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XII canto dell'Inferno, cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il canto dodicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel primo girone del settimo cerchio, sul fiume Flegetonte, ove sono puniti i violenti contro il prossimo; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
«Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d’inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de’ tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume.»
Dante e Virgilio si erano fermati un attimo prima di entrare nel fosso del basso Inferno, giusto il tempo per abituarsi all'afrore e spiegare la struttura dell'Inferno. All'inizio di questo canto essi riprendono il cammino e si affacciano su una frana, che a Dante ricorda un'analoga "ruina" che "l'Adice percosse" nei pressi di Trento, che in genere si indica con i Lavini di Marco, vicino a Rovereto, riprendendo un passo di Alberto Magno (De meteoris III, 6) che probabilmente fece da ispirazione per Dante, piuttosto che un'esperienza diretta nei luoghi, improbabile per i primi anni d'esilio durante i quali venne scritto l'Inferno. Il poeta nota come, per quanto scosceso, sia possibile scenderlo.
Una nuova interpretazione identifica la "ruina" con la frana di Calliano, più vicina a Trento e al fiume Adige («Zengio Ross» in prossimità di Castel Pietra).
Anticipato qualche verso prima (parafrasando, "venimmo all'orlo di una frana dove vedemmo qualcosa che nessuno vorrebbe vedere - ch'ogne vista ne sarebbe schiva" v. 3), il poeta descrive ora "l'infamia di Creta" che sta sulla punta del precipizio ("la rotta lacca" v. 11) e che fu concepita in una falsa vacca. Si tratta del leggendario Minotauro, del quale Dante riprende alcuni tratti della mitologia classica, in particolare attingendo dall'Ars amatoria di Ovidio: Pasifae, moglie di Minosse, per una maledizione di Poseidone si era innamorata di un toro e pur di farsi possedere si fece costruire una giovenca di legno entro la quale essa si nascose concependo il mostro del Minotauro; rinchiuso nel celebre labirinto di Cnosso, fu ucciso da Teseo (Dante lo chiama "Duca d'Atene" in quanto figlio della regina ateniese), con l'aiuto di Arianna.
Qui il mostro è descritto come macinato dalla sua stessa ira, che lo porta a mordersi così come facevano gli iracondi nello Stige. Virgilio lo attizza rivolgendogli parole beffarde: "Che credi che ci sia il Duca d'Atene? Spostati, che qui non c'entra tua sorella, lui (Dante) viene solo per vedere le pene" (parafrasi vv. 16-21). La bestia grottescamente si infuria ancora di più, ma come i tori che saltellano dopo aver ricevuto un colpo mortale, esso non può che sbandare qua e là senza senso, mentre Virgilio suggerisce di sgattaiolare via.
Dalla scarna descrizione dantesca e dall'indeterminatezza della sua fonte (Ovidio) si pensa che Dante lo immaginasse al contrario della figura che conosciamo, cioè con un corpo bovino sormontato da una testa (o un busto) umano.
L'episodio della bestialità irrazionale del Minotauro (la sua "matta bestialitade" citata nel canto precedente) viene messo in contrasto con quello successivo dell'incontro con i Centauri.
Dante non manca di sottolineare come la sua figura pesante di uomo vivo sia la sola a spostare sassi e pietruzze che rotolano giù. Virgilio allora racconta di come questa frana non c'era quando egli scese l'Inferno per la prima volta. Si riferisce a quanto raccontato nel Canto IX, quando descrisse come la maga Erichto lo costrinse a andare a richiamare un'anima nel cerchio più basso dell'Inferno per evocare l'anima di un traditore dal cerchio di Giuda. L'episodio è maturato da Lucano, ma il coinvolgimento di Virgilio è uno stratagemma puramente dantesco, per spiegare la conoscenza dell'Inferno da parte di Virgilio-guida. Se il viaggio immaginario di Virgilio si svolse poco dopo la sua morte (V c. IX v 25), ossia poco dopo il 19 a.C., egli non poteva aver visto la frana, rovinata quando ci fu il terremoto che fece tremare l'inferno dopo la morte di Cristo (33 d.C.). Virgilio dice che lo sentì poco prima che "colui che la gran preda levò a Dite dal cerchio superno", cioè che Cristo (mai nominato nell'Inferno) scendesse al Limbo per portare in cielo i patriarchi dell'Antico Testamento, e che la scossa gli fece pensare che l'amore universale si ritrasformasse in caos, citando le dottrine filosofiche di Empedocle.
Virgilio indica allora a Dante la "riviera di sangue" dove sono bolliti i violenti verso il prossimo. Dante ha un'esclamazione di rammarico verso come l'ira e la cupidigia (qui non intese come incontinenze) spingano ad atti di violenza che vengono così puniti per l'eternità. Descrive poi la fossa del letto del fiume che occupa tutta la piana e che forma un arco, essendo l'inferno fatto da cerchi concentrici, e scorge tra la fine della frana e la riva del fiume una schiera di centauri armati di frecce, che vanno a caccia come erano soliti farlo nel mondo dei vivi.
I due poeti sono a loro volta visti dai centauri, che si avvicinano ai due, archi alla mano, e uno di essi (Nesso) intima loro da lontano: "A quale pena venite voi che scendete il sentiero? Ditelo subito sennò vi colpisco con le frecce!".
Virgilio risponde pronto che vuol parlare sì, ma solo con Chirone, il più savio dei tre, rimproverando a Nesso l'impulsività ("mal fu la voglia tua sì tosta" v. 66), alludendo al suo innamorarsi con subitanea violenza di Deianira, moglie di Ercole, e al suo tentativo di rapirla per cui fu ucciso da quest'ultimo con una freccia avvelenata.
Mentre i due poeti si appressano a loro, Virgilio spiega a Dante chi sono i tre centauri che si sono allontanati dalla schiera: Nesso, che morì per Deianira ma si vendicò da solo (ingannò Deianira a creare una tunica con la sua pelle avvelenata da dare a Ercole che l'aveva assassinato con frecce avvelenate, venendo così a sua volta ucciso dal veleno); Chirone, che allevò ("nodrì") Achille; e Folo, che fu così pieno d'ira (si ubriacò alle nozze tra Ippodamia e Piritoo tentando di rapire la sposa e le altre donne dei Lapiti). Essi, continua Virgilio, corrono attorno al fosso del fiume e colpiscono qualsiasi anima esca dal sangue in misura maggiore a quanto richieda la sua colpa (i diversi livelli di immersione a seconda della colpa saranno spiegati più avanti).
Intanto i due poeti sono davanti a quelle fiere veloci ("snelle" nell'italiano antico stava per rapide) e Chirone prima di parlare si scansa la barba lunga con la cocca di una freccia: un particolare di grande realismo che vivacizza la poesia. Chirone parla allora e dice ai compagni di notare come Dante sia vivo perché muove i ciottoli che calpesta. Virgilio, che era già davanti al centauro, vicino a dove la natura umana e bestiale si uniscono (al ventre), spiega come Dante sia vivo e lui gli debba mostrare "la valle buia" per necessità, non per diletto: "Tale" (qui sta per Beatrice) lo incaricò di accompagnarlo e nessuno dei due è un ladrone (riferendosi ai peccati puniti in questo cerchio). Ma in nome di quella divinità che gli fece iniziare questo viaggio, Virgilio chiede a Chirone di concedere loro uno di questi centauri ai quali sono vicini ("a provo"), perché porti Dante in groppa e faccia guadare il fiume, poiché egli non è uno spirito che può volare. La preoccupazione di Virgilio sta nel bisogno di attraversare il sangue bollente senza che Dante ne venga ferito, e questa volta non sarà usato l'espediente del traghettatore come con l'Acheronte e lo Stige.
Chirone accetta e li affida a Nesso, che accetta di buon grado il compito, sebbene non si accenni più al fatto del salire o scendere dalla groppa del centauro da parte di Dante. L'ubbidienza e la grandezza dei centauri (che in Dante è spesso sinonimo di grandezza morale) è opposta alla cieca bestialità del Minotauro incontrato precedentemente.
Nesso quindi fa da guida ai due pellegrini che iniziano ad attraversare il fiume di sangue bollente: una volta tanto Virgilio resta in disparte ("Questi ti sia or primo, e io secondo", v. 114).
Il grande centauro inizia con l'illustrare delle anime che sono immerse fino "al ciglio", fino agli occhi, i tiranni che fecero violenza sia contro le persone che contro i beni delle persone (la distinzione nei due modi di far violenza al prossimo è alla base della punizione). Qui il centauro indica Alessandro e Dionisio il vecchio, tiranno di Siracusa, che diede anni dolorosi alla Sicilia ("Cicilia"). Su chi sia il tiranno Alessandro non c'è chiarezza: si pensa in genere ad Alessandro di Fere in Tessaglia, citato insieme a Dionisio anche nel Livre du Tresor di Brunetto Latini, ma alcuni hanno pensato anche ad Alessandro Magno, sebbene Dante ne parli con onore nel Convivio e nel De Monarchia, quindi più improbabile.
Successivamente Nesso indica un'anima dai capelli neri, Ezzelino III da Romano, e una dai capelli biondi, Obizzo II d'Este, il quale "per vero" (davvero) fu ucciso dal figliastro: qui Dante sembra voler fare una rivelazione definitiva su voci già all'epoca incerte.
Arrivano poi a quelli sommersi fino alla gola nel bulicame cioè nella sorgente calda (più avanti questo termine verrà usato come nome proprio di una sorgente presso Viterbo). Qui Nesso mostra un'ombra sola in un angolo ("da l'un canto sola"), colui che tagliò in grembo a Dio il cuore che ancora cola (il testo ha " si cola": sussiste il dubbio interpretativo tra il senso di "gronda sangue" perché non vendicato e il senso di "si cola" come "si venera", latinismo dal verbo colere) sul Tamigi. Questa complessa perifrasi indica Guido di Montfort: il 13 marzo 1271 per vendicare il padre ucciso dal Re d'Inghilterra Enrico III, ammazzò con cruenza durante una messa nella chiesa di San Silvestro a Viterbo il cugino del Re, il mite Enrico di Cornovaglia, alla presenza di Filippo III di Francia e di Carlo d'Angiò. Il delitto rimase impunito (forse per la complicità dell'Angiò), e destò grande scandalo; Giovanni Villani ricordava come il cuore di Enrico fosse poi portato in Inghilterra e collocato in un'urna d'oro su una colonna del Ponte di Londra.
Successivamente Dante vede altri che tengono fuori il busto e altri che immergono solo i piedi: come spiegato da Virgilio nel canto precedente, essi sono i predoni e i violenti meno gravi. Non sono puniti qui i ladri, che derubano con la frode invece che con la violenza: ad essi è dedicata una malebolgia.
Nesso spiega poi che come in quel punto la profondità del fiume diminuisce, dall'altra parte poi ridiventa profonda gradualmente, fino ad arrivare dove sono immersi altri tiranni. Lì si trovano Attila, Pirro (probabilmente Pirro Neottolemo, più difficilmente Pirro Re dell'Epiro, lodato nel De Monarchia) e Sesto, probabilmente intendendo Sesto Pompeo.
Inoltre nomina due predoni che "fecero a le strade tanta guerra": Rinieri da Corneto e Rinieri de' Pazzi di Valdarno. Nel frattempo Nesso ha terminato la traversata: senza accennare alla salita/discesa di Dante dalla groppa, si gira e ripassa il guado nella direzione opposta.
Il contrappasso è tagliato sugli assassini e si estende per analogia anche a tutti gli altri peccatori qui puniti: essi che furono desiderosi del sangue altrui, adesso vi giacciono immersi.
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