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artista francese Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Gina Pane (Biarritz, 24 maggio 1939 – Parigi, 5 marzo 1990) è stata una performance artist francese, nata in Francia e vissuta in Italia.
Nata da padre italiano e madre austriaca, trascorse parte della sua infanzia a Torino. Suo padre era un uomo violento, che era solito picchiare la moglie davanti alla figlia: questo aspetto avrebbe influenzato molto l'arte di Gina e i temi che ella avrebbe affrontato.[1]
Successivamente Gina Pane si trasferì a Parigi per studiare pittura e litografia all’Académie des beaux-arts,[2] dal 1961 al 1966, e all’Ateliers d'art sacré. Trascorse la sua adolescenza nel periodo delle grandi ribellioni studentesche del 1968, nonché durante la seconda ondata del movimento femminista, a cui si unì. Dopo aver concluso gli studi insegnò presso l’Ecole des Beaux-arts di Le Mans, tra il 1975 e il 1990, e condusse degli workshop sulle performance al Centre Georges Pompidou di Parigi, tra il 1978 e 1979.
Gina Pane morì prematuramente di cancro nel 1990, a soli 51 anni.[3]
Durante gli ultimi anni della sua vita, Gina Pane ebbe una lunga relazione con Anne Marchand, sua collaboratrice per la realizzazione del cortometraggio Solitrac (1968).
«Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il mio sangue, è per amore vostro: l’altro. Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo scoprire sia la propria debolezza, sia la tragica ed impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà. Inoltre, questo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società… il corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro.[4]»
Fu una sfalciata poliedrica: riteneva ogni espressione artistica un mezzo per esplorare la sua dimensione interiore. Leitmotiv della sua ricerca artistica è la costante indagine sulla relazione del corpo con la natura, con il mondo e con il pubblico; parte da una dimensione interiore che oscilla tra il mondo ancestrale e il mondo religioso e arriva ad offrire immagini stridenti e di forte impatto; le sue opere sono una denuncia alle ingiustizie sociali causate dal capitalismo, militarismo, dalla condizione subalterna delle donne e dalla violenza contro di loro.[5] Infatti in molteplici sue performance, Gina Pane era solita ferirsi la carne per rievocare il dolore provocato da tali aspetti della società, e specialmente il dolore provato dalle donne nella società patriarcale in cui viviamo.[6]
Prima di diventare una figura rilevante nell'ambito della body art degli anni Settanta, tra 1962 e 1967 realizzò numerosi dipinti geometrici (foto) Archiviato il 17 giugno 2020 in Internet Archive. vicini alle esplorazioni di Bruce Nauman e di Robert Morris, che anticipavano le tematiche dei suoi lavori successivi. Structures affirmées è la serie di sculture monocromatiche realizzate tra 1965 e 1967.[7]
La sua carriera artistica si suddivide in tre fasi.
Tra il 1968 e il 1970 l’artista si concentra sul rapporto fra corpo e natura circostante; il paesaggio e gli ambienti all'aperto non hanno funzione di palcoscenico o luogo di esibizione ma sono parte integrante e fondamentale della sua espressione. Tra l'altro, nella fine degli anni '60 Pane rimase profondamente turbata dal conservatorismo del governo francese e dalla violenza della Guerra del Vietnam.[8]
In questa fase la ricerca artistica diventa più articolata, il corpo diventa attivo di fronte al pubblico attraverso una serie di performance. L’artista infatti mette alla prova il proprio corpo come se fosse una cassa di risonanza della società, lo ferisce per oltrepassare la dimensione materiale; il dolore è un’esperienza umana condivisibile universalmente, dunque il tutto si condensa in un dialogo tra uomo e natura guidato dall’amore verso il prossimo.
Les Partitions, da fine anni Settanta, rappresentano la fase finale della sua creazione artistica: il ruolo del corpo e la sua relazione con il mondo circostante continuano ad essere temi della ricerca che però non si svolge più attraverso le performance. La rappresentazione delle ferite in questo caso diventa simbolica: le opere sono composte da fotografie delle sue performance passate, oggetti già presenti nelle sue azioni che possono esser interpretati, nella dimensione cattolica, come reliquie e oggetti del martirio. Non a caso Les Partitions è un titolo che allude ai corpi smembrati dei martiri, creando un senso di disgiunzione e separazione dalla vita.
«Ciò che mi interessa nel corpo del santo è la sua capacità di svuotarsi, per poi riempirsi, il suo ‘non funzionamento’ rispetto a una realtà di consumo. È il rapporto tra la fragilità di quella carne – il santo è là, ed è un corpo, un uomo – e la forza immateriale che lo abita. Soprattutto mi interessa il cammino, la strada da compiere per arrivare a questo. Mi interessa capire come san Francesco ha potuto essere quello che è stato. Non mi interessa certo fare dell’agiografia. Io colloco questo lavoro sui santi nella società attuale, nella vita di ogni giorno»
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