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Il Cippo di Abercio o Epigrafe di Abercio, risalente all'ultimo quarto del II secolo (170-200),[1] è una delle più antiche epigrafi cristiane di contenuto eucaristico, e fornisce informazioni sull'ambiente cristiano e sulle caratteristiche dogmatiche e liturgiche del II secolo.
Nel 1882 l'archeologo William M. Ramsay scoprì un'iscrizione greca inserita in un pilastro posto dinanzi alla moschea presso l'antica Ierapoli (o Geropoli) in Frigia (l'odierna Kelendres).[2] L'iscrizione faceva parte dell'ara sepolcrale di un certo Alexandros figlio di Antonio e riproduceva l'inizio e la fine dell'epitaffio del vescovo di Ierapoli Abercio. L'anno successivo, 1883, lo stesso Ramsay rinvenne due frammenti della vera epigrafe di Abercio[3] e l'iscrizione venne così interamente confermata.[4]
Il reperto fu donato a papa Leone XIII nel 1892, in occasione del suo giubileo, e fu conservato nella Galleria lapidaria del Museo Lateranense di Roma fino al 1963; oggi si trova nel Museo Pio Cristiano, mentre l'iscrizione di Alexandros si trova ai Musei archeologici di Istanbul.[4]
L'iscrizione si conserva per circa un terzo, ma originariamente era incisa in tre registri, per un totale di 22 versi. Si è potuta ricostruire quasi completamente grazie all'aiuto dell'epigrafe di Alexandros (per i versi 1-3 e 20-22) e grazie a numerosi codici manoscritti che hanno tramandato una vita greca di Abercio.[5]
L'epigrafe è il testamento spirituale di Abercio, in cui egli riassume tutta la sua esperienza di fede cristiana attraverso metafore ed espressioni simboliche dense di significato dogmatico.
Si riporta la traduzione del testo dell'iscrizione:[6]
«Cittadino di una eletta città, mi sono fatto questo monumento da vivo per avere qui una degna sepoltura per il mio corpo, io di nome Abercio, discepolo del casto pastore che pasce greggi di pecore per monti e per piani; egli ha grandi occhi che guardano dall'alto dovunque. Egli mi insegnò le scritture degne di fede; egli mi mandò a Roma a contemplare la reggia e vedere una regina dalle vesti e dalle calzature d'oro; io vidi colà un popolo che porta un fulgido sigillo. Visitai anche la pianura della Siria e tutte le sue città e, oltre l'Eufrate, Nisibi e dovunque trovai confratelli..., avendo Paolo con me, e la Fede mi guidò dovunque e mi dette per cibo un Pesce (derivato) dalla fonte grandissimo, puro, che la casta Vergine concepì e che (la Fede) suole porgere a mangiare ogni giorno ai suoi fedeli amici, avendo un eccellente vino che suole donare col pane. Io Abercio ho fatto scrivere queste cose qui, in mia presenza, avendo settantadue anni. Chiunque comprende quel che dico e pensa come me, preghi per Abercio. Che nessuno ponga un altro nel mio sepolcro, altrimenti pagherà 2000 monete d'oro all'erario dei Romani e 1000 alla mia diletta patria.»
Abercio utilizza un linguaggio criptico e fa riferimento a usi propri della sua epoca; ecco un'interpretazione dell'epigrafe:[7]
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