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Grido di dolore

celebre frase di un discorso di Vittorio Emanuele Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

Grido di dolore
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Grido di dolore è la celebre frase contenuta in un discorso pronunciato il 10 gennaio 1859 da Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, al parlamento di Torino, subito dopo gli Accordi di Plombières. Il discorso e il conseguente arruolamento di volontari fu considerato provocatorio dall'Austria, che dette inizio alla Seconda guerra d'indipendenza italiana. Con un "grido di dolore" era iniziata nel 1810 la Guerra d'indipendenza del Messico.

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Litografia di Vittorio Emanuele II, con le vesti cerimoniali durante la sua incoronazione.
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Precedenti

Riepilogo
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Nel luglio 1858, Cavour si recò a Plombières, in Francia, per incontrare in segreto Napoleone III. Da quel colloquio scaturirono accordi verbali che, ufficializzati nell’alleanza sardo-francese del gennaio 1859, prevedevano la cessione di Savoia e Nizza alla Francia in cambio dell’appoggio militare francese, da attuarsi solo in caso di un attacco austriaco. Napoleone III acconsentiva alla costituzione di un Regno dell’Alta Italia, riservandosi però di mantenere sotto la propria influenza l’Italia centrale e meridionale. A Plombières venne inoltre deciso il matrimonio tra il cugino dell’imperatore, Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele.

Nonostante le cautele adottate, la notizia dell’incontro trapelò. A rendere evidente la volontà di Napoleone III contribuì la sua stessa uscita, quando il 1º gennaio 1859, durante il ricevimento di capodanno alle Tuileries si rivolse all’ambasciatore austriaco con una frase che lasciava presagire le sue intenzioni:

«Sono spiacente che i nostri rapporti non siano più buoni come nel passato; tuttavia, vi prego di comunicare all'Imperatore che i miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono mutati.[1]»
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Il discorso

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Subito dopo l'incontro di Plombières, Cavour redasse il testo del discorso da sottoporre al re, perché lo pronunciasse di fronte al parlamento. Prima, però, il primo ministro ne inviò una copia a Napoleone III. Questi, ritenendolo poco energico, pensò di sostituire l'ultima frase con il riferimento al celebre «grido di dolore»[2]. Alle 11 del mattino del 10 gennaio 1859 il re prese la parola davanti alle due Camere riunite a Palazzo Madama.

«Signori Senatori, Signori Deputati,

La nuova Legislatura, inaugurata or fa un anno, non ha fallito alle speranze del Paese, alla mia aspettazione. Mediante il suo illuminato e leale concorso, Noi abbiamo superato le difficoltà della politica interna ed estera, rendendo così più saldi quei larghi principii di nazionalità e di progresso sui quali riposano le nostre libere istituzioni. Proseguendo nella medesima via, porterete questo anno nuovi miglioramenti nei vari rami della legislazione e della pubblica amministrazione. Nella scorsa Sessione vi furono presentati alcuni progetti intorno all'amministrazione della giustizia. Riprendendone l'interrotto esame, confido che in questa verrà provveduto al riordinamento della magistratura, alla istituzione delle Corti d'Assise ed alla revisione del Codice di procedura. Sarete di nuovo chiamati a deliberare intorno alla riforma dell'amministrazione dei Comuni e delle Provincie. Il vivissimo desiderio ch'essa desta vi sarà di eccitamento a dedicarvi le speciali vostre cure. Vi saranno proposte alcune modificazioni alla legge sulla Guardia Nazionale, affinchè, serbate intatte le basi di questa nobile istituzione, siano introdotti in essa quei miglioramenti suggeriti dall'esperienza, atti a rendere la sua azione più efficace in tutti i tempi. La crisi commerciale, da cui non andò immune il nostro Paese e la calamità che colpì ripetutamente la principale nostra industria scemarono i proventi dello Stato; ci tolsero di vedere fin d'ora realizzate le concepite speranze di un compiuto pareggio tra le spese e le entrate pubbliche. Ciò non v'impedirà di conciliare, nell'esame del futuro Bilancio, i bisogni dello Stato coi principii di severa economia.

Signori Senatori, Signori Deputati,

L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno; ciò non di meno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, su l'amore della libertà e della patria. Il nostro Paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch'esso inspira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacchè, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi. Forti per: la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza.[3]»

Il riferimento implicito era rivolto al Lombardo-Veneto - facente parte dell'Impero d'Austria - nel quale andava crescendo l'agitazione dell'opinione pubblica patriottica. Prudentemente, ai primi di gennaio, il governo austriaco rafforzò la 2ª Armata nel nord Italia con l'invio del 3º Corpo[4].

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Conseguenze

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In Piemonte accorsero subito numerosi volontari, convinti dell’imminenza della guerra, e si cominciò a concentrare le truppe sul confine lombardo, lungo il Ticino.

Ai primi di maggio 1859 Torino poteva contare su 63.000 uomini sotto le armi. Vittorio Emanuele II assunse il comando dell’esercito e affidò la luogotenenza del regno e la difesa della città di Torino al cugino Eugenio di Savoia Carignano.

Preoccupata dal riarmo sabaudo, l’Austria, su sollecitazione anche dei governi di Londra e Pietroburgo, presentò un ultimatum a Vittorio Emanuele II, che lo respinse immediatamente. L’imperatore Francesco Giuseppe ordinò allora di varcare il Ticino per puntare su Torino, prima che i francesi potessero intervenire. Il tentativo fallì grazie all’allagamento delle risaie vercellesi.

Con il sostegno francese, il corpo d’armata austriaco fu sconfitto a Palestro e Magenta, e l’8 giugno 1859 le truppe franco-piemontesi entrarono a Milano.

Intanto i volontari guidati da Giuseppe Garibaldi occuparono rapidamente Como, Bergamo, Varese e Brescia, avanzando poi verso il Trentino. Nel frattempo le forze asburgiche si ritirarono da tutta la Lombardia. Decisiva risultò la battaglia di battaglia di Solferino e San Martino il 24 giugno.

La guerra si concluse con l’Armistizio di Villafranca, che pose le basi per l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.

Note

Bibliografia

Voci correlate

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