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Partenope (città antica)
primo nucleo urbano della città di Napoli Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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Partenope (in greco antico: Παρθενόπη?; in latino Parthenŏpe)[2][3][4] fu una sub-colonia greca edificata tra il Vesuvio ed i Campi Flegrei nell'VIII secolo a.C. dai cumani. Venne rifondata dagli stessi come Neapolis[5] nell'ultimo trentennio del VI secolo a.C.[6]
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Origini del nome
Partenope, che significa «quella che sembra una vergine», era una delle sirene ammaliatrici che, secondo una versione di una leggenda, si suicidò lanciandosi in mare con le sorelle (Ligea e Leucosia) per l’insensibilità di Ulisse al loro canto; il suo corpo fu trasportato dalle onde alla foce di uno degli affluenti del fiume Sebeto, dove fu chiamata Partenope la città detta poi Neapolis (Napoli).[7]
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Storia
Riepilogo
Prospettiva
Le origini
Le prime tracce archeologiche dell'area risalgono al Neolitico Medio, tipo Serra d'Alto, e sono state ritrovate nei pressi della basilica di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone (ossia tra l'acropoli e la necropoli di Partenope, alle spalle della collina di Pizzofalcone).[8] Nello stesso punto sono stati ritrovati, inoltre, un importante strato archeologico risalente all'Eneolitico Antico e uno all'antica/media Età del bronzo.[8] L'Eneolitico Medio, tipo Gaudo, è noto più all'interno di Partenope, grazie ai vecchi ritrovamenti di Materdei,[9] mentre il Bronzo Medio avanzato è presente nei fondali marini dell'insenatura di piazza del Municipio e nel pianoro di Neapolis (e anche in altri siti meno significativi), dove sono stati riportati alla luce materiali che testimoniano l'esistenza di due villaggi[10] che ebbero certamente contatti col mondo miceneo.[N 1]
Presso la stazione Duomo, infine, sono stati rinvenuti soprattutto abbondanti rinvenimenti ceramici (olle ovoidi), databili tra il Bronzo Finale e l'inizio del Ferro, che documentano l'esistenza di un sito probabilmente a carattere produttivo, destinato a svolgere attività costiere.[8] Per le popolazioni dell'Età del bronzo e poi del Ferro presenti in quest'area del golfo di Napoli, le fonti greche usano i nomi di Ausoni e Opici.
Fondazione di Partenope
L'insediamento di Partenope fu fondato dai Cumani.[5]
Le ricerche archeologiche fanno risalire la nascita della colonia alla fine dell'VIII secolo a.C.,[11] anche se la documentazione più antica si colloca nel III quarto dello stesso secolo, ossia tra il 750 e il 720 a.C.,[N 2][12] non lontana dalle fasi più antiche di Pithecusa e dell'abitato di Cuma rilevate dai recenti scavi dell'Università "L'Orientale" e "Federico II".[13]
L'insediamento, sorto in una posizione particolarmente favorevole su uno sperone roccioso circondato su tre lati dal mare, nacque come scalo marittimo (epineion) subalterno al centro principale, come generalmente riconosciuto secondo il metodo storico-critico in riferimento alla colonia fondata dagli Euboici.[6][10]
Le indagini hanno permesso di individuare il porto, che fu anche quello di Neapolis, nell'attuale piazza del Municipio (all'epoca un bacino chiuso e protetto, che a sua volta faceva parte di una vasta insenatura situata fra castel Nuovo e la chiesa di Santa Maria di Portosalvo).[11]
Grazie all'ubicazione favorevole e alla qualità dei luoghi, la colonia cominciò a essere sempre più frequentata, con una crescita demografica che, più precisamente, si tradusse in uno sviluppo commerciale, come evidenziato dai resti materiali rinvenuti in piazza Santa Maria degli Angeli e nel bacino portuale di piazza del Municipio. Questi resti testimoniano un progressivo incremento, soprattutto a partire dalla fine del VII secolo a.C. e nel VI secolo a.C., con reperti che risultano molto più numerosi rispetto ad altri epineion cumani, come Pozzuoli o Miseno, e simili, per qualità e varietà, a quelli di Cuma. Un indicatore rilevante di questa crescita commerciale è costituito dal gran numero di frammenti di anfore da trasporto, sia greche che etrusche, rinvenuti, che suggeriscono una crescente apertura commerciale di Partenope verso le altre regioni.[10]
Temendo che la propria città venisse sostituita, i Cumani decisero di «distruggerla».[N 3]
La rifondazione come Neapolis
«Parthenope non può essere disgiunta da Neapolis, formando un unico sistema storico-archeologico, geologico e territoriale.»
Neapolis (in greco antico Νεάπολις) fu fondata, senza tema di errare, dai Cumani. Tale responsabilità di fondazione è asserita unanimemente da Strabone, Velleio Patercolo, Scimno di Chio, Lutazio e Tito Livio. Tali fonti appartengono a due prospettive differenti: da un lato, quella cumana, in quanto dipendono da autori e testi cumani (Strabone, Patercolo e Pseudo-Scimno), e dall'altro, quella neapolitana, poiché derivano da fonti legate alla città di Neapolis (Livio e Lutazio). Inoltre, il mantenimento di una fratria di Kymaioi e l'accoglienza dei Cumani con pieni diritti dopo la caduta di Cuma in mano sannita confermano ulteriormente quanto appena esposto.[5]
La fondazione della città si fissa in quel clima di stasis (discordia tra fazioni) che caratterizzò Cuma per tutta la parabola di Aristodemo. La circostanza decisiva coincide con l'instaurazione della Tirannide di Aristodemo, dopo il suo trionfo ad Aricia. La tradizione racconta dell'espulsione forzata degli oligarchi che trovarono asilo a Capua. È probabile che in questa occasione essi abbiano deciso di dare spazio alla Nea Polis (Nuova Città).[6] Ad ogni modo, risulta certo che la fondazione della città avvenne per mano di oligarchi, mossi dalla volontà di dar vita ad una «seconda Cuma», del tutto simile alla città dalla quale erano stati cacciati; lo provano già a sufficienza sia il prosieguo di culti come quello di Demetra, sia la ripresa fedele dell'organizzazione in fratrie.[6] Tale inquadramento cronologico è confermato da rinvenimenti ceramici in un tratto delle mura e in vari punti della città,[6][14]nonché dal reticolo viario della polis che può essere confrontato con impianti tardo-arcaici, quali quelli, più antichi, di Poseidonia e Agrigento, e quelli più recenti di Naxos e Himera.[N 4]
Neapolis sorse a est della collina di Pizzofalcone (così chiamata per la costruzione di una falconiera su di essa da parte di Carlo I d'Angiò nel XIII secolo),[15] su un pianoro in declivio da nord a sud, delimitato da via Foria a nord, da corso Umberto I a sud, da via Santa Maria di Costantinopoli a ovest e a est da via Carbonara, digradante verso il mare a partire dall'altura della collina di Caponapoli nel settore nord-occidentale. Il pianoro, scandito al suo interno da una serie di rilievi e cinto da fossati naturali solcati da torrenti che scendevano dalle colline retrostanti, era circondato da possenti mura[N 5] che seguivano la morfologia del terreno.
L'insediamento venne edificato secondo i criteri greco-classici: acropoli (individuata nell'attuale area di Sant'Aniello a Caponapoli), agorà (corrispondente all'odierna piazza San Gaetano) e necropoli (situate sulla collina di Santa Teresa degli Scalzi, a San Giovanni a Carbonara, allo sbocco di San Biagio dei Librai e nei pressi di Castel Capuano). In quest'ultima, in particolare, i vasi portati alla luce durante gli scavi sono di fattura cumana e testimoniano l'assenza, a Neapolis, di una scuola artistica locale.
L'impianto urbano si fondava su tre strade maggiori e più larghe (in greco antico: πλατεῖαι?, platêiai) che erano incrociate ortogonalmente con l'intreccio di strade più strette (in greco antico: στενωποί?, stenōpói). Il caso di studio neapolitano risulta concepito su uno schema razionale di pianificazione legato alla fondazione della nuova collettività, riconosciuta concettualmente come "Città Nuova". Secondo questa ottica, nuovi studi hanno messo in luce l'esistenza di un progetto geometrico riferito al tracciato delle strade e degli isolati, che vede come centro il tempio dei Dioscuri dell'agorà.[16]
Come si è visto, la nuova città non nacque inglobando e di conseguenza sviluppando la città vecchia,[5] come avvenne invece a Costantinopoli. Al contrario, sorse giustapposta ad essa per motivi commerciali: Neapolis era infatti tutta proiettata verso la valle del Sarno.[5] Il pianoro a nord-est della collina di Pizzofalcone, inoltre, rappresentava, grazie alle sue caratteristiche naturali e alla sua estensione, una riserva di sviluppo significativa.[17] A onor del vero, come dimostrano le indagini archeologiche, tale territorio era già diffusamente occupato almeno nella seconda metà del VI secolo a.C..[N 6] Partenope, in piena espansione, aveva infatti esteso il proprio controllo anche all’area del vicino pianoro.[10][18][N 7] [17] La scelta della zona bassa, rispetto alla collina di Pizzofalcone, permise di pianificare un impianto urbano più ampio e regolare. L'insediamento più antico sul colle di Pizzofalcone sopravvisse anche dopo la fondazione della 'Città Nuova', rimanendo un polo secondario della polis (la Palepolis),[N 8][19][20] che continuò a svolgere un ruolo significativo nel contesto urbano[N 9][17] fino al III secolo a.C..[N 10]
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Partenope nelle fonti antiche
Riepilogo
Prospettiva
Di Partenope non fanno espresso accenno le fonti che fanno riferimento ad un punto di vista cumano. Per quanto riguarda la prospettiva neapolitana, ne parlano sia Lutazio, sia Tito Livio. Quest'ultimo in particolare si riferisce ad essa chiamandola Palepolis (città vecchia).[5]
Lutazio
Lutazio ne parla quando narra della storia e delle vicende di Neapolis. Riporta che alcuni Cumani oppositori, allontanatisi dalla loro patria, fondarono una città chiamata Parthenope, in onore della sirena che vi era sepolta. Tuttavia, una volta che l'insediamento vide un crescente afflusso di persone grazie alla sua felice posizione, Cuma, temendo che venisse del tutto abbandonata, decise di distruggerlo. A seguito di una punizione divina, i Cumani, su ordine di un oracolo, furono obbligati a ricostruire la città e a prendersi la responsabilità di onorare i Sacri riti in omaggio alla sirena Partenope.[5] Per segnare questo rinnovamento, decisero di chiamare la nuova città Neapolis, che significa 'nuova città'.
Gli studi di questa parentesi storica evidenziano una comprovata tradizione neapolitana che mostra una marcata analogia tra il culto della sirena e l'esistenza del sito.[5] Inoltre, in tutto il resoconto emerge una marcata polemica anticumana: il ripercorrere di queste vicende passate suggerisce che le disposizioni di tali fonti vadano contestualizzate nelle trascorse relazioni tra Cuma e Neapolis, e non nel II secolo a.C. Come si vedrà dall'opposta tradizione cumana, tali critiche nacquero quando le due città si trovarono scisse, in particolare riguardo al loro diverso approccio nei confronti dei Sanniti e dei Campani (periodo che riguarda la fine del V secolo a.C.).[5] È proprio in questo lasso di tempo che risale il particolare modo di ripercorrere il passato di Neapolis.
Tito Livio
Livio ne riferisce quando parla dell'assedio posto a Neapolis, nell'ambito delle guerre sannitiche. All'inizio di tale racconto viene delineata una breve descrizione sulla nascita di Neapolis: c'erano due urbes, Palepolis, la città vecchia, e Neapolis, quella nuova, poste una accanto all'altra, abitate dallo stesso popolo e costituenti un'unica città.
Gli avvenimenti che conducono alla dedizione romana e all'allontanamento dei Sanniti ingannati si riferiscono soltanto a una di queste[5] e si tratta di quella in cui agiscono i principes civitatis (Charilaus e Nymphius), dove si sono installati i Sanniti e i Nolani e dove vengono lasciati entrare i Romani; ci si riferisce dunque alla Neapolis, con la quale sarà tuttavia stabilito il foedus Neapolitanum.
A Palepolis, invece, avevano sede gli organi di rappresentanza.[N 11] Quindi è a quest'ultima che Roma manda i Feziali, ottenendo una risposta negativa. Sono i Palepolitani a ricevere la dichiarazione di guerra e i presidi sanniti e nolani, mentre i principes di Neapolis stipulano trattative a nome dei Palepolitani. Nei confronti di questi ultimi e dei Sanniti si acclama la vittoria.[5] Palepolis quindi assume l'accezione sia di città vecchia, topograficamente distaccata da quella nuova, sia di abitato che designa la civitas nella sua interezza. In tale direzione, il vocabolo Palaepolitani lo si riscontra anche nei fasti trionfali.
A quest'ultimo proposito è doveroso pertanto rimarcare certi aspetti. La collettività neapolitana, come si intuisce in Livio, nasce in coabitazione con vecchi residenti: un insediamento antico quindi ed uno più recente che si è aggiunto in un secondo momento.[21] Non si riscontrano di conseguenza cancellazioni fisiche o aggregazioni topografiche, ma epoikia come accostamento. Ciò è sottinteso anche nella fonte straboniana.
Tuttavia, né Livio né i Fasti fanno mai accenno al vecchio nome della Palepolis (Parthenope).[5] Il racconto parallelo di tali vicende, fornito da Dionisio di Alicarnasso, seppur frammentario, le presenta come eventi riguardanti Neapolis e i suoi abitanti.
Il modo di fare di Livio e dei Fasti è da riscontrare nel modo in cui tale vicenda venne giostrata e riferita dai Romani.
In tale episodio storico, come dimostrano l'atteggiamento di Quinto Publilio Filone e il convenevole foedus Neapolitanum, si riscontra una certa magnanimità nei confronti di Neapolis. Nel racconto dionigiano i Sanniti occupano Neapolis con astuzia e angherie.[5] Un fattore che è presente anche nella fonte liviana: la presenza dei presidi sanniti e nolani era stata alquanto pesante. La preferenza verso la controparte romana è mostrata da Charilaus come fatto positivo sia per i Palepolitani che per il popolo romano, mentre la rottura dell'amicizia con Roma è descritta come un comportamento azzardato. Il generale Filone è inoltre descritto come disponibile a riconoscere tali interpretazioni delle vicende. L'assunto di una capitolazione della città per causa sannita è pressoché rifiutato, e la natura del foedus è presentata come un riconoscimento per la buona condotta tenuta dai Neapolitani.
È in tale ambito, dunque, che deve essere ricercato il ricorso ai Palepolitani ed il silenzio sul vecchio nome della Palepolis: menzionare quest'ultima piuttosto che Neapolis, affermando che quest'ultimo fosse l'allora centro precursore del comando, voleva dire considerare la maggiore importanza del vecchio centro, al fine di far ricadere su quest'ultimo, e non su Neapolis, tutto il marcio del caso. Nell'ambito dello stesso criterio, omettere Partenope significava non rammentare che il culto della divinità poliade di tutta la civitas faceva capo alla Palepolis, e conseguentemente mettere a rischio l'intero intervento filoneapolitano che si intendeva accreditare.
Strabone
Strabone ne dà soltanto un'idea, seppur in maniera anonima, nel passo in cui parla di Neapolis. Quest'ultima venne fondata per mano dei Cumani e confermò in seguito il proprio nome con l'insediamento di nuovi abitanti, tra cui Ateniesi e Pithecusani. Vi si trovava la tomba della sirena Partenope, e, per via di un oracolo, fu pianificato per lei un agone ginnico. Dopo tale periodo, la cittadinanza di Neapolis, scissa in due schieramenti, aprì le porte a una parte dei nemici Campani e fu obbligata a trattarli come i propri più diretti congiunti, mentre i Cumani, veri parenti dei neapolitani, furono del tutto ripudiati.
La prospettiva è senza dubbio quella della città calcidese. Cuma, fondatrice dell'insediamento, si sentì profondamente tradita da Neapolis, che, al fine di salvaguardare la propria incolumità e sovranità, decise di aprire le porte ai terribili antagonisti dei Cumani. Questi ultimi, infatti, come rammenta sempre Strabone, conquistarono Cuma con angherie e devastazioni.[5] È evidente il nesso polemico con l'alleanza con la popolazione osca, che si verificò nello stesso periodo del declino di Cuma. Le lamentele, infatti, emergono dalla prospettiva dei Cumani, che esprimono il loro risentimento per gli eventi accaduti. Da ciò si comprendono meglio vari aspetti: la motivazione che ha spinto Strabone a descrivere le vicende del sito in un determinato modo, l'orizzonte temporale della sua fonte e le caratteristiche specifiche di quest'ultima.
Si evince un vero e proprio occultamento delle vicende passate del sito: queste ci sono state, se Neapolis, di fondazione cumana, si chiamò proprio «città nuova», ma dell'insediamento che esisteva prima e del suo nome non si parla più come sarebbe stato necessario. Se si considera il blocco distruttivo presente nell'opposta attestazione di Lutazio, il tutto diventa esplicito, e la centralità della questione è confermata dal resto del racconto: il nome del sito fu dovuto all'arrivo di nuovi coloni, non a una ricostruzione come atto riparativo a una punizione divina (la pestilenza), il responso sacro affiancò la seguente rifondazione e si riferì esclusivamente all'agone ginnico in onore della sirena, non alla fondazione in sé, che si riporta solamente come avvenuta per mano dei Cumani.[5] L'inciso di Strabone nel suo racconto lo si decifra, dunque, raffrontandolo con quello lutaziano, poiché in una prospettiva neapolitana ribalta l'organizzazione, mostrando il sito nato come Parthenope e non Neapolis, scaturito non da un'iniziativa di Cuma, ma da un gruppo di Cumani oppositori, presentando la città madre non sotto una luce benevola, ma piuttosto sotto una luce alquanto infida e rancorosa.[5] Se il nome di Partenope non compare in questa sede, è solo a causa delle tendenze centrifughe della fonte, a cui Strabone è rimasto semplicemente congruente.
Partenope e i Rodii
Oltre al riquadro precedente, che riguarda fonti di ottica neapolitana o cumana, esiste un'attestazione straboniana che riconduce piuttosto a fonti rodie. Il geografo, nel rievocare la grandezza di Rodi, parla delle fondazioni di Partenope, Elpie e Rhodos.
L'informazione a proposito di Partenope è, come di consuetudine, soltanto ribadita da Stefano Bizantino alla sezione Parthenope, mentre, come è stato riportato precedentemente, la città ritorna come fondazione cumana nelle fonti di ottica neapolitana accolte da Lutazio. L'informazione su Rhodos si ripresenta nello scritto Pseudo Scymno, mentre per quanto riguarda Elpie, oltre alla notizia ripetuta anche qui da Stefano Bizantino, si ricorda che Vitruvio faceva presente che l'oppidum Salapia vetus era stato costituito da Diomede di ritorno da Troia o, come stilarono alcuni, grazie a un Elpias rodiese.
Da ciò si evince che le tre fondazioni rodie appaiono tali solamente per la tradizione in oggetto. Esse risalgono a prima dell'istituzione delle Olimpiadi (776 a.C.),[5] il che significa almeno al IX secolo a.C. (epoca di fondazioni mitiche piuttosto che concrete). In maniera significativa, tutti e tre gli insediamenti fanno riferimento ad una eponimia o ad un eponimo (Partenope sta al nome di una sirena, Elpie a quello del suo fondatore Elpias e Rhodos si riferisce alla ninfa eponima di Rodi, sua metropolis). Ad ogni modo, neanche in una delle località in oggetto le rivendicazioni rodie trovano attestazioni archeologiche e per questo motivo vengono ritenute delle ideazioni di una tradizione improntata verso una maiorem gloriam di quelle terre.
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Attestazioni archeologiche
Riepilogo
Prospettiva
«Intanto dobbiamo prendere atto di acquisizioni che vengono dai recentissimi scavi di Cuma; si tratta della scoperta di ceramica del Tardo Geometrico I (750-725 a.C.) che ridurrebbe di molto la differenza cronologica tra la fondazione di Pithecusa e quella di Cuma: i lavori sono ancora in corso e il risultato di queste ricerche non può certo dirsi conclusivo, ma sicuramente queste scoperte dovranno in futuro indurci a rivedere la storia degli insediamenti greci nel Golfo di Napoli, cui vanno ad affiancare, come vedremo nelle pagine seguenti, anche gli straordinari rinvenimenti a Napoli-Pizzofalcone»
I ritrovamenti archeologici di Partenope consistono in una porzione di necropoli del VII secolo a.C., riscoperta in via Giovanni Nicotera nel 1949, ed in due gruppi di materiali di abitato. Il primo gruppo fu rinvenuto, all'inizio del Novecento, in vico Pallonetto a Santa Lucia (datato tra la fine dell'VIII-inizi del VII e i primi decenni del V secolo a.C.),[N 12] mentre il secondo gruppo fu rinvenuto in piazza Santa Maria degli Angeli nel 2011 (ben 4852 frammenti,[22] datati prevalentemente tra la fine dell'VIII e il primo quarto del V secolo a.C.).[19] Da quest'ultimo scavo provengono anche reperti di ceramica geometrica, probabilmente di fabbrica pithecusana, datati tra il 750 e il 720 a.C.. A ciò si aggiunge il dato (uno skyphos del Tardo Geometrico I di importazione euboica)[12] che proviene dalla zona portuale ai piedi del Castel Nuovo.[11] Tali ritrovamenti indicano che Partenope sia nata pressocché contemporaneamente alla fondazione di Cuma stessa, forse già nel Tardo Geometrico I, ma al momento il campione disponibile è troppo limitato per giungere a conclusioni certe.[12][23][N 13]
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Miti e leggende su Partenope
Riepilogo
Prospettiva

Nell'Alessandra di Licofrone, Partenope e le sue sorelle (Leucosia e Ligea) morirono per l'insensibilità di Ulisse alla magia del loro canto essendosi esse gettate nel mare che ne trasportò, in vari luoghi, i corpi. Partenope giunse sul luogo dove sarebbe sorta Neapolis.
Apollonio Rodio riferisce che Orfeo, traversando il Mediterraneo, trasse la lira e cantò meglio di loro per impedire ai propri commilitoni di cadere vittime dell'inganno delle sirene che si mutarono in rocce; solo uno dei marinai cercò di seguirle, scampando la morte grazie all'intervento fortuito di Afrodite.[24] L'argonauta, al fine di ringraziare adeguatamente l'eroico atto, decise di fondare un piccolo villaggio laddove fosse sbarcato, chiamandolo col proprio nome «Falero». Secondo un'altra versione l'uomo, mentre era in viaggio verso Cuma con la sua famiglia, perse la figlia Partenope in mare, laonde conservarne imperituro ricordo, conferì alla zona il nome proprio della fanciulla.[25]
Altre tradizioni ricollegano Partenope al rituale di passaggio tra la vita e la morte. Ovidio racconta che le sirene non furono solo dei mostri ma che in principio erano delle ancelle di Persefone, dea degli inferi e che, in seguito al suo rapimento da parte di Plutone, ottennero il permesso di cercarla nelle profondità della terra, cioè nella «ctonia» e che da qui furono ricacciate in mare con l'ordine di ricevere i naviganti sfortunati, di incantarli con melodie incantevoli e di introdurli presso di lei.[26] La tomba della sirena era situata tra le altre ipotesi nei pressi della foce di uno dei rami fluviali del Sebeto, l'antico corso d'acqua che bagnava Neapolis.
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Note
Bibliografia
Voci correlate
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