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tipo di acqua Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
L'acqua virtuale è una concezione riferita alla quantità di acqua dolce utilizzata nella produzione e nella commercializzazione di alimenti e beni di consumo.[1] La definizione più generale tiene conto anche dell'acqua necessaria per l'erogazione di servizi: secondo tale definizione, l'acqua virtuale è definibile come "il volume d'acqua necessario per produrre una merce o un servizio"[2].
Il primo ad introdurre il concetto di acqua virtuale è stato nel 1993 il professore John Anthony Allan[2][3] del King's College London e della School of Oriental and African Studies, che per questo ha ricevuto, nel 2008, lo Stockholm Water Prize[4] da parte dello Stockholm International Water Institute. Nei suoi studi Allan stimò, ad esempio, che per produrre una tazza di caffè sono necessari 140 litri di acqua, utilizzati per la coltivazione e il trasporto del caffè. Egli fu quindi il primo ad intuire che l'importazione e l'esportazione di beni comportasse di fatto un consumo di acqua e che questo sia così elevato da potere essere paragonato in termini numerici al quantitativo di acqua necessaria durante la coltivazione.
In seguito il direttore del Water Footprint Network, e Ashok Chapagain dell'Università di Twente hanno introdotto il concetto, strettamente correlato[2], di impronta idrica (water footprint), con cui calcolare il consumo d'acqua di un prodotto con un modello analogo a quello dell'impronta ecologica, utilizzato per indicare il "consumo" di risorse terriere.[5]
L'impronta idrica si scompone in tre contributi:
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