Mṛtyú (devanāgarī : मृत्यु) è un termine sanscrito vedico che indica la morte e la sua personificazione in un deva.
Mṛtyu deriva dalla radice verbale mṛ che possiede il significato di "morire", e col significato di "morte" è analogo al sanscrito mara.
Mṛtyu è correlato al latino mors, mortis (morte) ma anche al greco antico μoρτός/βρoτός[1] (mortós, mortale), così come all'alto slavo sŭ-mrŭtī e al lituano mirtis, all'avestico mərəta; provenendo dal proto-indoeuropeo *mṛ-ti (morte).
Mṛtyu, nel Ṛgveda, è invocato affinché non colpisca i viventi:
«paraṃ mṛtyo anu parehi panthāṃ yaste sva itaro devayānāt cakṣuṣmate śṛṇvate te bravīmi mā naḥ prajāṃ rīriṣomota vīrān»
«Segui o Morte, il sentiero distante, il sentiero che è tuo, non percorso dagli Dei. Io incarico te, che puoi vedere e sentire: non nuocere ai nostri bambini e ai nostri compagni.»
Ma Mṛtyu va confinato fuori dal villaggio, al di là del terrapieno eretto per separare il mondo dei morti dove venivano collocati i defunti, dal mondo dei vivi, il villaggio:
«imaṃ jīvebhyaḥ paridhiṃ dadhāmi maiṣāṃ nu ghādaparoarthametam śataṃ jīvantu śaradaḥ purūcīrantarmṛtyuṃ dadhatāṃ parvatena»
«Qui io stabilisco un confine per i vivi, che nessuno di loro oltrepassi questo limite. Possano essi vivere per cento lunghi autunni (śarad) e tenere la Morte oltre questa montagna.»
La Morte è sempre e comunque una ripetizione della vita con l'intero corpo riportati integri e pronti di nuovo a vivere e godere[2].
Ma è tuttavia temuta e molte sono le invocazioni nei Veda per scongiurarla[3]:
«śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»
«Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino.»
Nei Brāhmaṇa la Morte appartiene anche agli Dei (Deva) solo Agni ne è immune:
«devāśca vā asurāśca ubhaye prājāpatyāḥ paspṛdhire ta ubhaya evānātmāna āsurmartyā hyāsuranātmā hi martyasteṣūbhayeṣu martyeṣvagnirevāmṛta āsa taṃ ha smobhaye 'mṛtamupajīvanti sa yaṃ ha smaiṣāṃ ghnanti taddha sma vai sa bhavati tato devāḥ tanīyāṃsa iva pariśiśiṣire tercantaḥ śrāmyantaścerurutāsurāntsapatnānmartyānabhibhavemeti ta etadamṛtamagnyādheyaṃ dadṛśuḥ [...] athainaṃ devāḥ antarātmannādadhata ta imamamṛtamantarātmannādhāyāmṛtā bhūtvāstaryām bhūtvā staryānt sapatnān martyān abhyabhavan»
«Gli dèi e gli Asura, entrambi nati da Prajāpati, rivaleggiavano tra loro; gli uni e gli altri erano privi di vita personale, poiché erano mortali, e chi non ha una vita personale è mortale. Fra tutti loro, soltanto Agni era immortale, e di lui, l'immortale, vivevano gli uni e gli altri. Ora chiunque di loro venisse ucciso ritornava in vita. Pertanto gli dèi finirono per diventare più deboli. Continuavano ad adorare, a fare penitenze: Ah! se solo potessimo trionfare sugli Asura, i nostri rivali, che sono mortali! Videro allora questa immortalità, l'installazione rituale del fuoco [...] Lo installarono, in se stessi, nel loro intimo, e quando l'ebbero installato in se stessi, nel loro intimo, divennero immortali, divennero invincibili e trionfarono sui loro rivali soggetti alla sconfitta e mortali.»
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