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analisi del repertorio linguistico della Repubblica di Ragusa tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Con questione della lingua a Ragusa s'intende l'analisi del repertorio linguistico della Repubblica di Ragusa, con particolare attenzione al parlato. Tale questione assunse particolare importanza fra la metà del XIX e la metà del XX secolo, quando l'allora nascente "risorgimento croato" (hrvatski narodni preporod) si scontrò con le istanze irredentistiche italiane: all'epoca ognuno dei due movimenti riteneva che il carattere nazionale fondamentale della Repubblica di Ragusa fosse alternativamente slavo (croato) o italiano, con conseguente inserimento della storia ragusea esclusivamente - o prevalentemente - in uno dei due alvei. Per tale motivo, è possibile trovare degli studi che deliberatamente deformarono le fonti o omisero di riportare ciò che non si attagliava con le proprie finalità ideologiche. Nei decenni più recenti la questione è finalmente rientrata in un ambito eminentemente scientifico e culturale. I linguisti croati sottolineano - con riferimento a Ragusa - l'intercambiabilità delle espressioni «lingua slava» e «lingua croata».
Dalle fonti risulta chiaramente il passaggio linguistico nel parlato, avvenuto a Ragusa nel corso del tempo: se fino al XV secolo è ipotizzabile ritenere la lingua latina o una lingua neoromanza come prevalente, verso gli inizi del 1500 la situazione è chiaramente mutata, ed in città la lingua slava è la più usata, oltre ad essere oramai considerata lingua naturale del luogo. Il latino prima e l'italiano poi si sono comunque mantenuti per secoli, divenendo lingue di cultura, di commercio e di potere, note quindi molto più agli uomini ed alle classi dominanti piuttosto che alle donne ed al popolo minuto.
Volendo riassumere invece quale fu la lingua scritta utilizzata dai ragusei nei vari ambiti, si possono rilevare in linea di principio i seguenti usi prevalenti:[senza fonte]
Tale suddivisione - nella particolarissima situazione linguistica di Ragusa, derivante sia dalla sua storia che dalla sua posizione geografica - fu dovuta a motivi di diffusione o di intrinseca tradizione dei generi, laddove il latino era da secoli lingua della cultura in Europa e l'italiano era considerato "lingua classica" al pari del latino. La scelta quindi dell'utilizzo nello scritto del latino, dell'italiano o della lingua slava di Ragusa era dovuta essenzialmente a motivi di "destinazione del prodotto"[1].
Fin dal tempo della dominazione romana, il mare Adriatico può essere considerato una via di comunicazione e di unità, piuttosto che di divisione: unità tanto più culturale ed economica che politica, la cui predominante influenza fluì per molti secoli dalla penisola italiana verso oriente[2]. La presenza di comunità neoromanze lungo la costa della regione a partire dal periodo successivo alla caduta dell'Impero romano d'Occidente è testimoniata da vari testi, anche dopo le migrazioni slave del VI-VII e VIII secolo che occuparono la gran parte del territorio[3]. A Ragusa l'utilizzo della lingua italiana - testimoniato dal fatto che gran parte dei documenti contenuti nell'archivio storico di Ragusa è in italiano[4] - fu dovuto non solo al mantenimento d'un tradizionale legame col mondo romano[5], ma ad una comodità: l'italiano era la lingua commerciale dell'intero Mediterraneo. Questo legame divenne nel tempo anche un segno di distinzione: l'educazione della classe dirigente dalmata e ragusea prevedeva non solo la conoscenza del latino e dell'italiano, ma in moltissimi casi un periodo di studio presso le università della penisola, in modo particolare quella di Padova[4]. Negli uffici pubblici ragusei si scriveva regolarmente in latino e in italiano[4], e le nobili famiglie ragusee non esitarono ad inventarsi in alcuni casi delle fantasiose ascendenze romane, onde collegarsi alle antiche gens dell'epoca antica. Ragusa fu - assieme a gran parte delle città della costa dalmata - un luogo di fioritura artistica di chiara impronta italiana, e decine di famosi scultori, pittori e architetti italiani vennero chiamati a prestare la propria opera nelle località dell'Adriatico orientale, così come tutti i maggiori artisti dalmati andarono a bottega in Italia o viaggiarono nella penisola per affinare le proprie capacità[6].
È estremamente difficile cogliere testimonianze inequivocabili sugli usi linguistici a Ragusa prima del XIII secolo. Nelle fonti alcune comunità della costa dalmata sono contraddistinte dall'appellativo Romani (in greco 'Ρωμᾶνοι), per distinguerle dalle altre comunità della zona: i Romei ('Ρωμαῖοι) - e cioè i Greci bizantini - e gli slavi, giunti nella regione fra il VI e l'VIII secolo[7]. In un passo del De Administrando Imperio (composto fra il 948 e il 952), l'imperatore Costantino Porfirogenito circoscrisse il territorio abitato dai Romani alle città di Ragusa, Spalato, Traù, Zara, Arbe, Veglia e Ossero, cui va aggiunta Cattaro, citata espressamente dal geografo arabo Idrisi due secoli dopo[7].
Nella sua Cronica dal titolo Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, Guglielmo di Tiro (1130 - 1186) così descriveva la Dalmazia all'epoca della prima crociata (1096 - 1099):
«Est autem Dalmatia longe patens regio inter Hungariam et Adriaticum Mare sita, quattuor habens metropoles: Iazaram et Salonam, que alio nomine dicitur Spaletum, Antibarim et Ragusam; populo ferocissimo, rapinis et cedibus assueto inhabitata, montibus et silvis, magnis quoque fluminibus, pascuis etiam longe lateque diffusis occupata penitus, ita ut raram habeat agrorum culturam, locorum incolis in gregibus et armentis omnem vivendi habentibus fiduciam, exceptis paucis qui in oris maritimis habitant, qui, ab aliis et moribus et lingua dissimiles, Latinum habent idioma, reliquis Sclavonico sermone utentibus et habitu barbarorum.[9]»
«La Dalmazia è un vasto paese, situato fra l'Ungheria e il mare Adriatico, e che conta quattro metropoli: Zara e Salona, che con altro nome è chiamata Spalato, Antivari e Ragusa. È abitata da un popolo ferocissimo, che vive di rapine e di omicidi. Ricoperta da montagne, foreste e grandi fiumi e di immensi pascoli, essa offre poco spazio all'agricoltura, così che gli abitanti traggono il loro principale sostentamento dal loro numeroso bestiame. Eccetto pochi che vivono nelle località marittime i quali dissimili dagli altri sia per costumi che per lingua, parlano un idioma latino, gli altri utilizzano la lingua slava e hanno dei costumi barbari.»
Il passaggio più importante ai fini della conoscenza degli usi linguistici a Ragusa è relativo ai pochi che vivono nelle località marittime (paucis qui in oris maritimis habitant), i quali parlano un idioma latino (Latinum habent idioma). È probabile che Guglielmo di Tiro con "idioma latino" intendesse riferirsi ad una lingua romanza autoctona, tipica della costa dalmata: questa potrebbe quindi essere la prima testimonianza storica dell'esistenza del dalmatico[10].
Fra il 1384 e il 1387 fu cancelliere della Repubblica di Ragusa il ravennate Giovanni Conversini (Johannes quondam magistri Conversini de Fregnano), che in una sua testimonianza scritta si lamentò per il fatto di aver continuamente necessità di ricorrere all'interprete:
«Primum illud non deest incommodi, quod ego cunctis, omnes mihi sunt ydiote, per interpretem agenda omnia Id quoque tedium auget, quod ignaros latini sermonis nescio michi barbari, quorum opus habes, admoneri.[11]»
«Per prima cosa non manca l'inconveniente che tutti per me sono inesperti (della lingua latina) e io con chiunque devo svolgere tutte le mansioni tramite l'interprete; e anche questo aumenta il fastidio: che non conoscendo la lingua barbara non so rivolgermi a questi dei quali ho bisogno, che ignorano il latino.»
Da questo passo la storiografia croata tendeva a dedurre che già all'epoca del Conversini fosse in uso quasi esclusivo la locale lingua slava; in anni più recenti, interpretazioni alternative (quali quelle di Diego Dotto e Bariša Krekić) hanno ipotizzato che il Conversini con l'espressione sermonis (...) barbari (linguaggio barbaro) si sarebbe invece riferito alla lingua romanza autoctona di Ragusa (lingua dalmatica)[12].
La grande maggioranza degli atti notarili ragusei oggi conservati nei pubblici archivi è scritta in latino e in volgare italiano, ma non mancano strumenti notarili in slavo. Interessanti appaiono gli atti compilati di propria mano senza l'ausilio del notaio, il che può dimostrare il tipo di conoscenza linguistica anche di ragusei non appartenenti alla classe nobiliare, che veniva educata precipuamente in latino e in italiano, anche se a partire dalla seconda metà del XIV secolo a Ragusa s'iniziarono ad assumere anche insegnanti di literae sclavichae[13]. Di seguito si riportano due fra i molti esempi di testamenti autografi in volgare italiano.
Un certo Clime di Tomasino inizia il proprio testamento (15 febbraio 1348) come segue:
«Eo Clime de Thomasino cu(m) bona mente et sano dela mia p(er)sona faço mio ultimo testam(en)to et scrivo cola mea mane (...)»
Così invece Alamançe, figlio di Andrea Alamano (11 luglio 1363):
«Questo testamento sé scritto di man mia. Io Alamançe d’Alamano lo scrisse. (E) sì è guarenti a questo testam(en)to Çive di Poça (e) Savin di Poça (e) Siergulo d(e) Bona (e) Ylia d(e) Bonda (...)[14].»
Un registro criminale della fine del XIII secolo risulta fra i documenti più importanti: le trascrizioni delle deposizioni - dovute tutte alla mano del cancelliere Tomasino de Savere di Reggio Emilia - in tre casi annotano la lingua usata per uno dei discorsi riportati dai testimoni[15].
Un certo Michele di Gerdusia fra l'11 e il 12 settembre 1284 così dichiara:
«Item Michael Gerdusii iuravit ut supra. Interrogatus dixit: "Ego stabam heri sero in vinea mea et volebam sedere in cena et audivi voces clamantes in lingua sclavonica, dicendo: "Ego sum incisus". Et postmodum audivi multas voces clamantes. Et tunc ad dictum clamorem Bogdanus de Ioncheto guardianus vinee mee ivit currendo et vocavit guardianum vinee Ursacii de Zereva (...)"»
«Quindi Michele di Gerdusia giurò come sopra. Interrogato disse: "Ieri stavo nella mia vigna e volevo andare a cena e sentii una voce che gridava in lingua slava e diceva: "Sono ferito!". Dopo di ciò, ho sentito molte voci che gridavano. Quindi il guardiano della mia vigna Bogdan de Ioncheto andò correndo in direzione di tale rumore e chiamò il guardiano della vigna di Orsatto de Cerva»
Il 3 aprile 1285 si ritrova una testimonianza ancora più importante per due motivi: il dichiarante - un certo Adamus trivisanus de Castro Franco (Adamo trevigiano di Castelfranco) - è un famiglio del conte veneziano e non un autoctono, e l'annotazione della lingua usata è in originale e non in traduzione latina, come la testimonianza precedente:
«(...) sic stando nos vocabamus homines qui erant in una barca ut venirent cum barca ad accipiendum nos, et homines qui erant super muris domorum iactabant petras et dicebant illis de barca quod non veniant, dicendo eis in lingua sclavonica: "Podhi s Bogo"»
«(...) così stando noi abbiamo chiamato degli uomini che erano in una barca perché venissero con la barca a prenderci, e gli uomini che erano sopra le mura delle case gli gettavano delle pietre e dicevano a quelli della barca di non avvicinarsi, dicendo loro in lingua slava: "Podhi s Bogo"»
Podhi s Bogo significa Va' con Dio[16]. Il fatto che a riportarla sia un nativo di Castelfranco Veneto sta a indicare che il testimone doveva aver acquisito - nel periodo passato a Ragusa - almeno una competenza passiva nella lingua sclavonica, così come lo stesso cancelliere, che in modo del tutto eccezionale rispetto ai registri criminali ragusei del XIII e XIV secolo riporta una locuzione slava nella sua forma originale.
Nella stessa lite testimonia anche il nobile Mathias de Mençe:
«Mathias de Mençe iuravit de veritate dicenda. Interogatus per sacramentum... respondit: "Ego non eram in domo tunc temporis nec uxor mea erat in domo, [sed audivi] ab ‹sclavis› ancillis nostris sclavis, que nesciunt latinum, quod homines ascenderunt per domum Laurencii, fratris mei, tamen dicte ancille dicunt quod non cognoverunt eos nec ego scio aliquid de predictis".»
«Mattia de Menze giurò di dire la verità. Interrogato in seguito al giuramento... rispose: "Io non ero in casa a quel tempo, e nemmeno mia moglie era in casa, [ma ho sentito] dalle nostre serve slave, che non conoscono il latino, che degli uomini erano arrivati dalla casa di Lorenzo, mio fratello, ma le sopraddette serve dicono che non li conoscevano né io so qualcosa dei predetti"»
Da questa dichiarazione si ricava espressamente che i servi del Mençe - essendo slavi - non conoscevano la lingua latina volgare[17], e di converso che alla servitù della casa ci si dovesse rivolgere unicamente in lingua sclavonica, conosciuta sicuramente da Mathias de Mençe anche per il fatto che nella testimonianza riesce chiaramente a riportare ciò che i servi si erano detti. Nella storia di Ragusa, questo è uno dei primi esempi di chiara indicazione di compresenza e di utilizzo di più registri linguistici parlati all'interno della stessa famiglia.
Singolare risulta - in tutt'altro contesto - la testimonianza del 14 luglio 1284 di Mattia di Marco de Mençe, il quale ricordando una questione legata alla vendemmia illegale compiuta ai danni delle sue vigne nel contado extraurbano di Belen, riferische che:
«(...) Et incontinenti ivi ad inquirendum de hoc facto ad videndum si possem videre aliquid, et audivi unam vocem clamantem in monte in lingua albanesesca, et tunc ivi in vineam Benedicti de Gondula intus a maceria et inveni unum albanensem quem <d> homines qui venerunt illuc dicebant esse cognatum Milosclavi qui habebat duas scopinas plenas musto et unam galetam et unum gratoçum in quibus erant uve amostate (...)»
Da questo passaggio si denota l'utilizzo nell'area ragusea anche di altri registri linguistici come la lingua albanesca, oltre alla competenza almeno passiva di un nobile raguseo di fronte a questa lingua.
L'uso di proclamare gli avvisi importanti per il tramite di un bando pubblico è frequentissimo nella storia ragusea: centinaia e centinaia sono le registrazioni dei bandi tuttora contenute negli archivi della città: ma l'indicazione della lingua utilizzata in tali bandi è estremamente rara. Nella prima metà del XIV secolo risultano solo sei casi, che presentano due caratteristiche precipue: la registrazione dell'uso obbligatorio della lingua sclavonica e l'attinenza con questioni che chiamavano in causa proprio gli slavi. In un solo caso il bando è monolingue - e cioè solo nella lingua sclavonica - mentre nei rimanenti cinque casi è bilingue, utilizzando formule quali tam in lingua latina quam in sclavonesca, laddove con lingua latina s'intende il volgare[18].
Un esempio di tali bandi bilingui è il seguente:
«Petrus preco communis de mandato domini comitis publice et alta <volce> voce gridavit in locis sollitis in latino et sclavonessco quod quelibet persona que vult venire Raugium ad festum Sancti Blaxii possit tuto et secure venire, stare et reddire in avere et persona, eundo, stando et redeundo tribus diebus ante festum Sancti Blaxii et tribus diebus post festum predictum, <st> exceptis illis qui sunt baniti de civitate Raugii de sanguine.»
Su ordine del conte di Ragusa il banditore del Comune deve proclamare che chiunque voglia venire a Ragusa per la festa di San Biagio lo possa fare ad eccezione di coloro che sono banditi per fatti de sanguine.
È quindi dimostrata la possibile presenza in città di comunità linguistiche che potevano avere forte difficoltà nella comprensione di un volgare italo-romanzo, ma in tutti e sei i casi di cui si parla è evidente il contesto: i bandi erano proclamati in lingua sclavonica o in questa e contestualmente nel volgare romanzo, unicamente quando i destinatari dei bandi stessi erano manifestamente degli slavi, che magari potevano essere di passaggio in città, come nel caso sopraindicato della festa di San Biagio.
Il documento sicuramente più celebre ed importante sugli usi linguistici a Ragusa nel medioevo si ricava dall'opera - datata 1440 - Situs, aedificiorum, politiae et laudabilium consuetudinum inclitae civitatis Ragusii ad ipsius Senatum descriptio del lucchese Filippo de Diversis de Quartigianis, maestro di grammatica nella città fra il 1434 e il 1440[19].
All'interno di un passo in cui vengono descritte le procedure d'appello nei tribunali e le funzioni degli avvocati, Filippo de Diversis parla in questi termini della latina locutione Ragusinorum:
«In prescriptis omnibus consiliis et offitiis civilium et criminalium oratores, seu arrengatores advocati iudices et consules legis statuto latine loquuntur, non autem sclave, nec tamen nostro idiomate italico, in quo nobiscum phantur et conveniunt, sed quodam alio vulgari ydiomate eis speciali, quod a nobis Latinis intelligi nequit, nisi aliqualis immo magna eiusmodi loquendi habeatur saltim audiendo consuetudo, panem vocant pen, patrem dicunt teta, domus dicitur chesa, facere fachir, et sic de caeteris, quae nobis ignotum ydioma parturiunt. Hec dicta sint de consiliis, de curia civili, et criminali, de appellationibus, de advocatis, et eorum ydiomate latino, deinceps de spetialioribus principatibus agendum videtur.»
«In tutti i suddetti Consigli e uffici gli oratori di materia civile e penale, ossia gli arringatori, gli avvocati, i giudici e i consoli per consuetudine di legge parlano in volgare, non però in slavo, e nemmeno nel nostro idioma d’Italia con cui parlano e convergono con noi, ma in un altro idioma volgare a loro proprio che non può essere compreso da noi Latini, se non si possiede almeno una qualche, anzi grande, abitudine di parlare in tale maniera a forza di ascoltare, chiamano pane pen, dicono padre teta, casa è detta chesa, fare fachir, e così via di altre parole che ci sembrano un idioma sconosciuto. Si è trattato dei Consigli, del tribunale civile e penale, degli appelli, degli avvocati e del loro idioma romanzo, in seguito si tratterà dei poteri più specifici.»
Sono quindi direttamente attestate dal de Diversis tre registri linguistici a Ragusa: lo slavo (sclave), il volgare d'Italia (idiomate italico) e la lingua romanza autoctona di Ragusa (latina locutione Ragusinorum). È però un quadro solo virtuale in quello specifico contesto - e cioè l'uso linguistico del parlato nei Consigli e negli uffici di Ragusa da parte degli oratori - giacché l'unica lingua consentita è il dalmato-romanzo di Ragusa. In realtà però ad un'analisi più approfondita del testo si ricava che proprio lo slavo apparirebbe al De Diversis la lingua più ovvia, essendo inserita come prima alternativa al dalmato-romanzo: è solo la consuetudine (legis statuto qui è usato non nel senso di una norma statutaria positiva ed esplicita, ma di un diritto eminentemente consuetudinario) che relega lo slavo in secondo piano. Allo stesso modo, il volgare d'Italia è esplicitamente definito come "lingua di convergenza", di comunicazione cioè fra i ragusei e i non ragusei che provenivano dalla penisola italiana, come Filippo de Diversis.
Il medesimo quadro trilingue è attestato ancora trent'anni dopo: fra il febbraio e il dicembre del 1472 nel Senato raguseo (Consiglio dei Pregati) si discusse su quale lingua gli arringatori dovessero usare nei Consigli[20].
Secondo le procedure interne al Consiglio dei Pregati, per addivenire ad una deliberazione dovevano essere formulate due proposte antitetiche (Prima pars est quod... Secunda pars est quod...), sulle quali si votava. Nella registrazione, a fianco della proposta che aveva raggiunto la maggioranza semplice, compariva di norma il numero dei voti favorevoli e contrari (Per... contra...); la proposta respinta era invece cassata con un tratto di penna o non seguita dall'indicazione dei voti espressi. Il Consiglio dei Pregati trattò due volte la medesima questione: la prima il 5 febbraio, la seconda il 21 dicembre 1472.
La prima recita come segue[21]:
«Prima pars est de deliberando super lingua qua
arengantes in consiliis nostris uti debeant. Per XX contra XIV.
Secunda pars est de induciando.
Prima pars est quod in consilio nostrorum rogatorum
nullus arengans possit uti alia lingua
quam ragusea.
Secunda pars est de stando ut stamus. Per XVIIIJ contra XV.»
«La prima proposta è di deliberare sulla lingua che
gli arringatori devono usare nei nostri Consigli. A favore 20 contro 14.
La seconda proposta è di rinviare.
La prima proposta è che nel consiglio dei nostri pregati
nessun arringatore possa usare altra lingua
che la ragusea.
La seconda proposta è di rimanere come stiamo. A favore 19 contro 15.»
Con 19 voti contro 15 prevale quindi la proposta di mantenere lo status quo in ordine alle lingue utilizzate, anche se non risulta ben chiaro quale fosse la situazione. La proposta dimostra che gli usi linguistici non corrispondevano a quelli descritti da Filippo de Diversis: nel Consiglio dei Pregati non si usava solo la lingua ragusea ma anche altre varietà (alia). Oltre a ciò, è evidente che precedentemente non esisteva una prescrizione normativa in merito. Le due principali fonti sull'uso pubblico del dalmato-romanzo a Ragusa affermano quindi esattamente il contrario: probabilmente ciò è dovuto al fatto che il de Diversis diede una rappresentazione parziale degli usi linguistici nei consigli ragusei, forse a causa dell'influenza di quella parte del ceto aristocratico che aveva mantenuto nel proprio repertorio linguistico l'antica lingua romanza autoctona[22].
La seconda determinazione del Consiglio dei Pregati così recita[23]:
«Prima pars est quod in consiliis nostris ad arengerias
nullus possit uti nisi lingua
veteri ragusea aut latina vulgari sine licentia
domini rectoris et minoris consilii. Que
licentia non possit dari nisi sit
capta pars in minori consilio et capta
ballotando controparte, et qui contra
fiunt cadat ad penam ipp. unius.
Et dominus rector ad penam sacramenti dare
debeat pro debitoribus contrafacientes in cancellaria.
Secunda pars est quod ***.
Prima pars est de vetando lingua[m] sclavam
in consiliis nostris ad arengerias. Per XVIIIJ contra XV.
Secunda pars est de non vetando.
Prima pars est quod nullus possit ad arengerias uti lingua
nisi latina ragusea sub pena ipp. unius
pro quolibet contrafaciente et qualibet vice. Et dominus
rector ad penam sacramenti debeat dare pro debitoribus
in cancellaria contrafacientes. Per XXJ contra ***.
Secunda pars est quod quilibet possit uti lingua ragusea et italica.»
«La prima proposta è che nei nostri consigli per le arringhe
nessuno possa usare se non la lingua
antica ragusea o la latina volgare senza il permesso
del signor rettore e del minor consiglio. E che
il permesso non si possa dare se non sia stata
accettata la proposta nel minor consiglio, e accettata
ballottando la controparte, e coloro che contrav
vengano (contra/fiunt) incorrano nella pena di un iperpero.
E che il signor rettore debba comminare la pena dell'ammenda
ai contravventori come debitori in cancelleria.
La seconda proposta è che ***.
La prima proposta è di vietare la lingua slava
nei nostri consigli per le arringhe. A favore 19 contro 15.
La seconda proposta è di non vietare.
La prima proposta è che nessuno possa usare per le arringhe altra lingua
se non la latina ragusea, pena il pagamento di un iperpero
per qualunque contravventore e in qualunque situazione. E che il signor
rettore debba comminare la pena dell'ammenda come debitori
in cancelleria ai contravventori. A favore 21 contrari ***.
La seconda proposta è che chiunque possa usare la lingua ragusea e quella italiana.»
Il cuore della questione non cambia: si tenta di imporre l'uso esclusivo (o quasi) della lingua ragusea. La lettura comparata delle tre deliberazioni di dicembre permette però di chiarire alquanto la situazione: nella prima deliberazione la prima proposta propone un uso libero del dalmato-romanzo (lingua vetus ragusea) e dell'italo-romanzo (lingua latina vulgaris), con la possibilità di chiedere di volta in volta una deroga alla legge attraverso un voto nel Minor Consiglio, vale a dire di usare lo slavo solo su licentia. Su tale proposta non vi fu però alcun voto. La seconda deliberazione invece vietava chiaramente l'uso dello slavo, e passò con 19 voti a favore e 15 contrari.
Nell'ultima deliberazione la prima proposta ripropone sostanzialmente la prima proposta della seconda deliberazione del 5 febbraio: piena esclusività per la lingua latina ragusea (con l'aggiunta della pena per i trasgressori della norma); la proposta alternativa è di usare sia il dalmato-romanzo sia l'italoromanzo; contrariamente a quanto era avvenuto nella seduta di dieci mesi prima, la prima proposta veniva approvata con 21 voti favorevoli, di conseguenza la proposta alternativa non venne votata. La lingua latina ragusea aveva avuto la meglio, almeno nel Consiglio dei Pregati, ma un'analisi approfondita del testo dimostra una situazione molto diversa: il dalmato-romanzo di Ragusa - lingua vetus (vecchia) - abbisogna di un provvedimento di tutela di fronte ad una lingua ragusea evidentemente nova (nuova), che non era l'italo-romanzo e di conseguenza non poteva che essere la lingua slava, che aveva sostituito il dalmato-romanzo non solo nei contesti informali ma anche in quelli formali come i Consigli; oltre a ciò, il dalmato-romanzo abbisognava di tutela anche di fronte all'italo-romanzo, che compare nelle formulazioni delle proposte messe al voto come opzione sostitutiva per la lingua latina ragusea, a motivo del suo largo uso nella sfera amministrativa del Comune[24].
La testimonianza del poeta e scrittore Elio Lampridio Cerva (1463-1520) segna idealmente la conclusione della storia del dalmato-romanzo a Ragusa. Per l'umanista, la lingua latina ragusea non è altro che un mero e vagheggiato ricordo:
«Neque vero scythicus sermo nobis vernaculus atque peculiaris huic origini repugnat; nam adhuc reliquiae quaedam et vestigia romani sermonis apud nos extant et patrum memoria omnes nostri progenitores et publice et privatim romanam linguam, quae nunc penitus obsolevit, loquebantur, et me puero memini nonnullos senes romana lingua, quae tunc Rhacusaea dicebatur, causas actitare solitos; quibus indiciis constat nostrum genus in Romanos procul dubio esse referendum.»
«In realtà la lingua scitica (slava), che è la nostra lingua madre e a noi propria, è in contraddizione con questa origine; infatti certi resti e vestigia di una lingua romanza sussistono ancora presso di noi e a memoria degli antenati tutti i nostri progenitori parlavano sia in pubblico che in privato una lingua romanza, che ora è del tutto caduta in disuso, e mi ricordo da ragazzo che alcuni vecchi erano soliti dibattere le cause nella lingua romanza, che era allora detta ragusea; da questi indizi è evidente che la nostra discendenza è riconducibile senza dubbio ai Latini»
In questa lettera ad un amico, il Cerva parte dalla memoria degli antenati - che parlavano pubblicamente e privatamente il dalmatico - alla propria memoria, quando gli anziani (senes) dibattevano le cause nella lingua latina ragusea, al fine di arrivare ad affermare la discendenza romana della città e dei suoi primitivi abitanti, dei quali lui ritiene di essere diretto discendente: la questione di una lingua romanza autoctona diviene quindi argomento d'erudizione moderna. La lingua madre dei ragusei è divenuta oramai quella slava. In altri luoghi il Cerva si scagliò violentemente contro questa lingua, definita sprezzantemente stribiligo illyrica (sproloquio illirico), definendo altresì un poema scritto in tale lingua come "versi scimmieschi senza senso"[26].
A partire dai primi anni del XVI secolo, nei registri degli atti del Consiglio dei Pregati appare regolarmente l'espressione lingua nostra per indicare la parlata slava di Ragusa: in altre occasioni si dà ordine al cancelliere di lingua slava del tempo di approntare dei documenti in idiomate nostro[27]. In alcuni casi, lo slavo viene chiamato dalmaticus. Fra gli atti più eloquenti del periodo, una deliberazione del 21 maggio 1502, nella quale si designa il cancelliere per lo slavo come "el cancellerio idiomatis materni" (il cancelliere della lingua materna):
«Azò che da mo avanti alle processione et feste solenne alle qual se soleno chiamar et invitar li salariati et forestieri se habia ad observar debito modo, ita che non intervegna qualche desordene como spesso soleva, par alli S. Proveditori ch’el se debea observar questo modo, zoè: che alle dicte feste et processione ultra li zentili nostri li quali segundo li ordeni et consuetudine dela città nostra debeno intervignir, debeano esser invitati alle dicte processione et feste questi, zoè:
li medici nostri salariati doctori in medicina;
el secretario nostro, et notari et cancellieri dela notaria et cancellaria nostra includendo el cancelliero idiomatis materni et lo cancelliero deli S. Iudici de Criminal, et nullo altro deli salariati nostri»
A conferma di tale quadro, il veneziano Benedetto Ramberti così rappresentò la situazione linguistica di Ragusa nella descrizione di un viaggio del 1533, uscita poi a stampa nel 1543:
«Rhagusi è città molto nobile et antica, detta da Ptolomeo Epidaurus: benché questa che hora è Rhagusi non è l'antica, ma è fatta nuovamente. L'antica è lontana da questa X miglia, et si chiama Rhagusivecchia et è poco abitata. Rhagusinuovo è benissimo abitato posto in bellissimo sito sopra il mare, ma però è nel continente di Dalmatia. (...) Le donne non sono molto belle, et vesteno male, cioè habiti nelli quali compareno male. (...) Rare fiate escono di casa, ma stanno volentieri alle finestre. Le dongelle non si vedeno. Usano quasi tutte la lingua schiava, ma gli huomini et questa et la Italiana.»
In un precedente passaggio, il Ramberti aveva affermato che in Dalmazia "usano tutti gli abitanti in essa la lingua schiava"[30], per cui ne risulta un quadro di sostanziale uniformità linguistica, col bilinguismo che distingueva a Ragusa gli uomini dalle donne.
Nel 1553 il magistrato veneziano Giovanni Battista Giustiniani - inviato sindaco in Dalmazia - compila un Itinerario all'interno del quale riporta la situazione linguistica di varie località della costa dalmata. Per quanto riguarda Ragusa:
«Gli abitanti della città sono assai civili et politici, et parlano tutti lingua dalmatina et franca, ma non sono molto destri nel praticar con i forestieri.»
L'aggettivo dalmatina in questo contesto indica la lingua slava, mentre lingua franca - nell'uso di Giustiniani - è sinonimo di italiana. Lungamente s'è discusso sul significato di lingua franca: risolutive sul tema furono infine le osservazioni di Gianfranco Folena: «è vero che a Ragusa la penetrazione del toscano era stata più profonda e che il veneto come lingua di cultura si stempera presto nel toscano, ma non par verosimile che per es. a Pirano a metà del '500 tutti gli abitanti parlassero un buon italiano[32]. E credo che avesse ragione il Bartoli a vedere in questa lingua franca una parlata simile al veneziano, appunto quello che diciamo un veneziano coloniale, una Verkehrssprache. Per un cinquecentista il termine di «italiano» contrapposto a «schiavo», lingua materna, non è specifico ma generico, comprensivo del veneziano, sentito come varietà parlata dell'italiano»[33].
In una lettera privata del 3 gennaio 1556, Ludovico Beccadelli (o Beccatelli) - arcivescovo di Ragusa dal 1555 al 1564 - racconta un proprio cruccio:
«(...) l' maggiore dispiacere c'habbia qui è per la lingua del popolo che non intendo; i Gentilhomini parlano Italiano, ma gli altri Schiavo, et vorrei qualche volta consolare qualche povero per me, dove mi bisogna l'interprete (...). [Le] donne, (...) non sanno parlare la nostra lingua (...)»
In una relazione di autore anonimo veneziano del 1555 la situazione del parlato e dello scritto a Ragusa è ribadita ancora una volta:
«Principio della città di Ragusa, della città di Epidauro secondo Plinio de Natural Historia, fu posta 2 et 3 volte colonia da Romani, et da quel parlar latino, fu introdutto in Epidauro, hoggidì la città di Ragusa si serve di quel linguaggio latino; in tutti i magistrati, processi, sententie scriveno in latino, et così il consiglio maggiore di pregadi et minore, et tutte le parti et legge et statuto suo è scrito in lingua latina; scriveno le letere volgarmente. Hanno 5 o 6 cancelieri, li quali sono tutti forestieri, et gli danno buono salario, et sono da loro honorati. Uno di loro ha maggior salario, et lo hanno come suo cancelier grande, gli altri sé sotto di lui; et questi due maneggiano tutte le cose della comunità. Appresso hanno tre nodari, che chiamano secretarii, i quali oltre certo salario ch’hanno, hanno carico delle cose civili et criminali, ma dei guadagni sono tenuti compartir con li due cancelieri. (...) Usano le donne la lingua schiavona, con la quale parlano li altri Dalmatini, ma li huomeni et questa et la italiana. La lingua loro natia è schiava, con la quale parlano li altri Dalmatini; parlano etiam la lingua italiana con vocaboli corotti, percioché parte usano puri vocaboli Toscani parte puri Venetiani antiqui, parte Lombardi et parte Pujesi. (...) Nelli loro consigli non permetono ad alcuno il parlar nella lingua grecha.»
Il quadro è descritto chiaramente, e per lo scritto è uguale al XIV secolo: il latino è la lingua dell'amministrazione, l'italiano è la lingua delle lettere. Per il parlato - a parte la descrizione del bilinguismo unicamente maschile - è interessante la descrizione della varietà italo-romanza in uso, percepita come una koiné composta da toscano, veneziano e lombardo (da interpretarsi come lingua volgare del nord Italia) e pugliese (da interpretare come lingua volgare del sud Italia)[36].
Per certi aspetti molto simile alla precedente è la descrizione fornita nel 1578 da Francesco Sansovino:
«Quanto alla lingua ogni giovane sà per ordinario la lingua Italiana, ch'essi [i Ragusei] chiamano Franca: ma fra loro usano solamente la lor propria et materna. Attendono molti d'essi alle Latine lettere et però il publico conduce un Lettore con grosso salario, il qual insegna a' giovani le buone lettere, con tre o quattro ripetitori. Conducono ogni anno parimente un Predicator eccellente, il qual predica solamente agli uomini, et questo perché predicando egli in lingua Italiana, le donne non lo possono intendere, come quelle che non sanno la lingua»
Al 1582 risale una lettera indirizzata dal mercante raguseo Marco Temparizza al generale dei Gesuiti Claudio Acquaviva, che descrive il quadro religioso nell'area balcanica:
«Pur avendo riconosciuto che tutti i popoli balcanici, «tanto li Serviani, con gli altri che con essi s’intendono, quanto li Bulgari et li Moscoviti», si servono della medesima «lingua slavonica [...] chiamata qui sclavona et schiavona», per il Temparizza il Collegio di Loreto non riesce a dare una risposta a quella che egli chiama «l’impresa del Levante». E non solo perché a Loreto non si studia la scrittura «che legiono et hanno in uso quelli popoli», ma anche perché «la sola lingua dalmatina non è sufficiente per tutto quel Paese, tanto amplo et spatioso, dove si parla la lingua sclavona». Secondo il mercante raguseo, occorrerebbe invece introdurre lo studio delle lingue «turca et vallacha», nonché «dell’arbanese», e delle «lettere che usano quelle nationi». Si potrebbe così giungere a «fare un vocabulario et una gramatica per aiutare gli studenti, ancor forastieri». Ma tutto ciò, a suo avviso, sarebbe possibile solo con un Collegio collocato nella città di Ragusa: «la Natione di Raugia è soggetto attissimo per la detta impresa; et per il commercio libero che hanno nel Paese del Turco et per la vicinità del luoco, si trovano di loro molti che hanno dette lingue, et non gli manca mezzi di condur di quelle nationi, essendo che gli servono con grande affetione alli mercanti ragusei, li quali stanno negotiando per tutti li luogi del Paese».»
Interessante notare la differenza dalle altre fonti coeve: queste ultime si soffermano sul bilinguismo lingua slava/lingua volgare italiana, mentre il Temparizza riporta un quadro di plurilinguismo assai più complesso.
Nel 1595, il fiorentino Serafino Razzi manda alle stampe la sua Storia di Raugia[39], nella quale descrive gli usi linguistici nelle chiese ragusee durante la Quaresima:
«Quando la Quaresima vanno alle prediche schiavone a San Domenico - predicandosi nel duomo in lingua italiana, da loro non bene intesa - col loro gridare et imperversare mettono a romore quei due religiosi conventi, e per essere in buona parte nobili, non si può loro gridare, ma conviene haver pazienza. (...) Sono nondimeno tutte le donne schiavone molto divote, e riverenti. E si dilettano grandemente della parola di Dio e delle prediche, quali odono nella lingua loro ischiavona, in San Domenico et in San Francesco, e non vanno altramente al duomo. Pero ché in quello, come si è detto, si predica sempre in Italiano. La qual consuetudine mantengono questi Signori Raugei, fra l'altre cagioni, per questa una singolare, cioè per dimostrare che eglino del sangue Romano, et Italiano principalmente sono discesi»
La situazione è sostanzialmente identica alle fonti dello stesso secolo, con l'interessante annotazione sulle motivazioni relative al mantenimento della lingua italiana in alcuni contesti pubblici.
Del tutto singolare e significativa per la rappresentazione della lingua adottata dai nobili di Ragusa, fu la caricatura di un nobile raguseo delineata da Zuan Polo (pseudonimo di Giovan Paolo Liompardi), un celebre attore comico veneziano della prima metà del Cinquecento[41], che fa dire al raguseo i seguenti versi:
«perché del fiorentino xè mio parlanza
ché là san stado per medicar rugnia,
e ancho in la Padua ia san studiado
e un con latro parlo mischulado.»
Lo scritto denota una serie di registri linguistici, impliciti ed espliciti: la pretesa di parlare "fiorentino" (italiano), la parlata dominata dal modello veneziano, l'esistenza di una lingua materna non italiana ricoperta dai due registri linguistici neoromanzi, e il risultato finale: una parlata ibrida (un con latro parlo mischulado)[43].
Nel 1676 il letterato lombardo Gregorio Leti pubblica a Ginevra il terzo volume della sua L'Italia regnante (...)[44], nella quale così si esprime su Ragusa:
«La lingua Italiana che i Ragusei chiamano franca si parla con grandissima voga tra gli Huomini, anzi non ammettono alcuno a qualsisia sorte di Magistrato che non la sappia parlare, che però la gioventù si esercita molto, ben’è vero che per ordinario tra di loro parlano la lingua materna ch’è quasi del tutto come la schiavona. La gioventù attende la maggior parte alle lettere Latine, e però il publico conduce un Professore osia Lettore con grosso salario, e questo ha cura d’insegnare a Giovani le buone lettere, con tre o quattro repetitori. Parimente conducono ogni anno un Predicatore famoso quanto far si può il quale predica solamente agli Huomini, le Donne non lo possono intendere, come quelle che non sanno la lingua e nemeno gli è permesso di saperla.»
È quindi riconfermata una volta in più la suddivisione sociolinguistica della Repubblica: la lingua materna è quella slava, ma gli uomini chiamati alle funzioni pubbliche imparano l'italiano e il latino, a differenza delle donne di qualsiasi rango, cui questo insegnamento è precluso.
Particolare fu la testimonianza sugli usi linguistici dei ragusei lasciataci dal nobile russo Pëtr Andreevič Tolstoj, che nel 1698 si fermò nella città dalmata in una sosta del suo viaggio che da Venezia l'avrebbe portato a Malta. Nel suo diario, Tolstoj afferma che i ragusei "conoscono l'italiano oltre allo slovinski, ma si sentono croati"[45].
Ulteriore ed ultima conferma sugli usi oramai plurisecolari di vari registri linguistici nella città di Ragusa legati al genere sessuale e al rango sociale - a petto di un substrato comune dato dalla lingua materna slava - è data da un'anonima relazione del secolo XVIII:
«La lingua, che volgarmente si parla in Ragusi, e nello stato è l’Illirica. Il basso popolo non ne parla, e non ne intende, che questa; salvoché pochissimi di esso, che sanno qualche cosa d’italiano. I nobili però posseggono entrambe queste lingue. Il loro italiano è un misto del dialetto romano corrotto dalla pronunzia, e da qualche termine napoletano, che misti insieme formano un linguaggio, che ha una certa grazia sua propria, e particolare.»
Di seguito un quadro riassuntivo di tutte le testimonianze e di tutte le rilevazioni della lingua parlata a Ragusa qui reperite, in ordine cronologico dalla più antica alla più recente:
Anno o secolo |
Fonte | Lingua scritta utilizzata dalla fonte |
Lingua parlata a Ragusa citata dalla fonte |
Note |
---|---|---|---|---|
948-952 | Costantino Porfirogenito De Administrando Imperio |
Greco | Latino / lingua neoromanza (?) | Secondo la fonte, la città era abitata da Romani. |
1095-1183 | Guglielmo di Tiro Historia rerum in partibus transmarinis gestarum |
Latino | Latino o dalmatico | |
XIV secolo | Bandi pubblici | Latino | Volgare (dalmatico o italiano) in piccola parte slavo |
|
1384-1387 | Giovanni Conversini Ioannis Conversini scripta de Ragusio |
Latino | Dalmatico | Un tempo si riteneva che questa fonte testimoniasse sull'uso di una lingua slava. |
1300-1400 | Scritture notarili e registri criminali ragusei | Latino e italiano | Volgare italiano. Notizie sull'utilizzo di una lingua slava | |
1440 | Filippo De Diversis Situs, aedificiorum, politiae et laudabilium consuetudinum inclitae civitatis Ragusii |
Latino | Dalmatico | La fonte segnala specificamente l'uso del dalmatico nei consessi pubblici ufficiali. |
1472 (febbraio) |
Consiglio dei Pregati | Latino | Dalmatico e altre | Si statuisce di non obbligare all'uso del solo dalmatico nei consessi pubblici. |
1472 (dicembre) |
Consiglio dei Pregati | Latino | Dalmatico | Si statuisce l'obbligo dell'uso del solo dalmatico nei consessi pubblici, e il divieto d'uso della lingua slava. Si capisce quindi che in tali occasioni venivano usate anche lingue diverse (slavo e italiano). |
1500 ca. | Elio Lampridio Cerva Lettera ad un amico |
Latino | Lingua slava | Cerva scrive in latino e chiama la lingua slava di Ragusa scythicus sermo (lingua scitica). |
1502 | Consiglio dei Pregati | Latino | Lingua slava | La lingua slava è definita idiomate nostro (lingua nostra). In alcuni atti coevi è usata anche la forma dalmaticus (dalmatico). |
1533 | Benedetto Ramberti Libri tre delle cose di Turchi |
Italiano | Lingua slava comune a tutti. Gli uomini parlano anche l'italiano | |
1553 | Giovanni Battista Giustiniani Itinerario |
Italiano | Lingua slava e lingua italiana | La fonte chiama la lingua slava dalmatina e quella italiana franca. |
1555 | Anonimo Relazione |
Italiano | Lingua slava comune a tutti, essendo lingua nativa. Gli uomini parlano anche l'italiano | La lingua latina è utilizzata nei documenti pubblici, mentre l'italiano è utilizzato nella corrispondenza. |
1556 | Ludovico Beccadelli Lettera |
Italiano | I gentiluomini conoscono l'italiano, ma il popolo parla solo lo slavo. Le donne non parlano altro che lo slavo. | |
1578 | Francesco Sansovino Del governo et amministratione di diversi regni (...) |
Italiano | Lingua slava utilizzata fra i ragusei. Tutti i giovani conoscono la lingua italiana: non però le donne. | La lingua italiana è chiamata dai ragusei "Franca". Molti studiano il latino. |
1582 | Marco Temparizza Lettera |
Italiano | La lingua slava è comune a tutta la Dalmazia. A Ragusa si parlano per necessità di commercio o per vicinanza anche altre lingue: segnatamente turco, valacco e albanese | |
1595 | Serafino Razzi Storia di Raugia |
Italiano | Lingua slava comune a tutti. Gli uomini parlano anche l'italiano | Le donne di Ragusa non intendono l'italiano, lingua che si manterrebbe per dimostrare l'ascendenza romana e italiana della città. |
1676 | Gregorio Leti L'Italia regnante |
Italiano | Lingua slava comune a tutti. Gli uomini chiamati alle funzioni pubbliche parlano l'italiano e il latino. | Alle donne è preclusa la conoscenza dell'italiano e del latino, da loro non inteso. |
1698 | Pëtr Andreevič Tolstoj Diario |
Russo | Slovinski e italiano. | I ragusei si sentono croati. |
XVIII secolo | Anonimo Relazione |
Italiano | Lingua slava comune a tutti. Gli uomini di alto lignaggio parlano anche l'italiano | L'italiano parlato dai nobili ragusei è un misto di romano e napoletano. |
Le quattro principali raccolte giuridiche ragusee, e cioè il Liber statutorum civitatis Ragusii (dal 1272 fino al 1300 circa), il Liber omnium reformationum (1300 - 1358 circa), il Liber Viridis (1358 - 1460) e il Liber Croceus (1460 - 1803) - contengono testi dapprima esclusivamente in lingua latina, poi in latino ed in italiano e infine - a partire dal 1480 circa - quasi esclusivamente in lingua italiana. L'italiano divenne nei secoli la lingua privilegiata in tutti gli ambiti legali, sia pubblici che privati, sopravvivendo in città anche alla caduta della Repubblica (1808), per gran parte del XIX secolo.
Lo stesso excursus si rileva anche in ambito diplomatico: al latino come lingua si sostituì nel XV secolo quasi esclusivamente l'italiano come lingua di corrispondenza fra gli ambasciatori ragusei e la Repubblica, così come il latino e l'italiano furono le lingue usate quasi esclusivamente nei rapporti interstatali con le varie potenze europee. Esistono anche esempi di uso diplomatico del volgare veneziano: testimonianza dell'espansione del cosiddetto "veneziano da mar" - lingua veneziana in uso lungo le coste prima dell'Adriatico orientale e poi del Mar Mediterraneo - anche in zone non soggette alla dominazione veneziana[47].
Secondo quanto riportato dall'Appendini, nel XV secolo il Senato raguseo - vista la cattiva conoscenza della lingua latina in città - decise di chiamare dall'Italia dei maestri che venissero ad insegnarla[48]. Il primo di essi fu quindi il già citato Filippo de Diversis, seguito da un nutrito numero di dotti letterati. Fra essi si ricordano in particolare Senofonte Filelfo, Girolamo, Aurelio e Giovanni Battista Amalteo, Nascimbene Nascimbeni, Girolamo Calvo, Camillo Camilli, Francesco Serdonato, Giacomo Flavio Dominici, Lorenzo Regini e vari altri. Questi svolsero varie funzioni: oltre ad essere maestri di retorica, parecchi divennero anche segretari o cancellieri[49]; ad essi vanno aggiunti i vari vescovi di Ragusa, che per antica disposizione non potevano essere dei ragusei e di conseguenza provennero quasi esclusivamente dall'Italia, favorendo ulteriormente lo studio e la conoscenza del latino e dell'italiano[50]. Per completare il quadro, va ricordato che fin dal tardo XIII secolo Ragusa fece arrivare dall'Italia i vari notai, per sovrintendere non solo a tutte le funzioni legate alla produzione dei documenti di cancelleria, riguardanti cioè l'azione di governo dell'istituzione comunale, ma anche a quelli inerenti alle azioni giuridiche stipulate dai cittadini o dai forestieri abitanti a Ragusa[51].
Il vero e proprio culto dei ragusei per il latino (e poi per l'italiano), come già precisato era dovuto a diverse cause: sia storiche – la fondazione della città dai profughi romani di Epidauro – che di prestigio locale e internazionale – l'utilizzo del latino per distinguersi dai popoli dell'interno (considerati rozzi) e per risultare simili agli stati dell'Europa occidentale – che pratici – l'utilizzo dell'italiano in quanto lingua franca per il commercio in gran parte del bacino del Mediterraneo, quando la lingua slava di Ragusa non era ancora stata codificata nella sua struttura grammaticale e sintattica. La fioritura di tutte le arti nell'Italia rinascimentale fu poi fondamentale nella sua influenza su tutte le forme artistiche dalmate, ed in modo particolare ragusee[52].
Non sorprende quindi che la produzione artistico-letteraria dei ragusei rifletté continuamente questa molteplice realtà plurilinguistica. Molti sono gli autori che utilizzarono diverse lingue per i loro scritti. I paragrafi seguenti forniscono un'analisi più puntuale degli usi linguistici scritti dei più significativi autori ragusei[53].
Melezio (Miletius) è ritenuto il primo storico raguseo. L'Appendini lo considerava vissuto nel XII secolo, ma in realtà l'unica sua opera a noi pervenuta - una storia di Ragusa in versi - è stata composta all'incirca nel 1340. Melezio scrisse in lingua latina[54].
Fu chiamato Sallustio raguseo per la sua opera più famosa: un commentario dei suoi tempi (Ludovici Tuberonis commentariorum de rebus, quae temporibus eius in illa Europae parte, quam Pannonii et Turcae eorumque finitimi incolunt, gestae sunt[55]), scritto all'incirca nel 1520 e pubblicato per la prima volta a Francoforte nel 1603. Ludovico Cerva (conosciuto anche come Cervario Tuberone) scrisse in latino.
Ambasciatore e in seguito rettore della Repubblica, Luccari pubblicò nel 1605 a Venezia il suo capolavoro -in lingua italiana- dal titolo di Copioso ristretto degli annali di Rausa[56].
Considerato uno dei più importanti storici ed eruditi ragusei, compose uno svariato numero di opere in lingua latina, fra le quali si ricorda soprattutto la sua Bibliotheca Ragusina, in qua Ragusi scriptores, eorum gesta et scripta recensetur: una raccolta di 453 biografie di notabili ragusei.
Ignazio Giorgi definì Sigismondo Menze e il suo coetaneo Giorgio Darsa come il Dante e il Boccaccio della lingua illirica[57]. Ispirandosi ai poeti latini e italiani, il Menze compose svariate opere, pubblicate quasi tutte fra il XIX e il XX secolo, utilizzando esclusivamente la lingua slava di Ragusa.
Oggi considerato uno dei padri della letteratura croata, Giorgio Darsa (zio di Marino) compose le sue poesie di stile amoroso trobadorico in lingua slava.
Il già citato Elio Lampridio Cerva fu il più importante e facondo poeta di lingua latina del rinascimento in Dalmazia, autore di una notevole mole di versi di matrice accademica, che gli valsero la concessione della corona d'alloro in Campidoglio.
Poeta molto prolifico, il Vetrani - frate benedettino del monastero di Meleda - ha lasciato oltre 4300 versi di vario tipo, tutti in lingua slava. Oggi è considerato uno dei capostipiti della letteratura poetica croata.
Marino Darsa è uno dei più importanti scrittori dell'intera storia letteraria croata, nonché uno dei pochi autori teatrali rinascimentali ragusei regolarmente tradotti e rappresentati nei vari teatri del mondo. Commediografo di grande fama in vita, ha lasciato solo opere in lingua slava. Riguardo ai diversi registri linguistici parlati a Ragusa, risulta interessante la lettura della sua commedia Novela od Stanca[58] (in italiano tradotta come La beffa di Stanac): un contadino delle campagne di Ragusa si reca in città, dove diviene zimbello di un gruppo di giovani sfaticati rampolli della nobiltà ragusea. Tutti i personaggi parlano una lingua slava, ma uno dei modi attraverso i quali i giovani si prendono beffe del contadino è l'utilizzo di un registro linguistico "alto", infarcito di italianismi e di frasi strutturalmente complesse, il cui significato è ignoto al povero Stanac, o viene da esso travisato creando delle gustose situazioni comiche[59].
Considerato primo poeta manierista raguseo, Savino de Bobali compose oltre duecentocinquanta sonetti in lingua italiana, pubblicati solo dopo la sua morte. Solo in anni recenti sono stati ritrovati i testi di un poema, alcune canzoni e due sue lettere in lingua slava.
Membro di una delle più importanti famiglie nobili ragusee, Domenico Ragnina fu scrittore e uomo politico, autore di un celebre canzoniere in lingua slava - Piesni razlike (Canzoni varie), stampato a Firenze nel 1563 - e di qualche sonetto in italiano, oltre che di una serie di traduzioni di varie poesie latine in lingua slava.
Celebre poeta e filosofo dei suoi tempi, il Monaldi fu uno dei fondatori della nota Accademia dei Concordi di Ragusa, che sulla scia delle coeve accademie italiane propugnava lo studio dei classici e la creazione di una nuova poetica. I suoi scritti - tutti in lingua italiana - vennero pubblicati solo dopo la sua morte.
Poeta in italiano e slavo, lo Slatarich è però più noto per le sue importanti traduzioni nella lingua slava di Ragusa, che egli espressamente definì "croata": iz veće tuđijeh jezika u hrvacki izložene - "da molte lingue straniere tradotte in croato".
Tra i massimi esponenti della storia letteraria in lingua croata, Giovanni Francesco Gondola fu uomo politico e poeta. La sua produzione fu notevole, ma parte delle sue opere –soprattutto quelle giovanili– è andata perduta. Il suo poema epico Osman è considerato fra le opere più importanti della letteratura croata. Scrisse quasi unicamente in lingua slava, anche se due sue lettere in qualità di magistrato pubblico al servizio della Repubblica sono in lingua italiana.
Appartenente ad un ramo di una nobile famiglia, Giovanni Serafino Bona fu uomo politico e poeta di ispirazione prevalentemente petrarchesca. Tutte le sue opere sono in lingua slava.
Scrittore, drammaturgo e traduttore, Giunio Palmotta –nipote di Giovanni Francesco Gondola– per le sue opere si ispirò soprattutto ai grandi autori del passato quali Ovidio, Virgilio, Tasso e Ariosto. Le sue opere sono in lingua slava.
Celebre grecista della sua epoca, Raimondo Cunich fu traduttore e poeta rigorosamente in lingua latina.
Nobile raguseo, il Resti fu versato in latino e greco, lasciando una serie di poemi latini pubblicati dall'Appendini a Padova dopo la sua morte.
Mercante, economista e diplomatico, Benedetto Cotrugli è passato alla storia come primo autore di un testo espressamente dedicato all'attività del mercante, dal titolo Della Mercatura e del Mercante Perfetto[60], in lingua italiana. Scrisse anche il De Navigatione, in latino.
Membro di una delle più potenti famiglie ragusee, Nicolò Vito di Gozze fu un filosofo ed uomo politico della Repubblica. Influenzato dalle correnti tardo-rinascimentali italiane, compose una serie di opere fin dalla più giovane età, in maggior parte in italiano, ma anche in latino.
Illustre matematico e scienziato, visse fra Ragusa e varie località dell'Europa. Ghetaldi pubblicò una serie di lavori scientifici, esclusivamente in lingua latina. Ugualmente in latino furono le sue composizioni poetiche, gran parte di esse mai edite durante la sua vita.
L'attività letteraria dello scienziato, filosofo e matematico Stefano Gradi fu - per la sua epoca - enorme: oltre novanta opere e una serie di traduzioni in varie lingue. I suoi saggi sono in lingua latina, così come sono in latino i suoi carmi, in gran parte inediti fino alla sua morte.
Numismatico e studioso d'antichità, il Banduri ha lasciato una serie di opere di vario tipo, tutte scritte in latino.
Erudito e letterato, Ignazio Giorgi è uno dei più facondi scrittori ragusei. Al suo attivo ha decine di opere di natura poetica, storica, teologica e scientifica. Scrisse indistintamente sia in italiano, che in latino che nella lingua slava: utilizzò le prime due per le opere d'erudizione e - parzialmente - per le poesie, mentre la lingua slava fu utilizzata per una serie di carmi e poemi di vario tipo.
Erudito e filosofo francescano molto noto ai suoi tempi anche come predicatore, scrisse una serie di opere in latino e in italiano, ma anche un quaresimale in lingua slava, oltre a una dissertazione sull'antichità e l'importanza di quest'ultima lingua, pubblicata a Venezia nel 1754 col titolo De Illyricae linguae vetustate et amplitudine[61].
Il Boscovich fu senza alcun dubbio l'intellettuale raguseo più importante della storia. Coltivò vari interessi, ma primeggiò nella matematica, nella fisica e nell'astronomia, divenendo uno degli scienziati europei più famosi del suo tempo. La sua vicenda personale è in qualche modo paradigmatica della situazione linguistica ragusea: figlio di un mercante della Bosnia e di una ragusea di ascendenze italiane, nelle lettere che scambia col fratello Bartolomeo passa dall'italiano alla lingua slava di Ragusa con naturalezza[62]. È interessante notare che in un'occasione egli chiama nostra lingua una lingua slava[63]. Allo stesso modo, nel suo Giornale di un viaggio da Costantinopoli in Polonia, passando in un piccolo villaggio della Bulgaria Boscovich racconta che "la lingua del paese è un dialetto della lingua Slava, la quale essendo anche la mia naturale di Ragusa, ho potuto farmi intendicchiare da loro"[64]. Nonostante la maggior parte delle opere scientifiche di Boscovich sia in lingua latina, egli scrisse molti testi anche in italiano nonché qualcuno in francese. Oltre a ciò, compose delle poesie di vario tipo in latino e italiano.
Contemporaneo del Boscovich - del quale fu amico – Benedetto Stay fu un dotto uomo di chiesa, autore di due poemi in lingua latina e di varie altre opere di erudizione di varia tipologia, sempre in latino.
Di seguito un quadro riassuntivo della lingua scritta utilizzata da storici, poeti, scrittori e scienziati ragusei qui ricordati, in ordine cronologico.
Anno | Autore | Lingua utilizzata | Eventuali altre lingue utilizzate | Note |
---|---|---|---|---|
1350 ca. | Melezio (Storico) |
Latino | ||
1416-1469 | Benedetto Cotrugli (Economista) |
Italiano | Latino | |
1457-1527 | Sigismondo Menze (Poeta) |
Slavo | ||
1459-1527 | Ludovico Cerva (Storico) |
Latino | ||
1461-1501 | Giorgio Darsa (Poeta) |
Slavo | ||
1463-1520 | Elio Lampridio Cerva (Poeta) |
Latino | ||
1482-1576 | Mauro Vetrani (Poeta) |
Slavo | ||
1508-1567 | Marino Darsa (Commediografo) |
Slavo | ||
1530-1585 | Savino de Bobali (Poeta) |
Italiano | Slavo | |
1536-1607 | Domenico Ragnina (Poeta) |
Slavo | Italiano | |
1540 ca.-1592 | Michele Monaldi (Poeta) |
Italiano | ||
1549-1616 | Nicolò Vito di Gozze (Filosofo) |
Italiano | Latino | |
1558-1613 | Domenico Slatarich (Poeta) |
Slavo | Italiano | |
1568-1626 | Marino Ghetaldi (Matematico) |
Latino | ||
1588-1638 | Giovanni Francesco Gondola (Poeta) |
Slavo | Del Gondola rimangono due lettere manoscritte, in lingua italiana. | |
1591-1658 | Giovanni Serafino Bona (Poeta) |
Slavo | ||
1607-1657 | Giunio Palmotta (Poeta) |
Slavo | ||
1613-1683 | Stefano Gradi (Filosofo) |
Latino | Gradi fu scienziato, filosofo, teologo, matematico e poeta. | |
1671-1743 | Anselmo Banduri (Numismatico) |
Latino | ||
1675-1737 | Ignazio Dolci (Filosofo e letterato) |
Italiano, latino, slavo | Dolci scrisse in italiano e in latino le opere di natura scientifica, prevalentemente in lingua slava le poesie. Non è possibile indicare una lingua prevalente. | |
1696-1759 | Serafino Cerva (Storico) |
Latino | ||
1711-1787 | Ruggiero Giuseppe Boscovich (Scienziato e matematico) |
Latino e italiano | Slavo | Boscovich afferma che lo slavo è la sua lingua naturale. Lui la utilizza per iscritto in alcune lettere. |
1714-1801 | Benedetto Stay (Erudito) |
Latino | ||
1719-1794 | Raimondo Cunich (Poeta) |
Latino | ||
1755-1814 | Giunio Resti (Poeta) |
Latino | ||
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