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saggio di Giovanni Pascoli Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il fanciullino è un'opera di Giovanni Pascoli, divisa in 20 capitoli, pubblicata per la prima volta nel 1897.
Il fanciullino | |
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Autore | Giovanni Pascoli |
1ª ed. originale | 1897 |
Genere | prosa |
Lingua originale | italiano |
Il testo più noto è quello contenuto nel libro Giovanni Pascoli: Pensieri e discorsi, Bologna, 1907 (l'ultimo pubblicato dal poeta). Una nota dell'autore a fine libro riporta che «i primi capitoli di questo dialogo furono pubblicati dieci anni fa, nel Marzocco, rivista culturale d'inizio Novecento».[1]
L'intera opera è stata raccolta la prima volta in volume in Giovanni Pascoli: Miei pensieri di varia umanità, Messina, 1903, edito da Vincenzo Muglia.
Il fanciullino è il testo in cui Pascoli esprime nel modo più ampio la propria concezione poetica. Una vera e propria riflessione sulla poesia. Egli afferma, riprendendo un'immagine platonica:[2]
«È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi [...] ma lagrime ancora e tripudi suoi.
Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia.»
È dunque una voce nascosta nel profondo di ciascun uomo, che si pone in contatto con il mondo attraverso l'immaginazione e la sensibilità (tipiche dei poeti). In tal modo, scopre aspetti nuovi e misteriosi, che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione». Come un nuovo Adamo, «mette il nome a tutto ciò che vede e sente», ovvero è in grado di conoscere in modo autentico ciò che lo circonda, meglio di quanto possa fare l'uomo adulto, col suo raziocinio. Infatti, continua Pascoli, «l'uomo dei nostri tempi sa più che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che si risale, molto più e sempre più. I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo». La voce interiore del fanciullino dà vita alla poesia, nella quale dunque il linguaggio cercherà di esprimere un mondo che si lascia afferrare dall'intuizione e non dal ragionamento.
La poesia, secondo Pascoli, non deve proporsi uno scopo morale o educativo; tuttavia egli afferma: «la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale», perché fa riconoscere la bellezza anche in cose umili e vicine, placando «l'instancabile desiderio» e appagando un'ansia di felicità destinata altrimenti a restare vana. Virgilio stesso viene indicato come il poeta che «insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta fra le classi e la guerra tra i popoli». Pascoli mostra così le sue convinzioni di socialista umanitario e utopico.
Il "fanciullino" di cui parla Pascoli è dunque una metafora nella quale confluiscono il valore conoscitivo, il linguaggio, la moralità della poesia.
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