterogeneità dei metodi che sono stati, di fatto, utilizzati (differenze nei questionari, nel campione o nelle frazioni di spreco considerate).
La letteratura scientifica ha prodotto diversi lavori volti ad analizzare le cause di spreco alimentare nella filiera. Mentre nelle fasi di food loss (ovvero trasformazione e distribuzione, dove lo spreco alimentare non imputabile al consumatore) le cause sono più facilmente legate a inefficienze della filiera stessa, nelle fasi in cui si parla di food waste (ristorazione e consumo domestico, talvolta anche acquisto) le cause sono imputabili al comportamento del consumatore stesso- shopping impulsivo, scarsa capacità di gestione delle date di scadenza o dei prodotti freschi e altre.
In Italia, lo spreco alimentare domestico è stato stimato diverse volte tramite l'uso di questionari[20],[21],[22] mentre nel 2016 sono state condotte le prime rilevazioni tramite diario[23][24] dello spreco e analisi merceologica dei rifiuti[25], nell'ambito del progetto REDUCE[26][27], finanziato dal Ministero dell'Ambiente, della Tutela del territorio e del Mare. I report finali del progetto sono disponibili al link: https://www.sprecozero.it/2020/07/16/quanto-cibo-si-spreca-in-italia/ .
Lo spreco alimentare domestico di cibo ancora commestibile in media (non si computano, quindi, ossi, lische e bucce non edibili) corrisponde a 530 grammi a testa a settimana[23]. Moltiplicato per il numero di componenti della popolazione italiana, lo spreco alimentare domestico ammonta circa a 1,67 milioni di tonnellate nell'anno 2017[26].
All'interno dello stesso progetto, sono stati quantificati e analizzati gli sprechi nelle mense scolastiche[28] e nei super/ipermercati[29],[30] su campioni di numerosità elevata.
Sebbene il questionario sia il metodo forse più rapido ed economico per analizzare le cause dello spreco, la sua capacità predittiva con riferimento alle quantità si è rivelata scarsa o controversa[31][32]. Le metodologie utilizzate in REDUCE rispecchiano le metodologie di indagine richieste dalla Commissione Europea agli stati membri.
Il 19 agosto 2016 fu approvata la legge n. 166 a firma dell'on. Gadda, per la limitazione degli sprechi, l'uso consapevole delle risorse e la sostenibilità ambientale.[33][34][35] Secondo il numeri presentati nel 2019 da Andrea Segrè (docente di politica agraria e comparata all'Università di Bologna[36]), nei dodici precedenti in italia si sarebbero sprecati più di 15.502.335.001 euro, pari a circa l'1% del PIL, di cui quasi l'80% all'interno delle mura domestiche[37], smentendo in questo modo il dato pluridecennale della distruzione deliberatamente pianificata di tonnellate di cibo edibile per mantenere alti i prezzi di equilibrio fra domanda e offerta di mercato, nel prevalente interesse di grossisti e Grande Distribuzione Organizzata.
Possibili soluzioni, o parziali rimedi, passano attraverso associazioni che raccolgono e ridistribuiscono il cibo avanzato da attività commerciali e case (prevalentemente curate da volontari[38][39][40]) e applicazioni per smartphone che permettono di segnalare cibo avanzato, donarlo, mettersi d'accordo con il segnalatore per ritirarlo e altro ancora[41]. Ad esempio la Fondazione Banco Alimentare si occupa del recupero delle eccedenze alimentari della produzione agricola e industriale e della loro ridistribuzione a strutture caritative sparse sul territorio che svolgono un'attività assistenziale verso le persone più indigenti[42]. L'applicazione Too Good To Go, invece, permette al cliente di acquistare delle "Magic Box" con l'invenduto della giornata di ristoranti, bar e alimentari a prezzo ridotto[43]. Invece l'applicazione Best Before, consente ai produttori di vendere i loro prodotti in scadenza, ottimizzando i costi per i consumatori e contribuendo a salvare il pianeta.
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