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piena sicurezza della correttezza di qualcosa Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La certezza (dal latino certus, metatesi di cretus, participio di cerno, "vaglio, risolvo, discerno") è lo stato, di solito effetto di un'evidenza, in cui l'individuo acquisisce la convinzione soggettiva, la persuasione, di aver raggiunto la sicura conoscenza di un fatto oggettivo.[1].
Vari filosofi hanno cercato di determinare le caratteristiche oggettive per cui un dato, se vero, possa dirsi certo: per questo aspetto il concetto di certezza nella storia della filosofia si accomuna a quello di verità e al metodo di valutazione degli elementi che la contraddistinguerebbero.
Nel pensiero antico si assiste alla prevalenza degli aspetti oggettivi propri della certezza: per Platone e Aristotele la certezza infatti coincide con la stabilità; solo la permanenza nel tempo delle caratteristiche di un oggetto può assicurarci della certezza dell'essere oggettivo; delle cose mutevoli, invece, se ne può dedurre solo la probabilità[2].
Aristotele risolve il concetto di certezza nell'ambito del pensiero logico per cui solo in un ragionamento apodittico, la cui negazione è assurda o contraddittoria, vi è la garanzia di una certezza fondata oggettivamente. In questo lo Stagirita si oppone[3] alla convinzione dei sofisti per i quali tramite il fascino della parola si poteva indurre nell'ascoltatore qualsivoglia certezza che l'abilità dell'oratore volesse produrre[4].
Nell'uso comune del termine "certezza" si ha una nozione soggettiva che coincide parzialmente con il concetto di assenso per cui, volontariamente, l'intelletto, tramite un giudizio, aderisce alla percezione di un oggetto. Questa doppia caratteristica, percettiva e volontaria, permane nel medioevo quando la concezione della fede come verità rivelata e il riconoscimento dell'autorità dei Padri della Chiesa che l'hanno interpretata, segnano, all'inizio della Scolastica, la definizione della certezza nel suo aspetto soggettivo[5]. Questa coesistenza di sensibilità e volontà viene ripresa da San Tommaso per operare una distinzione tra
«Si giunge così alla filosofia moderna in senso stretto, che inizia con Cartesius. Qui possiamo dire d'essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine gridare “Terra!”. Cartesius segna un nuovo inizio in tutti i campi. Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione cominciano con lui.[7]»
Cartesio ha cercato di individuare i principi fondamentali che possono essere conosciuti con assoluta certezza. Per farlo si è servito di un metodo chiamato scetticismo metodologico: rifiutare come falsa ogni idea che può essere revocata in dubbio. Con la prima regola del metodo[8], quella dell'evidenza coincidono verità e certezza, un concetto che ora unifica gli aspetti soggettivi e oggettivi. Con l'evidenza infatti si ha insieme chiarezza e distinzione delle idee[9] e l'assenso soggettivo a esse.
L'identità cartesiana di "verità" e "certezza" prosegue in John Locke che l'amplia aggiungendovi la distinzione tra «certezza della verità», quando l'espressione linguistica è adeguata al contenuto ideale, e «certezza della conoscenza» che si ha quando vi sia accordo o disaccordo tra le sole idee[10].
La stessa identità è ripresa da G.W.Leibniz che la riferisce al concetto di «certezza morale» che si ha quando sia sostenuta dalle prove delle verità religiose:
«...esservi spesso un po' di confusione nelle espressioni di coloro che propongono l'una contro l'altra filosofia e teologia, o fede e o ragione:... I misteri si possono spiegare quel tanto che occorre per crederli; ma non li si può capire, né fare intendere come si producano... Del pari non ci è possibile provare i misteri con la ragione, perché tutto ciò che si può provare a priori, o per mezzo della pura ragione, si può capire. Non ci rimane dunque, dopo aver prestato fede ai misteri in base alle prove della verità della religione (che si chiamano motivi di credibilità)...[che sostenere che esse] non possono dare se non una certezza morale[11]»
La coincidenza di "verità" e "certezza" viene abbandonata da Giambattista Vico il quale riferisce la verità all'esistenza di un fatto reale (verum et ipsum factum convertuntur). «La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero» mentre «la coscienza del certo» dipende dalla «autorità dell'umano arbitrio» determinato dal «sensus communis generis humani» cioè «un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano.»[12].
Per Immanuel Kant la certezza riguarda l'aspetto oggettivo, la "convinzione" quello soggettivo della scienza intesa come tale da offrire una sufficiente garanzia di verità di ciò che si crede escludendo da essa le domande assolute universali che trovano risposte solo come postulati della ragion pratica. Infatti
«Nella scienza della natura si danno infinite congetture, nei cui riguardi non è possibile alcuna speranza di certezza in quanto i fenomeni della natura costituiscono oggetti che ci vengono dati indipendentemente dai nostri concetti e la cui chiave non si trova dunque in noi e nel nostro pensiero puro, ma fuori di noi; ed è a causa di ciò che sovente non si riesce a trovarla, con la conseguente impossibilità di una spiegazione sicura.[13]»
La certezza dunque si potrà raggiungere solo nell'ambito dei postulati della ragion pratica alla cui base non vi è un "so" ma un "voglio": «voglio che esista Dio, voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza nel mondo intelligibile, voglio che la mia durata sia senza fine.»
«Questa è dunque un'esigenza in un senso assolutamente necessario, e giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita, ma come postulato nel rispetto pratico; [...] l'uomo onesto può ben dire: io voglio che vi sia un Dio; che la mia esistenza in questo mondo, anche fuori della connessione naturale, sia ancora un'esistenza in un mondo puro dell'intelletto; e finalmente, anche che la mia durata sia senza fine; io persisto in ciò e non mi lascio togliere questa fede; essendo questo l'unico caso in cui il mio interesse, che io non posso trascurare in niente, determina inevitabilmente il mio giudizio, senza badare alle sofisticherie, per quanto poco io sia capace di rispondervi o di contrapporne delle più speciose.[14]»
Per G.W.F.Hegel la certezza sensibile appartiene a una forma di sapere immediato che assicura solamente della esistenza di un io di fronte a un oggetto percepito al di fuori di ogni consapevolezza soggettiva. Tuttavia è in quest'atto che nasce la certezza sensibile della differenza tra il singolo io e la singola cosa e quindi la percezione che questo «immediato puro rapporto» tra l'io-soggetto e la cosa-oggetto comporta comunque una mediazione[15].
Nel XVII secolo nasce il concetto di certezza "scientifica" nell'ambito della verifica sperimentale dove si opera una sintesi pratica tra la certezza sensibile e quella appartenente alla logica-matematica.
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.[16]»
La certezza nasce quindi da
«Il vincolo stabilito da Galileo tra osservazione e dimostrazione … le esperienze fatte mediante i sensi e le dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – era un vincolo reciproco, non unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua "assoluta certezza oggettiva" come quella della natura senza appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa nel suo punto d’ arrivo.[17]»
L'epistemologia contemporanea esclude dalla sua ricerca la possibilità per la scienza di giungere a certezze assolute e universali e ritiene che i criteri di verità vadano riferiti a parametri contingenti relativi ai sistemi adottati per attivarli. La certezza quindi è qualcosa di accettabile per convenzione che non ha più i caratteri soggettivi né quelli universalmente oggettivi a cui ci si riferiva in passato ma è qualcosa che varia in base al mutamento dei criteri adottati per ottenerla.
Il filosofo, teologo e fisico britannico John Polkinghorne a proposito della certezza scientifica ritiene che comunque la scienza possa evidenziare delle certezze negative:
«Non ritengo che si possa parlare di risultati scientifici dotati di certezza assoluta. La scienza è un continuo stato di fluire intellettuale. Questa apertura ai cambiamenti ha portato gli scettici ad affermare che gli uomini di scienza sono guidati dal dubbio. Ma solo un delicato bilancio tra fiducia e domanda permette il progredire delle scoperte.[...] Come afferma Einstein: La conoscenza teorica profonda deve essere liberamente inventata. [...] occorre un salto di immaginazione per una scoperta scientifica profonda. [...] Ogni teoria necessita di un punto di partenza, un nucleo di base, che può essere "tamponato" grazie al contributo dei dati sperimentali. Così anche se la teoria di Newton è stata modificata grazie alle scoperte di Einstein, non possiamo non riconoscere che il nucleo centrale rimane valido perlomeno per quanto riguarda i corpi di grandi dimensioni. Tutte le verità possono essere messe in discussione, ma nel formulare nuove teorie non è possibile tralasciare il bagaglio culturale già presente. In questo modo anche se la scienza non può raggiungere una certezza positiva, certamente, a differenza di quanto ritiene la cultura popolare, può raggiungere una certezza negativa.[18]»
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