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concetto filosofico Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La sapienza (dal latino sapientia, derivato di sapiens -entis «sapiente, saggio»), o sofia (dal greco σοφός, che significa «intelligenza, saggezza»), è un concetto filosofico con il significato di possesso teorico di approfondita scienza e capacità morale di saggezza (φρόνησις, phronesis)[1].
Il concetto è usato inoltre nell'esoterismo (gnosticismo) e in religione (ebraismo, dove è chiamato Achamoth, e cristianesimo, dove è chiamata Sapienza o Santa Sophia).
Nel pensiero greco arcaico, secondo Guido Calogero, il pensiero sapienziale si basava sulla visione, sensibile ma anche intellettuale.
«È opportuno interrogarci sul significato originario di sapientia; il latino sapere significa "avere sapore", da cui può derivare "avere senno", "essere perspicace". Questa duplicità rimane nel nostro uso linguistico, con alcune sfumature: diciamo che un cibo sa di qualcosa o è insipido; un cibo è sapido e insipido, una persona sapiente (in disuso per evidenti ragioni) o insipiente; insomma in origine è presente una connessione con un senso, il gusto, qualcosa di istintivo; in greco una connessione del genere si ha con il verbo noein, (nous, noesis), che viene da una radice snovos, snow, annusare, fiutare, capacità di (diremmo oggi 'captare', 'subodorare', 'snasare') "presentire", o di "accorgersi istintivamente di qualcosa", di una situazione, un pericolo, dunque una sorta di sapere diretto e istintivo. In Omero noein significa vedere, un vedere che può essere inteso e tradotto con riconoscere[2].»
Dai filosofi presocratici fino a Platone per sapienza si intendeva non solo il possesso di conoscenze razionali ma anche la connessa abilità tecnica nel mettere in opera quelle conoscenze ed assieme la virtù della prudenza nel distinguere il bene dal male e l'utile dal dannoso. In quest'ultimo caso la sapienza, prevalendo il comportamento morale, coincideva con la saggezza φρόνησις, (phronesis). Il saggio, nel senso greco del termine, non è l'uomo perso nelle sue riflessioni teoriche; egli, pur detenendo un sapere considerato astratto, possiede invece l'abilità di farne un uso concreto, pratico[3].
Posizione del tutto particolare è quella occupata da Socrate relativamente al tema della sapienza. Infatti paradossale fondamento del pensiero socratico è il "sapere di non sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista che si ritiene e si presenta come sapiente, ossia come detentore di una sapienza tecnica come quella della retorica. Le fonti storiche che ci sono pervenute descrivono Socrate come un personaggio animato da una grande sete di verità e di sapere, che però sembravano continuamente sfuggirgli. Egli diceva di essersi convinto così di non sapere, ma proprio per questo di essere più sapiente degli altri[4] poiché egli non presume di possedere una volta per tutte la sapienza, sa di non sapere ed è quindi sempre disposto a dialogare per la ricerca in comune di quella verità che una volta raggiunta va sempre rimessa in discussione.
La distinzione tra saggezza e sapienza viene definita chiaramente con Aristotele per il quale:
La saggezza riguarda il comportamento morale, l'economia e la politica, la sapienza è «la più perfetta delle scienze» poiché ha per oggetto realtà metafisiche e quindi immutabili come gli astri e il primo motore e rappresenta quindi la «filosofia prima» che indaga le prime cause e i principi[7], mentre la sapienza, riguardando l'uomo, imperfetto e mutevole, non è una scienza suprema. Aristotele introduce così una nuova concezione del sapere rispetto a quella della tradizione, che collegava la sapienza all'agire e al produrre. Dedicarsi al sapere richiede la scholè, l'otium dei latini, un tempo assolutamente libero da ogni cura e preoccupazione per le necessità materiali dell'esistenza.
«Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa[8].»
Nella filosofia ellenistica la sapienza si ripropone come strumento per la felicità dell'uomo che agisce per il conseguimento del bene. Questa concezione viene fatta propria anche dalla filosofia latina che, con Cicerone, separa la sapienza dalla saggezza che avvia l'uomo a ciò che deve perseguire (il bene) o evitare (il male), ma anche la sapienza deve perseguire un qualche scopo nella vita dell'uomo altrimenti il sapere stesso sarebbe senza senso e inutile[9].
Nelle filosofie dell'età alessandrina interessate alle tematiche religiose, la sapienza assume caratteristiche divine di mediazione tra l'Essere supremo e il mondo fenomenico, come descritto ad esempio da Filone di Alessandria che la vede rappresentata dal Logos[10]. In Plotino la Sapienza è anche forza creatrice dell'universo la quale si identifica con l'Essere[11].
Nello gnosticismo la Sapienza (Sophia) è appena al di sotto della divinità suprema ed agisce nel mondo: presso i valentiniani costei, ritenendo di potersi immedesimarsi nel Padre, cerca di creare autonomamente causando così la sua rovina e la contemporanea creazione della materia.
Nella Scolastica, Tommaso d'Aquino si rifà alla definizione di Aristotele intendendo la sapienza come somma virtù conoscitiva che attraverso la grazia viene donata da Dio agli uomini che possono così conoscere quelle verità alle quali prima potevano accostarsi soltanto per fede.[12]
L'indologo Edward Conze ha connesso la Sophia greca alla Prajnaparamita buddhista, contaminazione originata dalla presenza di monaci buddhisti ad Alessandria d'Egitto nel III secolo a.C.[13][14]
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