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saggio di Cartesio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le Meditazioni metafisiche (sottotitolo: Nelle quali sono dimostrate l'esistenza di Dio e la distinzione reale tra l'anima e il corpo dell'uomo), scritte da René Descartes (1596 - 1650) e pubblicate per la prima volta in latino col titolo Meditationes de prima philosophia nel 1641[1], espandono il sistema filosofico cartesiano, ampliando la prima formulazione che ne era stata fatta nel Discorso sul metodo (1637).
Nel 1647 Louis Charles d'Albert de Luynes pubblicò una traduzione francese, riveduta da Descartes, col titolo Méditations métaphysiques.
L'opera, che si apre con una lettera "Al Decano e ai Dottori della sacra Facoltà di teologia di Parigi, sapientissimi e illustrissimi", procede con una prefazione per il lettore ed un compendio delle sei meditazioni, ognuna delle quali sarà riferita alla precedente come se si fosse compiuta “ieri”:
L'ampliamento del pensiero espresso nel Discorso sul metodo porta nelle Meditazioni a quella che può essere considerata una nuova originale versione del cogito ergo sum che viene, in un certo senso, ribaltato in "Sum ergo cogito".[2]
Nel Discorso sul metodo (1637) Cartesio grazie al dubbio scopre, nel quarto capoverso, il "primo principio" fondamento di tutto il suo pensiero: «io penso, dunque sono» («je pense, donc je suis») ossia nella formulazione latina più precisa: «Ego cogito, ergo sum, sive existo», «Io penso, dunque sono, ossia esisto»[3]
Questo primo principio è indubitabilmente vero: se, infatti, noi ne dubitassimo non faremmo altro che pensare poiché il dubbio «è un caso particolare del pensiero»[4] che riconferma il "cogito ergo sum" (se dubito, penso e se penso, sono, esisto). Ma se penso, questo pensiero deve pur far capo a qualcosa cioè a me stesso: se penso, devo pur essere qualcosa. Un'affermazione questa così evidente che nessuno scetticismo e neppure un ipotetico "genio maligno" può scalfire:
«Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa.[5]»
Se ora analizziamo l'espressione "penso dunque sono" vediamo che vi sono due giudizi "io penso" e "io sono" uniti dalla congiunzione "dunque". Ma cosa vuol dire "pensare"?
«Col nome di pensiero io comprendo tutto ciò che è talmente in noi, che ne abbiamo immediatamente conoscenza. Così tutte le operazioni della volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione e dei sensi, sono dei pensieri. Ma io ho aggiunto immediatamente, per escludere le cose che seguono e dipendono dai nostri pensieri: per esempio, il movimento volontario ha, sì, in verità, la volontà per suo principio, ma di per se stesso, tuttavia, non è un pensiero.[6]»
Quindi Cartesio comprende nel pensiero le operazioni dei sensi e questo comporta che nel cogito, pensiero ed essere coincidono.
Così si può sostenere
«sol ch’io avessi cessato di pensare... non avrei avuto nessuna ragione per credere di essere esistito[7]»
«mentre volevo pensare che tutto fosse falso, era necessario che io, che lo pensavo, fossi qualcosa[8]»
La verità evidente del "cogito" quindi fa capire come all'idea che l'io ha di se stesso, come cosa pensante, corrisponde la sua reale esistenza:
«intendo con grande chiarezza che per pensare bisogna essere[9]»
Una coincidenza però che non vuol dire identità: l'essere dell'io precede infatti, ontologicamente, come esistenza, il pensare, anche se, dal punto di vista conoscitivo, gnoseologicamente, è attraverso il pensare (il dubitare) che si conosce l'io.
Il pensare è da intendere, allora, come l'attributo essenziale dell'io. È stato osservato a questo riguardo che:
«...nel contesto generale della concezione cartesiana, scopriamo sempre un preminente significato ontologico che in ogni caso privilegia la "sostanza", l'"essere" nei confronti del pensare che di per se stesso non può concepirsi se non come un attributo, un modo, una facoltà della sostanza.[10]»
Si potrebbe però obiettare che Cartesio esprime nella formula del cogito un "ergo" che fa pensare a un sillogismo, nel quale il "sum", l'"io sono", rappresenterebbe la conclusione; sarebbe allora erroneo nella formula ribaltata "sum ergo cogito" trasformare il sum in una premessa. Ma lo stesso Cartesio chiarisce che:
«Ma quando ci accorgiamo di essere delle cose pensanti, è questa una nozione prima, che non è tratta da nessun sillogismo; e quando qualcuno dice: Io penso, dunque sono o esisto, non deduce la sua esistenza dal suo pensiero per forza di sillogismo, ma come cosa conosciuta per sé la vede con una semplice intuizione della mente. Il che è reso manifesto da questo: che, se la deducesse per mezzo del sillogismo, egli avrebbe dovuto conoscere prima [la] premessa maggiore.[11]»
Vale a dire che in realtà per il "cogito ergo sum" si tratta solo di un'intuizione e non di un ragionamento dimostrativo vero e proprio: infatti, come spiega Cartesio stesso, il significato dell'ergo da lui usato differisce da quello assunto dal vocabolo in questione nei sillogismi; il suo non è un ragionamento che parte da premesse per arrivare a concludere qualcosa perché questo richiederebbe un preventivo accertamento della veridicità delle premesse. L'ergo qui allora va inteso con un valore connettivo e non dimostrativo: quasi una sorta di esclamazione per sottolineare la scoperta appena fatta.[12]
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