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francescano italiano (XVI secolo) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Camillo Renato, pseudonimo di Paolo Ricci, conosciuto anche come Lisia Fileno (Sicilia, 1500 circa – Caspano, 1575 circa), è stato un francescano ed eretico italiano.
Il suo vero nome era Paolo Ricci,[1] era siciliano e nacque forse a Palermo[2] o a Lentini[3] nei primi anni del Cinquecento.
Fattosi frate francescano, negli anni Venti si trovò a frequentare i circoli evangelici valdesiani di Napoli, trasferendosi poi a Padova[4] e a Venezia dove, tra l'altro, avrebbe sostenuto l'inesistenza del purgatorio: «accusato da maldicenti di eresia, fui detenuto, inquisito, non convinto, non condannato, non abiurai a nessun patto e fui dimesso».[5]
Uscito indenne da questo processo, rimase a Venezia frequentando probabilmente il monastero benedettino di San Giorgio Maggiore, dove circolavano idee riguardanti il beneficio della morte di Cristo per l'umanità, portate avanti da Benedetto Fontanini e Marcantonio Flaminio, che saranno manifestate e difese anche da Camillo Renato nei prossimi anni.[6]
Ormai tornato allo stato laicale, verso la fine del 1538 passò da Venezia a Bologna, con l'intenzione di recarsi più tardi a Roma per «consultarsi con alcuni reverendissimi e dottissimi cardinali per la gloria di Cristo e per la comune concordia e interesse di tutta la Chiesa».[7]
Nella città emiliana assunse lo pseudonimo di Lisia Fileno[8] come vezzo letterario e senza l'intenzione di nascondere la sua vera identità, che infatti rimase nota. Frequentò i circoli intellettuali,[9] nei quali amava discorrere di lettere, di religione e di filosofia morale. Egli stesso fa i nomi di questi notabili bolognesi: gli umanisti Leandro Alberti, Romolo Amaseo e Achille Bocchi, Francesco Bolognetti, amico di Marcantonio Flaminio, che diverrà senatore, il cavaliere Giulio Danesi, dei tre figli del quale il Fileno era precettore e ad essi dedicò tre dei suoi Carmina, il conte Cornelio Lambertini, il patrizio Alessandro Manzoli, grande amico del cardinale Jacopo Sadoleto.[10]
In questi conviti liberali il Fileno esprimeva la necessità di «istituire una nuova vita degna del tempio dello Spirito Santo e di Dio»: non era infatti bene seguire la vita della carne, ma quella dello spirito, e «mostrare carità verso i poveri, umanità fra gli uomini, fraternità, misericordia e umiltà nel correggere i peccati altrui, e osservare le leggi dello Stato».[11] L'accento è posto soprattutto sulla presenza che nella vita del cristiano deve avere lo Spirito, una sottolineatura che esclude la pratica di qualunque superstizione: «Come cristiano, io di questo solo mi curo, di eliminare le superstizioni che annullano la fede di Cristo».[12] La superstizione rappresenta per il Fileno «una vana e falsa religione che certamente attiene anche a una mancanza di fede: infatti negli Atti Paolo chiama gli Ateniesi superstiziosi, ossia falsamente religiosi, e agli Efesini ricorda che il culto degli angeli è una superstizione. La superstizione è un delitto non contro la seconda tavola del Decalogo, che riguarda la carità, ma contro la prima, che attiene alla fede».[13]
La distinzione qui introdotta tra violazione della legge della fede e legge della carità equivale alla distinzione tra superstizioso ed eretico: il primo si pone fuori dal cristianesimo, come furono i pagani ateniesi o gli adoratori di falsi culti ricordati da Paolo, e come può essere «un Giudeo o un Turco», il secondo invece «pensa e crede di rimanere nella fede pur dicendo di trovare in essa molti errori»,[14] ma negare certe verità contenute nella Scrittura non significa negare la fede in Cristo. Per questo motivo, «il superstizioso è un infedele più detestabile di un eretico».[15]
La prima «superstizione e abominazione», secondo il Fileno, è l'opinione, molto diffusa tra i cristiani e persino tra i sacerdoti, è che la messa sia un nuovo e reale sacrificio per i peccati, anziché la memoria dell'unico sacrificio di Cristo:[16] si tratta di un argomento sviluppato da Lutero ne L'abolizione delle messe private, un opuscolo posseduto e letto dal Fileno, come dovrà ammettere al processo che subì a Ferrara alla fine del 1540, «ma solo allo scopo di confutarlo».[17] La sua difesa al processo consistette nel negare che il rito della messa fosse in sé una superstizione, evitando tuttavia di pronunciarsi sul merito del valore oggettivo del sacramento, e nel sottolineare invece che la messa è fatta oggetto di superstizioni che impediscono al cristiano di trasformare la sua fede in carità.[18]
A Bologna, nel febbraio del 1540, aveva dato pubblicamente dell'ignorante[19] a un predicatore agostiniano che teneva un sermone quaresimale nella chiesa di San Giacomo. Denunciato da quest'ultimo e invitato a comparire davanti all'inquisitore di Bologna, il Fileno cercò dapprima di farsi giudicare da Agostino Zanetti, vicario del vescovo e poi dal cardinale Bonifacio Ferrero, legato di Bologna, ma senza riuscire nell'intento a causa di una persistente malattia di quest'ultimo. Si sottrasse infine all'interrogatorio dell'inquisitore lasciando Bologna.[20]
Fermatosi a Modena, vi si rese popolare entrando in contatto con i letterati e con il circolo protestante della città, e prendendo le difese dei contadini oppressi dalla miseria. Per ordine del duca di Ferrara e su richiesta dei domenicani di Bologna, Fileno fu arrestato il 15 ottobre mentre era ospite degli amici Tommaso e Anna Carandini nella loro villa della Staggia,[21] presso Nonantola, e trasferito nelle prigioni di Modena.[22] [23]
Il 13 novembre fu trasferito a Ferrara, dove si tenne il processo, condotto dall'inquisitore di Bologna, il domenicano fra Stefano Foscarara, che ebbe per consultori i giuristi ferraresi Ludovico Silvestri, Lanfranco Gessi da Lugo e Giacomo Emiliani, il carmelitano fra Giovanni Maria Verrati e i domenicani fra Andrea da Imola e fra Girolamo Papino da Lodi.[24]
Il tribunale ascoltò quaranta testimoni, provenienti da Bologna e da Modena, dalle cui dichiarazioni derivarono quattro accuse sostanziali imputate a Lisia Fileno:
1. che la fede sia fondata unicamente sulla Scrittura, discussa e interpretata liberamente da ciascun fedele;
2. che la salvezza sia unicamente scelta divina, non dovuta a meriti personali;
3. che tutte le anime muoiano o si addormentino con la morte del corpo, salvo rinascere o risvegliarsi con la resurrezione dei corpi nel giudizio finale, e che pertanto
4. non esista il purgatorio e siano vane le invocazioni ai santi e inutili tutte le pratiche liturgiche.[25]
L'imputato, che forse fu detenuto nel convento domenicano degli Angeli, sede dell'Inquisizione di Ferrara, si difese in quattro interrogatori, tenuti dal 12 al 14 dicembre 1540, e con l' Apologia, una lunga memoria stesa tra la seconda metà di novembre e la prima decade di dicembre, trascritta in più copie una delle quali, l'unica a noi pervenuta, fu consegnata ai giudici. In essa, Fileno ammise di aver letto Lutero, ma per confutarlo, e cercò di giustificare i propri errori eventuali con l'obiettiva difficoltà di riconoscere la verità nella materia teologica. Utilizzò a proprie fonti Scoto, Tommaso d'Aquino, Erasmo e persino, ma in modo strumentale, l' Enchiridion locorum communium adversos Lutheranos del controversista cattolico Johann Eck.[26]
Il suo tentativo non sfuggì ai giudici, che lo ritennero eretico e, con l'eccezione di Girolamo Papino, favorevole a una pena mite, meritevole del rogo. La massima pena gli fu evitata per un riguardo al duca Ercole e sostituita con il carcere a vita. Nell'abiura a cui Fileno fu costretto, pronunciata nelle mani dell'inquisitore Foscarara e di Ottaviano de Castello, vicario del vescovo di Ferrara Giovanni Salviati, si evidenziarono le eresie attribuitegli: che «l'homo ha el libero arbitrio così al ben come al male operare», che il purgatorio esiste, che le anime dei santi e dei giusti defunti «sono entrate in cielo a fruire le delicie del paradiso», che i santi si possono invocare come nostri intercessori, che è obbligatorio ascoltare la messa, confessare i peccati ai sacerdoti e osservare i digiuni.[27]
Fu condotto in processione per le strade di Ferrara con in testa un berretto che lo denunciava come eretico e poi rinchiuso nelle carceri del castello. Nel maggio del 1541 fu trasferito nel carcere di Bologna da cui riuscì a fuggire in un giorno imprecisato del 1542 e in circostanze mai chiarite. Rifugiatosi in Valtellina, secondo una tradizione non sicura in compagnia dell'umanista Celio Secondo Curione,[28] vi assunse definitivamente il nome di Camillo Renato.
Da Tirano, il 9 novembre 1542, Camillo Renato scrisse ad Heinrich Bullinger, capo della chiesa riformata di Zurigo e il maggior teologo svizzero del tempo. In quella sua prima lettera Renato, che dichiarava di essere stato spinto a scrivere da Curione, amico di Bullinger, si limitò ad accennare alle sofferenze patite in carcere, senza dare mostra delle sue opinioni radicali.[29] Nella successiva corrispondenza, rifiutò sempre l'utilizzo della parola "sacramento", preferendo a essa quella di "segno", perché tanto i cattolici quanto i protestanti interpretavano il sacramento come un giuramento di conferma o ratifica, da parte della chiesa e del credente di quanto in realtà era già stato confermato da Dio attraverso lo Spirito.[30]
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