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capo di Stato e di governo degli Stati Uniti d'America Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il Presidente degli Stati Uniti d'America (in inglese: President of the United States of America; sigla: POTUS)[1] è il capo di Stato e il capo del governo degli Stati Uniti d'America. Il Presidente, di nomina elettiva, è responsabile delle funzioni esecutive del governo federale ed è anche il comandante in capo delle Forze Armate statunitensi.
Presidente degli Stati Uniti d'America | |
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Sigillo presidenziale | |
L'attuale Presidente Joe Biden posa per il suo ritratto ufficiale alla Casa Bianca, a Washington D.C. | |
Nome originale | President of the United States of America |
Sigla | POTUS |
Stato | Stati Uniti |
Organizzazione | |
Tipo | Capo di Stato e del governo |
In carica | Joe Biden (D) |
da | 20 gennaio 2021 |
Istituito | 17 settembre 1787 |
da | Costituzione degli Stati Uniti |
Operativo dal | 1789 |
Nominato da | Collegio elettorale degli Stati Uniti d'America o, in parità, Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d'America |
Ultima elezione | 3 novembre 2020 |
Durata mandato | 4 anni, rinnovabile una volta |
Bilancio | 400.000 $ annui |
Sede | Washington D.C., Casa Bianca |
Indirizzo | 1600 Pennsylvania Avenue |
Sito web | whitehouse.gov |
L'elezione del Presidente avviene in via indiretta: gli elettori di ogni Stato eleggono 538 grandi elettori, i quali a loro volta (riuniti nel Collegio elettorale, ma ognuno nella capitale dello Stato per cui sono stati eletti) votano a scrutinio segreto il Presidente e il Vicepresidente che lo ha accompagnato nella campagna elettorale (formando il cosiddetto ticket). La carica dura quattro anni e il XXII emendamento alla Costituzione (approvato nel 1951) vieta a chiunque di esercitare la carica presidenziale per più di due mandati. Sede e residenza ufficiale del presidente è la Casa Bianca a Washington. Il presidente dispone di un suo staff e usufruisce di numerosi servizi.
Due Boeing VC-25 (versione appositamente modificata dell'aereo di linea Boeing 747-200B) servono per il trasporto a lunga distanza. Con il presidente a bordo, l'aereo viene denominato Air Force One. Lo stipendio del presidente ammonta a 400.000 dollari all'anno, esclusi altri benefici, e gli viene corrisposto annualmente. Dalla promulgazione della Costituzione (elaborata il 17 settembre 1787 e ratificata il 21 giugno 1788) 45 persone si sono succedute alla carica presidenziale. Il numero dei mandati è però di 46: la differenza trova il suo motivo in quanto Grover Cleveland, eletto nel 1884, sconfitto nel 1888 ed eletto nuovamente nel 1892, ha ricoperto due presidenze non consecutive (la 22ª e la 24ª, rispettivamente).
Il Presidente attualmente in carica è il democratico Joe Biden, eletto il 3 novembre 2020 ed entrato in carica il successivo 20 gennaio. Le prossime elezioni presidenziali si terranno il 5 novembre 2024, mentre il giuramento e l'inizio ufficiale del mandato per il prossimo Presidente sono fissati al 20 gennaio 2025.
Il 4 luglio 1776, a Filadelfia (Pennsylvania), nell'ultima sessione del secondo congresso continentale, le tredici colonie britanniche proclamarono ufficialmente la propria dichiarazione di indipendenza dall'Impero britannico. Le colonie, divenute dei veri e propri Stati sovrani indipendenti l'uno dall'altro,[2] riconobbero però la necessità di coordinarsi per fronteggiare la prevedibile reazione degli inglesi.[3]
Volendo prioritariamente evitare qualsiasi ipotesi monarchica, il 15 novembre 1777 (dopo 16 mesi di negoziati) i nuovi Stati indipendenti elaborarono, in seno al Secondo Congresso Continentale, gli Articoli della Confederazione: con questo documento le ex-colonie formarono una nuova alleanza federale, la "Confederazione".[2] Gli Articoli, tuttavia, esclusero la possibilità per il Secondo Congresso di potere promulgare leggi valevoli per tutti i cittadini degli Stati della Confederazione: ogni singolo Stato mantenne il diritto di promulgare proprie leggi in qualsiasi materia.[3] Un assetto politico federalista che tuttavia traeva origine dall'esperienza coloniale: come il governo centrale britannico (Corona e Parlamento) controllava i dominion oltremare, apparve nelle ex-colonie l'intenzione di creare un organo in grado di coordinare i singoli Stati uniti nella Confederazione.[3] E, nonostante si escludesse (come si è già detto) qualsiasi ipotesi monarchica, alcune delle prerogative reali vennero attribuite al Congresso, come la possibilità di emanare la dichiarazione di guerra o di ricevere gli ambasciatori esteri. Gli Articoli della Confederazione entrarono ufficialmente in vigore soltanto dal 1º marzo 1781, quando il Maryland fu l'ultimo Stato a ratificarli.
Con il Trattato di Parigi del 1783 finì la guerra d'indipendenza americana e Giorgio III del Regno Unito riconobbe gli Stati Uniti d'America come Stato sovrano e indipendente. Conclusa la questione coloniale, alla Confederazione rimanevano però da risolvere enormi problemi al suo interno: i confini a ovest erano deboli e minacciati; le rispettive economie dei singoli Stati si trovavano in condizioni miserevoli dopo lo sforzo bellico; numerose dispute commerciali fra diversi Stati minacciavano fin da subito di sfaldare la neonata Confederazione; data la necessità di importare una grande quantità di beni, enormi quantità di valuta se ne andavano all'estero; le linee commerciali che collegavano le ex-colonie con il bacino del Mediterraneo erano perennemente minacciate dalle flotte dei pirati nordafricani; il debito con diversi Paesi stranieri per finanziare la propria guerra di indipendenza doveva essere saldato per evitare interessi altissimi. L'insoddisfazione della popolazione era evidente.[2]
Nel 1785, a seguito della risoluzione positiva della Conferenza di Mount Vernon (tenutasi presso la stessa abitazione di George Washington) con cui la Virginia e il Maryland trovarono un accordo sull'utilizzo delle acque comuni, la stessa Virginia propose la convocazione di una conferenza commerciale fra tutti gli Stati confederati per risolvere una volta per tutte eventuali dispute che potessero minare il futuro della Confederazione. La conferenza venne convocata ad Annapolis, nel Maryland, nel settembre 1786. Tuttavia la conferenza fallì nel raggiungere il suo obiettivo a causa dei reciproci sospetti da parte dei delegati, una parte dei quali decise comunque di proporre una convention da tenersi la primavera successiva a Filadelfia, con lo scopo di apportare modifiche agli Articoli della Confederazione. La proposta venne accolta piuttosto freddamente dalla maggior parte degli Stati, ma l'opera di convincimento da parte dei delegati della Virginia, James Madison e Edmund Randolph, nei confronti di George Washington di rappresentare la stessa Virginia alla riunione di Philadelphia, e la ribellione di Shays nel Massachusetts (sedata dopo qualche mese senza che il Congresso potesse intervenire) convinse gli Stati più restii della necessità di una riforma della Confederazione e ad accettare la proposta.[2][4]
La riunione, che passò alla storia come convenzione di Philadelphia, si tenne dal 25 maggio al 17 settembre 1787 con la sola assenza dei delegati del Rhode Island, che si rifiutarono di intervenire. La Convenzione decise immediatamente di riformare completamente le istituzioni confederali e i delegati presenti depositarono le loro proposte in merito al nuovo assetto costituzionale. Oltre ad accettare la proposta del Connecticut di istituire un parlamento bicamerale[2] la Convenzione accolse l'idea dello Stato di New York: costituire un organo governativo forte e unitario con potere di veto sulle decisioni delle Camere e che dovesse rimanere in carica per tre anni.[2] La Convenzione riuscì quindi a promulgare la Costituzione degli Stati Uniti d'America il 17 settembre 1787, ratificata il 21 giugno 1788.
L'articolo 2 della Costituzione elenca con precisione i requisiti per potere ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti d'America:
A questi tre requisiti, la Costituzione e alcuni emendamenti specificano alcune cause di ineleggibilità. Innanzitutto il XXII emendamento (ratificato il 21 marzo 1947) stabilisce il divieto di nominare un ex-presidente che ha già tenuto la carica per due mandati; inoltre nessun vicepresidente che abbia rivestito la carica presidenziale per più di due anni, essendo automaticamente subentrato, per qualsiasi motivo, a un altro presidente eletto, potrà essere eletto presidente per più di una volta.[5][6]
Un'altra causa di ineleggibilità (prevista dall'articolo 1 della Costituzione) riguarda il caso di un ex-presidente condannato con la particolare procedura dell'impeachment al quale il Senato ha comminato la sanzione accessoria del divieto di rivestire in futuro cariche pubbliche federali, fra cui quella di Presidente. Infine il XIV emendamento (approvato il 9 luglio 1868) vieta la nomina presidenziale a una persona che, dopo avere giurato sulla Costituzione, si è poi ribellato contro gli Stati Uniti. In quest'ultimo caso, però, la causa di ineleggibilità viene meno qualora i due terzi sia del Senato sia della Camera dei Rappresentanti si siano espressi a favore della sua eleggibilità.
Ogni quattro anni le elezioni presidenziali si svolgono il "martedì successivo al primo lunedì di novembre", questo per evitare che l'elezione si debba svolgere il primo novembre, giorno festivo negli USA, quando questo cade di martedì. Nello stesso giorno sono concentrate anche altre consultazioni, riferite a ogni livello di governo. A livello federale si svolgono assieme a quelle per il presidente le elezioni per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e quelle per la scelta di un terzo dei membri del Senato.
Ogni Stato esprime un numero variabile di membri del Collegio Elettorale (I "Grandi Elettori" o gli "Elettori" per antonomasia), equivalente al numero dei suoi rappresentanti al Congresso.
Il sistema elettorale per la scelta dei Grandi Elettori è rimesso alla legislazione statale. Fin dai primi periodi della storia statunitense, comunque, si manifestò l'orientamento di fare eleggere i Grandi Elettori direttamente dai cittadini. Alcuni stati in origine preferivano fare selezionare gli Elettori dai membri dei Legislativi. La Carolina del Sud mantenne questo sistema fino alla Guerra di Secessione, quando ormai tutti gli altri stati erano passati all'elezione diretta.
Sulle schede compaiono solo i nomi del candidato alla presidenza e di quello alla vice presidenza dei vari partiti (i ticket), ma il voto assegnato a un ticket va formalmente a un numero di candidati al Collegio Elettorale scelti dal partito che appoggia il Ticket stesso. Nella stragrande maggioranza degli Stati, il ticket che conquista il maggior numero di preferenze si vede assegnare tutti i voti elettorali dello Stato. Il Maine e il Nebraska adottano un sistema diverso, assegnando due voti al ticket che vince a livello statale e uno ai vincitori nei vari collegi elettorali per il Congresso. In ogni caso, i Grandi Elettori si riuniscono nelle capitali dei rispettivi Stati il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre per votare. Viene formata una "lista di tutti coloro che hanno avuto voti e del numero di voti raccolti da ciascuno": questa la formula adottata dall'articolo II, sezione 3 della Costituzione, ma ormai si tratta chiaramente di una formalità, in quanto gli Elettori daranno la preferenza ai candidati alla presidenza e alla vicepresidenza sostenuti dal loro partito. Il risultato del voto è inviato al Presidente del Senato, ossia il vicepresidente in carica.
In presenza della Camera e del Senato, il vicepresidente, nella qualità di presidente del Senato, apre le liste e si procede al conteggio dei voti. I risultati dei singoli stati vengono letti a voce alta alla presenza dei congressisti in seduta comune. I membri del Congresso possono contestare il conteggio dei voti di ogni stato, purché la contestazione sia supportata da almeno un membro di entrambe le camere. In realtà, ciò avviene molto di rado.
Nel caso in cui nessun candidato ricevesse la maggioranza del voto espresso dal Collegio Elettorale, il Presidente sarebbe eletto dalla Camera dei Rappresentanti tra i tre candidati più votati, mentre il vicepresidente verrebbe scelto dal Senato. In questo caso, la Camera adotta un sistema di votazione particolare, in cui ogni delegazione statale sceglie al suo interno un candidato e ha diritto a un solo voto. Si tratta di un sistema che penalizza (o meglio, penalizzerebbe, in quanto questa eventualità è piuttosto remota) gli stati maggiori. Il Senato, in cui ogni stato ha una delegazione identica, vota invece normalmente.
Come stabilisce il XX emendamento l'inizio del mandato presidenziale scatta alle ore 12:00 del 20 gennaio successivo alle elezioni e da questo momento iniziano a decorrere ambo i mandati di Presidente e del Vicepresidente. Prima di assumere ufficialmente i pieni poteri, dopo la cerimonia di insediamento del presidente degli Stati Uniti d'America il neoeletto deve pronunciare un giuramento le cui parole sono precisamente indicate dall'articolo 2 della carta costituzionale:
«Io solennemente giuro (o affermo) che svolgerò fedelmente l'ufficio di Presidente degli Stati Uniti, e che preserverò, proteggerò e difenderò al massimo delle mie capacità la Costituzione degli Stati Uniti.»
La durata degli incarichi presidenziale e vicepresidenziale è di quattro anni, con la possibilità di essere rieletti soltanto per un altro mandato; tuttavia quest'ultimo limite venne introdotto ufficialmente (prima era solo una tradizione consolidata) soltanto nel 1951, con l'approvazione del XXII emendamento.
George Washington, primo Presidente della storia degli Stati Uniti, introdusse l'uso del limite di due mandati anche se non costituzionalmente previsto. I suoi successori seguirono questa regola non scritta, ma già a cavallo tra XIX e XX secolo, i sostenitori di Ulysses Grant e di Theodore Roosevelt li spinsero a candidarsi per un terzo mandato presidenziale, tuttavia i loro tentativi fallirono. Nel 1940, Franklin Delano Roosevelt, nonostante si fosse inizialmente rifiutato ufficialmente di candidarsi a un terzo mandato, accettò di buon grado che il suo partito lo "scegliesse" come candidato e, a seguito della campagna elettorale, riuscì a essere il primo Presidente degli Stati Uniti a essere eletto per un terzo mandato. Dopo l'entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale nel 1941, gli elettori statunitensi scelsero nuovamente Roosevelt come loro Presidente per un altro mandato nel 1944. Roosevelt morì il 12 aprile 1945, dopo appena 82 giorni dall'inizio del quarto mandato presidenziale.
Nel 1951 venne dunque approvato il XXII emendamento, con la conseguente adozione del limite di due mandati. Harry Truman, il Presidente all'epoca in carica, venne esentato da questo limite e infatti decise di candidarsi per quello che sarebbe stato il suo terzo mandato, ma in seguito ritirò la sua candidatura nel 1952.
La Costituzione statunitense stabilisce che il presidente è investito del potere esecutivo a livello federale (articolo II, sezione 1) e che a lui fanno capo le forze armate federali e le milizie dei singoli Stati, ove chiamate al servizio della Federazione. Per l'adempimento delle sue alte prerogative in tema di sicurezza e politica estera, quotidianamente riceve dall'intelligence un rapporto, denominato President's Daily Brief.
Sempre l'articolo II, dedicato al potere esecutivo, enumera altri poteri esclusivi del presidente, come quelli di convocare una o entrambe le Camere del Congresso, ricevere Ministri e ambasciatori, raccomandare al Congresso le misure che ritiene necessarie e opportune, di nominare consiglieri, di accordare la grazia e di sospendere le pene per i reati puniti a livello federale.
La prassi e le interpretazioni della Corte Suprema hanno finito per convalidare nei secoli una serie di Implied Powers, poteri impliciti dell'Esecutivo Federale,[7] divenuto un organo sempre più dinamico e attivo con poteri crescenti di decisione, impulso e stimolo oltre al basilare take care that the laws be faithfully executed, previsto nella Section III (articolo 2), estendendolo alla potestà legislativa.
L'esercizio di altri poteri presidenziali è invece coordinato con l'attività del Congresso. È il caso della promulgazione delle leggi approvate da entrambe le camere, che include la possibilità di esercitare il diritto di veto (articolo I, sezione 7). In molte tipologie di atto la collaborazione con il potere legislativo si sostanzia nel cosiddetto "advice and consent" del Senato. Il presidente può così nominare diversi alti funzionari (inclusi i segretari di dipartimento, corrispondenti grosso modo ai ministri di un governo parlamentare), gli ambasciatori e i giudici federali, ma tali nomine devono essere scrutinate e approvate dal Senato (a maggioranza semplice). I due terzi dei voti espressi dai senatori sono invece necessari per approvare i trattati firmati dal presidente. Tuttavia il Presidente può firmare gli atti di politica estera e sottrarli al voto del Senato qualificandoli come Executive Agreement (per esempio gli accordi di Yalta e di Potsdam durante la seconda guerra mondiale), nel solo caso in cui non sia necessaria una legge per la concreta realizzazione dell'accordo internazionale.
Se la Costituzione non attribuisce al Presidente il potere di iniziativa legislativa, il potere esecutivo ha acquisito il potere di adottare atti con forza di legge, in virtù di una delega del Congresso o nelle situazioni di crisi. Alcune leggi affermano una delega senza un termine temporale, attribuendo di fatto al Presidente un potere di iniziativa legislativa su specifiche materie: per esempio con il Budget and Accounting Act (Pub.L. 67-13, 42 Stat. 20, 1921), il Presidente è autorizzato a presentare ogni anno una proposta di bilancio federale.
Annualmente il Presidente presenta al Congresso lo State of the Union Speech, un programma legislativo, che viene attuato durante l'anno da progetti di legge elaborati dall'amministrazione e poi formalmente presentati al Congresso da parlamentari che sostengono il Presidente.
Il Presidente ha ulteriori Emergency Powers. Può dichiarare lo Stato di Emergenza in base al National Emergency Act (50 U.S.C. 1601-1651) del 1976, a seguito del quale il Congresso ha facoltà di votare uno Statutory Grant of Power che delega senza limiti temporali al Presidente atti propri del potere legislativo: la limitazione è riferita a una scadenza al compimento, oppure a una materia determinata. Il Congresso ha anche facoltà di negare l'attivazione della delega, ma dal 1979 a oggi ciò non è mai avvenuto.
Il Presidente è il Capo dello Stato, il simbolo dell'unità della nazione. Egli garantisce la continuità e la permanenza dello Stato. Il Presidente giura di "preservare, proteggere e difendere la Costituzione".
Il presidente è il simbolo dell'unità nazionale e la sua voce è unica: sia verso l'interno (importanza del Presidente in occasione di tragedie nazionali) sia verso l'esterno (all'estero è il portavoce di posizioni condivise dall'intero popolo americano).
Il primo potere che la Costituzione affida al Presidente è quello di porre il veto. In forza della Presentment Clause, si richiede che qualunque bill (legge) approvato dal Congresso debba essere presentato al Presidente prima che esso possa avere "forza di legge". Il Presidente entro dieci giorni (senza contare le domeniche) ha così tre opzioni:
Nel 1996 il Congresso ha tentato di incrementare il potere di veto del Presidente con il Line Item Veto Act, una norma con la quale si consentiva al Presidente di porre il veto anche soltanto su alcune parti del bill (in particolare per non fare approvare determinati capitoli di spesa inseriti nei testi legislativi). Tuttavia nel 1998 la Corte Suprema, con la sentenza Clinton v. City of New York, ha dichiarato la norma incostituzionale.[8]
L'articolo 1 della Costituzione contiene la cosiddetta Ineligibility Clause: il Presidente non può contemporaneamente esercitare la carica presidenziale ed essere un membro del Congresso.[9] Conseguenza di questo divieto è, come ovvio, che il Presidente non può direttamente avanzare proposte di alcuna legge federale. Tuttavia è indubbio che il Presidente abbia la possibilità di influenzare e promuovere l'approvazione di nuove norme in via indiretta, soprattutto nel caso in cui in uno o in entrambi i rami del Congresso sussista una maggioranza del suo stesso partito.
Accade spesso, infatti, che lo stesso Presidente o un membro del suo esecutivo rediga un disegno di legge per poi chiedere ad alcuni senatori o rappresentanti di promuovere quello stesso disegno all'esame del Congresso. Ma anche in altre occasioni il Presidente fa sentire il suo peso politico nel processo legislativo: basti pensare ai suoi interventi al Congresso come nel caso del "discorso sullo stato dell'Unione", dove spesso si spinge ad avanzare proposte legislative che, sempre nel caso in cui sia il suo partito a detenere la maggioranza nelle due assemblee legislative, non faticano a trovare la via dell'approvazione. Infatti, accanto al Messaggio, viene inserito in allegato un elenco di disegni di legge, questi verranno eventualmente presentati al Congresso dai singoli parlamentari che appoggiano il Presidente.
Negli ultimi anni sono state avanzate diverse critiche a questa profonda incisività presidenziale nel processo legislativo a danno del Congresso, che si vedrebbe privato delle sue prerogative legislative. Inoltre il Presidente, come vertice del potere esecutivo, si trova a capo di una vasta serie di agenzie governative che hanno a loro volta la possibilità di emanare direttive, le quali sono soltanto in parte controllabili dal Congresso. Il repubblicano Eric Cantor ha dichiarato esplicitamente che il Presidente sarebbe in grado "virtualmente" di nominare "un esercito di zar, ognuno dei quali non controllabile dal Congresso e tuttavia in grado di attuare politiche di rilievo in nome della Casa Bianca".[10] Altre critiche sono state rivolte a quei presidenti che hanno fatto un uso estensivo dei cosiddetti signing statements, cioè quelle dichiarazioni aggiunte alla firma presidenziale di un disegno di legge approvato dal Congresso con le quali il Presidente si esprime indicando il modo in cui verrà resa esecutiva la norma o perlomeno interpretata dalla sua amministrazione.[11] Una pratica che è stata largamente utilizzata da George W. Bush e che ha continuato a utilizzare anche Barack Obama, nonostante fosse stata giudicata incostituzionale dalla American Bar Association, una delle più importanti associazioni di avvocati degli Stati Uniti e che fissa gli standard di insegnamento delle facoltà di legge statunitensi.
In ultima battuta va menzionato il potere del Presidente di convocare una o entrambe le camere del Congresso e, nel caso in cui non vi fosse accordo sulla data precisa da parte delle stesse, il Presidente può fissare autoritativamente una data.
Avendo la Costituzione affidatogli la funzione esecutiva, il Presidente è posto a capo di tutta la struttura amministrativa del governo federale, essendo dalla stessa Costituzione obbligato a "preoccuparsi che le leggi vengano eseguite in buona fede".[12] Una macchina amministrativa imponente, se la stessa Casa Bianca dichiara di contare più di 4 milioni di dipendenti pubblici (compresi, comunque, i componenti delle Forze Armate).[13]
Nella sua funzione di capo dell'amministrazione federale, il Presidente si avvale della collaborazione del Gabinetto, una sorta di "consiglio dei ministri" composto dai "segretari" a capo dei diversi Dipartimenti che compongono i vari "rami" dell'amministrazione. Oltre al Gabinetto, il Presidente è coadiuvato anche da una serie di consiglieri, uffici, rappresentanti diplomatici e dal Vicepresidente, tutti riuniti nell'Ufficio esecutivo del Presidente, struttura alla cui guida si pone il Capo di Gabinetto della Casa Bianca, che ha il compito di dirigere tutto il personale alle dirette dipendenze del Presidente (oltre che essere sempre un uomo di fiducia del Presidente stesso).
Come capo della "macchina burocratica" degli Stati Uniti, spetta al Presidente anche la nomina dei funzionari pubblici, e a un Presidente appena eletto può capitare di nominarne fino a 6 000. Alcune categorie di funzionari pubblici, comunque, non possono essere nominati unilateralmente dal Presidente: la nomina degli ambasciatori, dei membri del Gabinetto presidenziale e di altri funzionari federali diventa effettiva soltanto successivamente a una consultazione e approvazione a maggioranza del Senato, a cui segue la nomina presidenziale con l'apposizione dell'advice and consent del Senato nell'atto di nomina.
Al potere di nominare i funzionari pubblici non corrisponde però automaticamente il potere di licenziarli. Da sempre questo tema è oggetto di una forte discussione politica. Se da una parte si sostiene che, in linea generale, il Presidente abbia la possibilità di licenziare a proprio piacimento i funzionari esecutivi,[14][15] d'altra parte occorre sottolineare che la legge consente al Congresso di interdire o, perlomeno, di limitare il Presidente nel licenziare, per esempio, i componenti delle agenzie di controllo indipendenti e altri funzionari esecutivi di rango inferiore.[16][17]
Un'altra espressione evidente dell'autorità del Presidente come capo dell'amministrazione è il cosiddetto "ordine esecutivo" (executive order), che indirizza le politiche esecutive delle agenzie del governo degli Stati Uniti.
Gli ordini esecutivi hanno forza di legge quando vengono emessi da un'autorità legislativa che delega questo potere all'esecutivo: il Congresso può demandare con una legge delega (delegated legislation) una parte dei propri poteri.
Probabilmente il potere più grande che ha il Presidente è quello di essere al comando delle Forze Armate degli Stati Uniti come loro comandante in capo. Inoltre, anche se la Costituzione affida la proclamazione della dichiarazione di guerra al Congresso, è il Presidente che ha la responsabilità ultima di dirigere e disporre le forze militari. Attualmente il comando operativo delle Forze Armate (che appartengono al Dipartimento della Difesa) è normalmente esercitato dal Presidente nei confronti dello Unified Combatant Command (UCC) grazie al tramite del Segretario della Difesa e secondo le linee-guida contenute nel piano annuale a questo scopo predisposto, lo Unified Command Plan (UCP).[18][19][20]
Ma il potere presidenziale come comandante in capo delle Forze Armate subisce dei limiti costituzionali. Nel n. 69 de Il Federalista, Alexander Hamilton ebbe modo di puntualizzare che il potere di dichiarare guerra dovrebbe essere disgiunto da quello della direzione suprema dell'esercito e della marina[21] Infatti è soltanto il Congresso che, in forza della War Powers Resolution, può autorizzare l'impiego di truppe militari più a lungo di 60 giorni. Tuttavia questa autorizzazione non ha un iter ufficiale preciso, per cui la sua previsione si è resa, se non inutile,[22] almeno superflua.[23]
Comunque sia, il controllo del Congresso si estende anche grazie al suo controllo sull'approvazione delle spese militari e sul loro impiego. Anche se in epoca più recente è sempre stato il Presidente ad avviare la procedura per la dichiarazione di guerra,[24][25] diversi studiosi si sono espressi criticamente nei confronti della presidenza statunitense, accusandola in più occasioni di avere iniziato dei conflitti armati senza avere ottenuto la necessaria dichiarazione di guerra, come nei casi dell'invasione di Panama nel 1903 di Theodore Roosevelt,[24] della guerra di Corea,[24] della guerra in Vietnam,[24] e delle invasioni di Grenada del 1983[26] e di Panama nel 1990.[27] Nel 1973 il Congresso, superando un veto presidenziale, approvò una legge per la quale il Presidente non può deliberatamente disporre delle forze armate senza la previa, obbligatoria consultazione con i leader del Congresso e qualora essi non siano d'accordo, ritirare seduta stante le truppe. Tale legge è stata disattesa dai presidenti nella prassi, senza che la Corte Suprema si sia mai pronunciata in merito.
In tempo di pace, inoltre, il Presidente ha la facoltà di utilizzare il suo potere per mantenere o ripristinare l'ordine in uno Stato federato, su richiesta del governo locale. Questo è avvenuto, per esempio, in Arkansas nel 1957, nel Mississippi nel 1962 e nell'Alabama nel 1963. Ragioni analoghe sono alla base delle iniziative di George W. Bush nella lotta contro il terrorismo che ha portato, estendendo il suddetto concetto, la Guardia Nazionale a operare in Medio Oriente e nei Balcani.
Oltre alle Forze Armate, il Presidente detiene il pieno controllo della politica estera statunitense essendo responsabile, tramite il Dipartimento di Stato e il Dipartimento della Difesa, della protezione dei cittadini statunitensi (anche all'estero) e degli stranieri sul territorio degli Stati Uniti. Oltre a essere a capo della diplomazia statunitense, il Presidente ha il potere di negoziare e firmare i trattati internazionali che poi devono essere ratificati dal Senato con maggioranza qualificata di due terzi, oltre alla possibilità di riconoscere nuove nazioni e governi.
Simili ai trattati, perché consistono in un accordo del Presidente con uno o più governi stranieri, sono i cosiddetti executive agreement. Tali accordi, che evitano la procedura di ratifica da parte del Senato, da alcuni autori sono considerati dei veri e propri trattati di diritto internazionale e sono stati utilizzati dalla presidenza statunitense, per esempio, per regolare la presenza di forze militari degli Usa in una certa regione, come quelli conclusi con il Giappone[28] o con l'Iraq[29] (accordi che prendono il nome di "status of forces agreement", SOFA, e che differiscono dall'occupazione militare). Tuttavia il loro utilizzo ha sollevato (e solleva tuttora) numerose critiche, anche perché sono uno strumento che da diversi anni viene sempre più impiegato per regolare le relazioni internazionali degli Stati Uniti senza il vaglio del Senato.[30] Una sorta di controllo (anche se successivo) è stato comunque introdotto: entro 60 giorni dalla loro conclusione, il Presidente ha l'obbligo di notificarli al Congresso; termine che poi è stato ridotto a 20 giorni dal Case Act.
Il Presidente degli Stati Uniti ha anche un certo peso sul potere giudiziario e sull'amministrazione della giustizia. Innanzitutto al Presidente è consentito nominare i giudici federali, inclusi i giudici membri delle Corti d'appello e della Corte Suprema. Tuttavia, per avere efficacia, tali nomine devono passare il vaglio del Senato: un "contrappeso" che la Costituzione prevede allo scopo di evitare che il Presidente possa nominare tranquillamente giudici di suo gradimento per la loro posizione politica e ideologica. Occorre sottolineare, inoltre, la presenza di una consolidata convenzione costituzionale che prende il nome di Senatorial courtesy. In breve, i senatori appoggiano l'opposizione espressa da uno dei senatori dello Stato in cui il funzionario nominato andrà a esercitare la sua funzione, bloccando in tal modo la nomina presidenziale.[31] Tale convenzione costituzionale "non scritta" vale soprattutto per la nomina dei giudici delle Corti distrettuali.
Un altro potere di cui può avvalersi il Presidente è la concessione della "grazia" (pardon) a condannati per crimini puniti da una legge federale (a esclusione dei casi di impeachment): una facoltà che solitamente il Presidente adotta alla fine del suo mandato, non senza sollevare polemiche in qualche caso: il più noto è forse quello della grazia concessa da Gerald Ford all'ex-presidente Richard Nixon dopo che quest'ultimo si era dimesso a seguito dello scandalo Watergate (Ford venne fortemente criticato anche perché graziò Nixon soltanto un mese dopo essere diventato Presidente).[32][33] Il Presidente ha inoltre la possibilità di amnistiare un certo numero di reati.
Come capo dello Stato, il Presidente si trova nella posizione di mantenere degli usi e delle tradizioni che lo vedono protagonista. Se ne citano alcune:
Il Presidente degli Stati Uniti è rappresentato da uno stemma ufficiale, che lo accompagna in tutte le apparizioni pubbliche.
Lo stemma presidenziale è composto dal Grande sigillo degli Stati Uniti d'America, su sfondo blu e circondato da cinquanta stelle bianche che rappresentano gli Stati dell'Unione, all'interno di un bordo dorato recante la scritta "- SEAL OF THE PRESIDENT OF THE UNITED STATES -".
Cominciò a essere utilizzato già dal 1850 anche se non regolato con legge. Sarà istituito ufficialmente con gli Ordini esecutivi 11916 e 11649, che ne determinano e ne regolano l'uso pubblico; sarà modificato dal Presidente Truman nel 1945 con l'Ordine esecutivo 9649.
La Casa Bianca è la residenza ufficiale del presidente e sede del suo ufficio personale, lo Studio Ovale.
Situata a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue NW, la sua costruzione iniziò nel 1792 e venne inaugurata nel 1800, sotto la presidenza del neoeletto Thomas Jefferson (sebbene il primo inquilino ufficiale fosse stato George Washington, che tuttavia morì mentre ancora si stava completando il tetto).
Nel corso degli anni è stata ristrutturata e ampliata più volte.
Camp David è la seconda residenza presidenziale ufficiale, posta nel Catoctin Mountain Park, nella Contea di Frederick nel Maryland. Svolge essenzialmente il ruolo di residenza di campagna del presidente e della sua famiglia: si tratta comunque di una installazione militare, infatti il suo nome ufficiale è Naval Support Facility Thurmont e il personale è rappresentato principalmente da membri della marina statunitense e dei marine.
Costruita tra il 1935 e il 1938, fu adottata nel 1942 come residenza ufficiale dall'allora presidente Franklin Delano Roosevelt con il nome di Shangri-La (l'immaginario paradiso himalayano descritto da James Hilton nel suo romanzo Orizzonte perduto). Nel 1953 il presidente Dwight Eisenhower ne mutò il nome in quello attuale, in onore del padre e del nipote, entrambi chiamati David.
Essa è anche nota sede di incontri diplomatici tra Stati Uniti e altre nazioni: si ricordino per esempio gli accordi di Camp David, siglati tra Israele ed Egitto nel 1978.
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