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L'emotivismo è il complesso delle teorie etiche che, nel XX secolo, soprattutto presso i filosofi anglosassoni, sostengono che i giudizi morali non hanno un valore cognitivo, ma che le emozioni e i sentimenti che li accompagnano determinino un incentivo condizionante ad agire moralmente.[1]
Motivi emotivisti sono stati precedentemente identificati in Thomas Hobbes che sosteneva l'imperatività del linguaggio alla base del bene e del male come espressione di passioni: «Il linguaggio del desiderio e dell'avversione è imperativo, come fa questo, astieniti da quello» [2] e che vedeva nella passioni la forza della legge:
«...la definizione di regola, [...] per Hobbes è un modello d'azione (espressione di dover essere, ma non di passioni) obbligatorio o meno in base alla situazione pragmatica. La nozione di comando invece chiama in causa una volontà e quella di legge una volontà a cui si è obbligati ad obbedire. Quindi il discorso imperativo (ma non già quello normativo in genere) è semanticamente un'espressione di passioni e la legge si distingue dal comando solo in base ad una distinzione pragmatica.[3]»
L'emotivismo è stato visto anche nell'etica di David Hume, dove i giudizi morali esprimono un sentimento attivo [4]. Da qui nasceva l'accusa di Immanuel Kant di psicologismo a questa concezione. Per il filosofo tedesco infatti la morale era irriducibile al sentimento, che non avrebbe mai potuto essere confuso con la moralità. Per lui il sentimento è qualcosa di impulsivo, debole, incostante, su cui la morale non può fare affidamento: «una certa dolcezza d'animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile, perché rivela una certa partecipazione alle vicende altrui [...] ma questo sentimento bonario è debole e cieco.» [5]
L'etica emotivista è ricomparsa nella filosofia contemporanea in quei filosofi che, rifacendosi al principio di verificazione del positivismo logico, sostengono che non si possano attribuire valori di vero o falso ai giudizi morali in quanto questi non possono essere verificati sul piano empirico.
Questa concezione è propria di Alfred Jules Ayer, che sostiene [6] che se i giudizi morali si accompagnano a condizioni emotive soggettive diventa difficile stabilire ciò che è bene e ciò che non lo è sulla base di argomenti razionali.[7]
Anche per Charles Leslie Stevenson [8] i giudizi morali devono essere ricondotti a cause emotive personali ma, più che nei sentimenti, la morale trova la sua origine nella sfera psicologica e i contrastanti atteggiamenti morali possono spiegarsi come quelli che si verificano nell'ambito del gusto.[9]
Pur influenzato dalle teorie emotiviste dei due autori citati, Richard Mervyn Hare, rifacendosi anche a Kant, sostiene [10] nella sua teoria morale, da lui chiamata del "prescrittivismo universale", la necessità di un preciso linguaggio morale nella definizione dei giudizi morali che devono essere sottoposti alle leggi della logica:
«Il contributo di un filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide.[11]»
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