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pittore e scultore italo-brasiliano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Ernesto De Fiori (Roma, 12 dicembre 1884 – San Paolo, 24 aprile 1945) è stato uno scultore, pittore e architetto italiano naturalizzato tedesco.
Figlio di Roberto, giornalista e di Maria Unger, austriaca-tedesca,[1] Ernesto De Fiori si interessò precocemente alle arti figurative e iniziò a studiare a Monaco di Baviera sotto la guida di Otto Greiner.[1] Rientrato a Roma nelle sue opere d'esordio evidenziò elementi espressionistici.[2]
Ben presto, dopo un soggiorno parigino si avvicinò alla scultura grazie agli insegnamenti di Hermann Haller e svolse la parte centrale della sua carriera proprio in Germania.[1]
Nelle prime sculture quali la Figura femminile accovacciata, la Figura femminile con le mani sui fianchi (1911) si ispirò ad Aristide Maillol e alle sculture di Pierre-Auguste Renoir e alle nervose semplificazioni di Edgar Degas,[1] ma contemporaneamente De Fiori si avvicinò alla plastica cubista, interessato soprattutto alla forma pura.[2]
Nel 1914 partecipò al Salon des Indépendants a Parigi e alla prima Esposizione libera futurista alla galleria Sprovieri di Roma.[2]
Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale nel primo dopoguerra ottenne successi e consensi partecipando a molte esposizioni in Svizzera, in Germania, in Belgio, caratterizzandosi per una certa peculiarità e originalità, impregnata da una base espressionista ed antinaturalista, come mostrato nelle teste-ritratto Karina-Ari (1922), Jack Dempsey (Vienna, Staatsgalerie), Beniamino Gigli (1925) e La signora Workman (1926). Nel 1936, abbandonò la Germania nazista per raggiungere in Brasile la madre e il fratello maggiore a San Paolo.[2][1]
In Brasile si dedicò prevalentemente alla pittura espressionista in contrasto con l'astrattismo, come dimostrò nella serie San Giorgio e il drago, rappresentante della dicotomia tra il bene e il male, e della desiderata sconfitta del nazismo.[2]
Il suo nobile ideale plastico-espressivo, di concentrata essenzialità è condensato nelle sue stesse parole: «voglio scolpire l'uomo non turbato dagli avvenimenti, in perfetto riposo mentale, in atteggiamento olimpico senza l'agitazione effimera dell'esistenza quotidiana; non è la sofferenza che eleva l'uomo, ma il modo di sopportarla».[1]
Il suo classicismo, gracile e carico di senso umano, mostrato attraverso semplificazioni derivate anche dagli elementi cubistici, fu molto soggettivo e personale, come i suoi nudi efebici e i suoi pensosi ritratti, immagini di divinità decadute, già fuori di un perduto paradiso classicista.[1]
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