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epistola filosofica di Epicuro Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La Lettera a Meneceo, anche nota come Lettera sulla felicità, è il testo più famoso di Epicuro, di carattere morale.
Lettera a Meneceo | |
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Altri titoli | Lettera sulla felicità |
Busto di Epicuro (Pergamonmuseum, Berlino) | |
Autore | Epicuro |
1ª ed. originale | III secolo a.C. |
Genere | epistola |
Sottogenere | filosofica |
Lingua originale | greco antico |
Nelle poche pagine che compongono l'epistola[1], il filosofo affronta i temi centrali della sua filosofia per quanto riguarda l'etica e la metafisica: la ricerca della felicità, la paura della morte, la natura degli dèi, la classificazione dei piaceri.
Dopo l'esordio con l'esortazione a praticare la filosofia, unica vera fonte della felicità,[2] Epicuro passa ad analizzare le cause dell'infelicità, e ribadisce le quattro massime che compongono il cosiddetto tetrafarmaco.
Per spiegare le ultime due massime, che riguardano piacere e dolore, Epicuro deve prima analizzare i diversi tipi di desideri e piaceri.
La questione legata ai desideri viene posta da Epicuro come introduzione al tema dei piaceri. I desideri vengono così classificati:[5]
Il criterio per discriminare i diversi desideri è la natura, la quale pone dei limiti fisici ben stabiliti. Se dunque si devono assolutamente saziare i desideri naturali necessari, bisogna però avere moderazione con quelli non necessari ed evitare quelli vani, perché inutili e portatori di infelicità.[6]
Solo tenendo presente la precedente classificazione dei desideri è possibile decidere quali azioni compiere, al fine di sopprimere i turbamenti e perseguire una vita beata.
Epicuro parte dalla determinazione della natura dell'uomo, riconoscendo che suo fine e principio è il piacere: il bene consiste nel realizzare questa natura e quindi nel perseguire il piacere. Il piacere, a sua volta, è privazione di dolore: ciò significa che non è possibile aumentarne l'intensità all'infinito, e soprattutto che piacere e dolore sono nettamente opposti.[7] Non tutti i piaceri però devono essere ricercati, ma valutati in base a vantaggi e svantaggi che possono procurare. Il filosofo distingue due tipi:
Bene sommo è l'autosufficienza (autarkeia), ovvero il sapersi accontentare di poco, così da essere liberi dal bisogno, e quindi dal dolore. Il piacere, in ultima analisi, è infatti «assenza di dolore nel corpo, assenza di perturbazione nell'anima».[8] A fondamento della virtù e della felicità è allora la saggezza (phronesis), la quale si orienta di norma verso i piaceri catastematici. La condizione del saggio epicureo, scevro da ogni dolore e turbamento, è pertanto paragonabile a quella di un dio:
«[...] vivrai come un dio fra gli uomini. Poiché in niente è simile a un mortale l'uomo che vive fra beni immortali.»
Epicuro rifinisce questa lettera con grande accuratezza, a differenza delle altre (per le quali vale la condanna sul suo stile espressa unanimemente dagli antichi): infatti articola i periodi in cola dal ritmo parallelo e regolare, usando anche la regola di Isocrate di evitare lo iato [9].
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