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L'indipendentismo tibetano è un movimento sociale e politico che si prefigge l'obiettivo di ottenere l'indipendenza del Tibet dalla Repubblica Popolare Cinese, di cui è attualmente soltanto una regione autonoma. Questa corrente ideologica emerse dopo l'annessione da parte della Cina maoista nel 1950 e da sempre deve fare i conti con la repressione attuata dalle autorità di Pechino, che reclamano la propria sovranità sull'intera regione. Fonda le proprie ragioni sulle differenze culturali, linguistiche e ideologiche fra tibetani e cinesi. La storia del Tibet differisce in larga parte da quella sinica, sebbene i due popoli siano entrati in contatto sin da tempi remoti.[1]
La dinastia sino-mongola Yuan governò la regione fino a metà XIV secolo, mentre nel periodo Ming i rapporti con la Cina furono principalmente di carattere diplomatico e cerimoniale, piuttosto che politico. Molto tempo più tardi, nel 1720 l'Esercito dello Stendardo Verde agli ordini della Dinastia Qing invase il Tibet per scacciare via il bellicoso Khanato degli Zungari, composto da guerrieri nomadi di origine mongolica. L'operazione militare fu completata con successo e l'Impero cinese prese il controllo della regione tibetana. I nuovi sovrani affidarono l'amministrazione politica e religiosa del territorio conquistato al Dalai Lama guida spirituale di Lhasa e al Panchen Lama, il quale invece era leader di Shigatse. In contemporanea cominciarono a giungere nella regione numerosi Amban, alti funzionari membri del Gran consiglio imperiale. Nel 1750 si verificò la storica Rivolta di Lhasa, in cui furono assassinati diversi commissari governativi. La causa della ribellione è da ricondursi all'uccisione del principe tibetano Gyurme Namgyal da parte di alcuni amban mancesi. In quel caso le truppe Qing furono in grado di sedare la rivolta e ripristinare la sovranità imperiale sul Tibet.
Nel secolo successivo l'Asia entrò sempre di più nelle mire espansionistiche delle potenze occidentali. La questione fu formalizzata al principio del '900 in seguito alla Spedizione britannica in Tibet, dopo la quale furono ratificati l'Accordo anglo-russo per l'Asia e la Convenzione anglo-cinese per il Tibet. Entrambi i trattati riconoscevano la piena egemonia dell'Impero Qing sulla regione tibetana. La situazione mutò quando nel febbraio del 1910 il XIII Dalai Lama fuggì in esilio nel Raj britannico. Sfruttando la crisi politica che aveva portato al crollo della Dinastia Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina, due anni più tardi il capo spirituale tornò a Lhasa e dichiarò l'indipendenza dello Stato del Tibet. La nuova Cina repubblicana continuava a rivendicare il proprio dominio sulla regione e i rapporti tra i due stati erano pessimi. Tuttavia ci fu una parvenza di conciliazione dopo che nel 1933 una delegazione del Kuomintang fece visita a Lhasa, porgendo le proprie condoglianze per la morte del XIII Dalai Lama.[2]
Dopo la sconfitta nella Guerra civile cinese i nazionalisti di Chiang Kai-shek si rifugiarono a Taiwan, mentre il controllo della Cina continentale finì nelle mani del Partito Comunista Cinese comandato dal suo Grande timoniere Mao Tse Tung, il quale nel 1949 in una gremita Piazza Tienanmen proclamò l'istituzione della Repubblica Popolare Cinese.[3]
Il 1º ottobre del 1950 il governo maoista inviò la propria armata in Tibet con l'intento di occupare la nazione himalayana. Diciotto giorni più tardi l'Esercito Popolare di Liberazione sconfisse le truppe tibetane a Qamdo. Tale evento segnò l'inizio delle trattative che portarono un anno più tardi a stipulare l'Accordo dei 17 punti, che costrinse il governo tibetano ad accettare l'autorità cinese in Tibet, la quale avrebbe comunque garantito libertà religiosa. Il regime comunista formalmente non considerò l'episodio come un atto di conquista, ma si giustificò affermando di aver agito allo scopo di liberare il popolo tibetano dal sistema feudale e teocratico che lo opprimeva. Sebbene ciò la popolazione locale non gradì l'annessione alla Cina e organizzò immediatamente una resistenza popolare, i cui moti insurrezionali culminarono nella Rivolta tibetana del 1959. Nei giorni seguenti la sommossa fu sedata con estrema violenza dal governo di Pechino, decine di migliaia di civili vennero brutalmente uccisi. Il giovane XIV Dalai Lama fuggì da Lhasa e si rifugiò in India dove tutt'ora vive in esilio. Circa 80 000 tibetani lo emularono, fuggendo come profughi nel Sikkim, in Nepal o in Bhutan. In seguito a questa vicenda, l'Accordo dei 17 punti fu definitivamente abolito e il Tibet venne considerato una semplice provincia cinese, priva di alcuna autonomia locale.[4]
Già nel 1961 l'ONU pose la sua attenzione sulla controversia tibetana, promuovendo la causa indipendentista e il diritto all'autodeterminazione del popolo in questione. Tuttavia la Cina non volle rinunciare a quello che considerava parte integrante del suo territorio nazionale e si limitò istituire la Regione autonoma del Tibet, in vigore ancora oggi. In quegli anni la CIA finanziò i guerriglieri tibetani in chiave anticomunista, questo sebbene gli Stati Uniti ufficialmente riconoscessero il Tibet come regione sottoposta all'autorità cinese. I tumulti da parte degli indipendentisti si fecero sempre più pressanti, specie durante la Rivoluzione culturale e sul finire degli anni '80, quando il governo di Pechino fu colpito dalla Protesta di piazza Tienanmen e stabilì la legge marziale per ripristinare l'ordine nel Paese. Intanto il Dalai Lama e il suo governo in esilio hanno continuato a rivendicare la propria sovranità sul Tibet, criticando aspramente le vessazioni attuate dalla Repubblica Popolare, accusata di persecuzione religiosa e pulizia etnica. L'impegno politico per il rispetto dei diritti umani in Cina e nel mondo, con la lotta indipendentista del suo popolo, gli sono valsi il conferimento del Premio Nobel per la pace nel 1989. L'India, che ha per l'appunto offerto rifugio al leader spirituale buddhista, ospita la più grande comunità tibetana all'estero. Malgrado questo le autorità di Nuova Delhi hanno da sempre riconosciuto la supremazia cinese sul Tibet; d'altronde la Cina resta il principale partner commerciale e i due giganti asiatici hanno avviato diverse collaborazioni. Tuttavia i recenti screzi tra i due paesi per l'egemonia economica della regione e le dispute territoriali hanno convinto diversi statisti indiani a fare pressioni sulla Cina per quanto riguarda la questione tibetana.[5]
Le sollecitazioni mondiali riguardo l'indipendenza del Tibet, hanno però scaturito posizioni duramente antisecessioniste presso il governo dello Zhongnanhai e nell'opinione pubblica cinese. Le visite internazionali del Dalai Lama in Europa negli anni 2000 hanno causato forti attriti fra il governo cinese e diversi capi di Stato occidentali, tantoché il Paese del Dragone ha annullato un vertice bilaterale con l'Unione Europea, in forma di protesta. Il continuo flusso migratorio dei cinesi orientali verso ovest ha contribuito a ridurre i tibetani ad una minoranza all'interno del loro stesso territorio, infatti il 55% dei residenti nella regione autonoma appartiene all'etnia han. Per accelerare questo processo di sostituzione etnica sarebbero state adoperate pratiche disdicevoli, come la sterilizzazione forzata delle donne tibetane e l'obbligo per quest'ultime di contrarre matrimonio con uomini provenienti dalla Cina propria.[6] Tale politica migratoria e razziale ha il preciso scopo di sottomettere e rimpiazzare la popolazione autoctona, in maniera analoga con quanto avviene agli uiguri nello Xinjiang, sottoposti a un autentico genocidio culturale attraverso l'internamento nei campi di rieducazione. Per tale ragione sempre più spesso la Cina fa uso della parola Xizang (西藏), lemma che in lingua mandarina sostituisce la parola "Tibet". Dal 2009 a oggi sono stati oltre 150 i casi di autoimmolazione fra i tibetani, cittadini religiosi e laici che si danno fuoco per protestare contro le angherie patite dal loro popolo. Questo metodo di lotta nonviolenta fu già utilizzato in Asia decenni prima dal monaco buddista Thích Quảng Đức per contestare le violenze commesse durante la Guerra del Vietnam. Il governo della Cina ha espresso ferree condanne nei confronti dei separatisti tibetani e del Dalai Lama, considerati estremisti religiosi colpevoli di non voler rinunciare all'indipendenza del Tibet, facendo a tal proposito propaganda per traviare le menti della popolazione e istigarla così a ribellarsi contro il Partito comunista, lo Stato e i valori del socialismo cinese.[7]
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