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seconda grande migrazione degli afroamericani in USA (1941-1970) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Nel contesto della storia degli Stati Uniti del XX secolo, la Seconda grande migrazione afroamericana è stata la migrazione di circa 5 milioni di afroamericani[1] dal sud degli Stati Uniti agli Stati Uniti nord-occidentali e agli Stati Uniti medio-occidentali. Ebbe inizio nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, e durò fino al 1970[2]. Aveva una portata e un carattere molto diverso rispetto alla prima grande migrazione (1916-1940), dove i migranti erano principalmente agricoltori rurali del Sud e si erano mossi solo verso gli stati di nord-est e gli stati medio-occidentali. Nella Seconda Grande Migrazione, il flusso migratori si estese anche verso l'Occidente, dove città come Los Angeles, Oakland, Phoenix, Portland e Seattle offrivano posti di lavoro qualificati nell'industria della difesa[3]. Inoltre, gli afroamericani erano ancora vittime di discriminazione in alcune parti del paese, e molti cercarono di sfuggire a questo fenomeno[4].
Rispetto ai migranti del periodo 1910-1940 che lavoravano nei campi, gli afroamericani provenienti dagli stati del sud vivevano e lavoravano già nelle aree urbane prima del loro trasferimento. Si trasferirono per cercare lavoro nelle fiorenti città industriali del nord e dell'ovest, anche nell'industria della difesa durante la seconda guerra mondiale[5]. I lavoratori afroamericani provenienti dagli stati del sud, che erano stati costretti a lavori poco qualificati ed erano soggetti a segregazione, potevano ottenere posti di lavoro qualificati e ben retribuiti nei cantieri della California, dell'Oregon e dello stato di Washington e a sfuggire alla brutalità delle leggi Jim Crow[6].
Alla fine della Seconda Grande Migrazione, gli afroamericani erano diventati una popolazione altamente urbanizzata[7]. Più dell'80% viveva nelle città, una percentuale maggiore rispetto al resto della società americana. Il 53% era rimasto negli Stati Uniti del sud, mentre il 40% viveva del Nord-Est e del Nord Centrale e il 7% negli stati occidentali[8].
Tuttavia, i lavori affidati agli afroamericani durante la seconda guerra mondiale erano spesso solo di supporto e potevano essere estremamente pericolosi. Nel 1944, due carichi di munizioni esplosero a Port Chicago, in California, causando la morte di 320 persone (di cui 202 afro-americani) oltre a più di 300 feriti. L'avvenimento causò una protesta degli operai e più di cinquanta di loro furono accusati di ammutinamento e condannati alla reclusione[9].
Nei primi decenni del ventesimo secolo, i lavoratori agricoli afroamericani lavoravano come mezzadri, le donne come domestiche[10], e sentivano l'esigenza di un maggiore benessere economico. Inoltre, con l'avvento della meccanizzazione in agricoltura, calò la richiesta di manodopera e i lavoratori agricoli furono costretti a cercare lavoro altrove. La migrazione verso nord e ovest dal sud era un modo per migliorare il loro stato economico. La seconda guerra mondiale comportò anche una penuria di manodopera a causa degli arruolamenti. Di conseguenza, i datori di lavoro negli stati settentrionali e occidentali iniziarono a reclutare neri provenienti dal sud per tenere il passo con le richieste della nazione per lo sforzo bellico[11]. La migrazione fu guidata anche da altri fattori, come le opportunità di istruzione, e dal desiderio di sfuggire alla violenza razziale[12].
L'arrivo degli afroamericani nelle città che videro grandi migrazioni di questi ultimi causò una "segregazione spaziale" con aree omogenee di neri o di bianchi. Si stima che nel 1960 meno dell'1% dei 461.000 residenti neri di Los Angeles vivessero in comunità senza una maggioranza nera, con conseguente segregazione di fatto[13].
Furono costruiti per i migranti interi quartieri nelle zone in cui gli urbanisti volevano che vivessero, come nel caso del South Side di Chicago o del South Los Angeles che, rispettivamente negli anni Venti e negli anni Trenta furono destinate alla popolazione afroamericana. Le abitazioni costavano poco, e questo incoraggiava i neri della classe operaia ad acquistarle, ma erano collocate intenzionalmente lontano dai quartieri bianchi. Anche la rete viaria contribuiva all'isolamento delle minoranze, i cui componenti cercavano sicurezza e trattamento non discriminatorio nelle zone in cui abitavano[14]. I residenti nelle aree tradizionalmente abitate dai bianchi, man mano che i neri si trasferivano in quelle zone, si spostarono, solitamente verso la periferia. Il fenomeno è stato chiamato White Flight[15] ed ha avuto come conseguenza che il 70% dei neri che operano in una data area metropolitana vivono nel centro della città mentre solo il 30% dei bianchi, che operano all'interno della stessa città, vive nel centro della città[16]. Il fenomeno è stato incoraggiato dal fatto che i bianchi proprietari di immobili hanno venduto le loro case ad agenti immobiliari ad un prezzo basso, spesso a causa delle tattiche delle stesse compagnie immobiliari. Gli agenti avrebbero quindi incoraggiato l'acquisto delle proprietà da parte delle famiglie afroamericane che volevano spostarsi dai quartieri sovraffollati in cui vivevano[17]. Nel 1963 fu promulgato il Rumford Fair Housing Act che bandiva la discriminazione negli alloggi. Esso fu, di fatto, annullato dalla Proposition 14 della California nel 1964[18]. Questa legislazione, sponsorizzata dalla California Real Estate Association e dai conservatori, affermava il diritto del proprietario a rifiutarsi di vendere, affittare le case in base alla razza del compratore o dell'affittuario[19]: questa fu la causa diretta della rivolta di Watts nel 1965[20]. Nel 1966, la Corte suprema ha invalidato la Proposition 14 e ripristinato il Fair Housing Act[21].
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