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divinità mesopotamica Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Šamaš (Shamash nella resa anglosassone) in accadico e Utu in sumerico era nella mitologia mesopotamica il dio del sole che con il dio della luna Sin (sumerico: Nanna) e Ištar (sumerico: Inanna), dea dell'amore, faceva parte di una triade astrale di divinità. Šamaš era figlio di Sin e la sua consorte paredra originariamente era Aya, successivamente identificata con Ištar.[1]
Šamaš, come divinità solare, esercitava il potere della luce sulle tenebre e sul male. In questa veste fu venerato come dio della giustizia e dell'equità ed era il giudice sia degli dei sia degli uomini. Secondo la leggenda, il re babilonese Hammurabi ricevette il suo codice delle leggi da Šamaš.[1]
Gli emblemi di Šamaš sono il disco solare con all'interno una stella a quattro punte, da cui si dipartono fasci di raggi, e lo stendardo il quale reca lo stesso disco infitto su un'asta e che è spesso tenuto da un uomo-toro.[2] Di notte Šamaš diveniva giudice degli inferi.[1]
Gli effetti negativi del sole (calore ardente, fuoco degli incendi) erano invece attribuiti alla divinità ctonia Nergal.[3]
Il culto principale di Šamaš si praticava negli É-babbar (o Ebabbar, 'casa dello splendore'), templi a lui dedicati. Due erano gli Ebabbar mesopotamici: l'Ebabbar di Sippar e l'Ebabbar di Larsa. Babbar ('splendore' o 'splendente') era anche un attributo sumerico della divinità, con il quale veniva a volte invocato.[4][5][2]
Nella dodicesima tavola del poema di Gilgameš Šamaš viene invocato per aprire il passaggio verso l'Oltretomba e permettere ai due amici, Gilgameš ed Enkidu, di riabbracciarsi. In un'altra versione dello stesso mito è l'invocazione a Šamaš che causa l'apertura, ai piedi di Gilgameš, di una voragine nella quale perde pukku e mikku, due oggetti simbolici di grande valore, probabilmente un tamburo e una bacchetta, strumenti musicali di carattere sacro nell'antica Mesopotamia.[6]
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