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La battaglia del Baetis Superiore è il nome che viene convenzionalmente dato a una serie di tre scontri principali e altri meno importanti che vennero combattuti fra le forze romane e quelle cartaginesi nei dintorni del fiume Baetis (il moderno Guadalquivir).
Battaglia del Baetis superiore parte della seconda guerra punica | |||
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La conquista romana della Spagna: il n. 6 indica il luogo della battaglia del Baetis superiore | |||
Data | 212 a.C.[1]/211 a.C.[2] | ||
Luogo | fiume Guadalquivir - Spagna | ||
Esito | Vittoria dei Cartaginesi | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
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Voci di battaglie presenti su Wikipedia | |||
I Cartaginesi, per meglio controllare il territorio, avevano diviso l'esercito in tre parti comandate da Asdrubale Giscone, Magone e Asdrubale Barca (questi due, figli di Amilcare detto Barca ("Fulmine") e fratelli di Annibale). I Romani erano comandati da Publio Cornelio Scipione e Gneo Cornelio Scipione, rispettivamente padre e zio del (poi) più famoso Publio Cornelio Scipione Africano.
Dopo la sconfitta al Ticino i due fratelli Scipioni avevano avuto il comando delle forze in Spagna.[8] L'importanza della guerra in Spagna, per Roma derivava dalla forza che questi possedimenti davano alla nemica Cartagine. Dalla penisola Iberica, la città punica derivava ingenti quantitativi di metallo, soprattutto stagno necessario al bronzo per gli armamenti e reclutava grandi quantità di forze armate terrestri fra volontari e alleati forzosi.[9]
In Spagna la seconda guerra punica si trascinava da un paio d'anni in scaramucce di poca consistenza e l'azione romana era servita soprattutto a impedire l'invio di aiuti ad Annibale in Italia.[10] Infatti non solo dalla Spagna non si erano inviate truppe, molte forze cartaginesi furono deviate dal teatro bellico italico a quello iberico. Come ci dice Tito Livio:
«cum biennio ferme nihil admodum memorabile factum esset consiliisque magis quam armis bellum gereretur.»
«nello spazio di circa due anni non si era compiuto assolutamente nulla che fosse degno di essere ricordato e la guerra veniva condotta più al tavolino che sul campo.»
Nel 212 a.C.[1] (o nel 211 a.C.[2]) i generali romani decisero di intraprendere una campagna decisiva nel tentativo di porre fine alla guerra in Spagna. Per questo gli Scipioni ritenevano di essere dotati di forze sufficienti avendo arruolato, nel corso dell'inverno, oltre ventimila celtiberi da aggiungere alle forze più propriamente romane. Fu così che riunirono i loro eserciti dopo essere usciti dai quartieri d'inverno (hiberna).[11]
I Cartaginesi avevano disposto le loro truppe in tre armate principali: le forze comandate da Asdrubale Barca, quelle guidate di Magone e dall'altro Asdrubale, figlio di Giscone, che si trovavano a circa cinque giorni di marcia dai Romani.[6] Asdrubale Barca era più vicino, accampato presso la città di Amtorgi.[12]
Gli Scipioni ritenevano di avere forze superiori a quelle di Asdrubale e che quindi fosse da attaccare per primo. Volevano, tuttavia, evitare di spaventare gli altri due comandanti punici poiché in caso di vittoria romana, Magone e il collega non si ritirassero in luoghi impervi iniziando una sorta di interminabile guerriglia.[13] Fu così deciso di dividere l'esercito romano in due armate. La prima, composta da due terzi dell'esercito, era guidata da Publio Cornelio e doveva attaccare Magone e Asdrubale di Gisgone; le forze romane rimanenti, rinforzate dai Celtiberi, dovevano muovere contro Asdrubale Barca. Tutto l'esercito si diresse prima verso il campo di Amtorgi poi, mentre Gneo vi si fermava, Publio continuò la marcia per raggiungere Magone e Asdrubale Giscone.[14]
Quando Asdrubale si accorse che negli accampamenti romani l'esercito di Gneo Scipione era di scarsa consistenza[15] e che
«spem omnem in celtiberorum auxiliis esse, peritus omnis barbaricae et praecipue earum gentium in quibus per tot annos militabat, perfidiae, [...] per occulta conloquia paciscitur magna mercede cum celtiberorum principibus un copias inde abducant.»
«ogni speranza era riposta nelle truppe ausiliarie dei Celtiberi, ben conoscendo la slealtà dei barbari nel loro complesso e in particolare di tutti quei popoli tra i quali stava passando tanti anni a combattere, [...] nel corso di colloqui segreti pattuisce con i capi dei Celtiberi, mediante un notevole compenso, che portino via di là le truppe.»
I Celtiberi abbandonarono così i Romani. E la cosa sembrò loro naturale, avendo ricevuto un compenso talmente elevato, che sarebbe bastato a convincerli di combattere a fianco dei Cartaginesi; invece fecero ritorno alle loro abitazioni.[16] Scipione, trovatosi improvvisamente in grave svantaggio numerico, non potendo né combattere né ricongiungersi al fratello iniziò una lenta ritirata cercando di non offrire facili occasioni di attacco ai Cartaginesi che lo seguivano.[17]
In quegli stessi giorni Publio Cornelio Scipione era assillato da un pericolo altrettanto grande e nuovo. Come Annibale al Ticino con Maarbale, Asdrubale scatenò sulle truppe di Publio Scipione la cavalleria numidica del giovane alleato Massinissa (o Masinissa). Il principe numida non lasciò tregua al comandante romano, impedendo che i soldati si allontanassero dal campo in cerca di foraggio cibo e legna, né di giorno né di notte, senza essere costantemente attaccati.[18] Addirittura Massinissa e i suoi cavalieri attaccarono il campo romano e
«Noctibus quoque saepe incursu repentino in portis valloque trepidatum est, nec aut locus aut tempus ullum vacuum a metu ac sollicitudine erat Romanis, compulsique intra vallum, adempto rerum omnium usu.»
«di notte spesso, per i suoi assalti improvvisi, sulle porte e presso il vallo regnò lo spavento, e non c’era luogo o momento alcuno in cui i Romani non fossero in preda a paura o in allarme, e perciò essi furono ridotti a stare entro il vallo, impediti di servirsi di tutto.»
I Romani si trovavano così sotto assedio.[19]
A peggiorare la situazione, i Romani sapevano che stava giungendo Indibile con i suoi 7.500 Suessetani, pronto ad unirsi alle forze dei Cartaginesi.[19] Publio Cornelio, comandante cauto e previdente, fu costretto a prendere una decisione temeraria, quella di attaccare di notte il capo ispanico per eliminare questo pericolo e poter sperare di riuscire a fronteggiare Asdrubale.[20] Lasciato al campo (presso Castulo, l'attuale Linares) un piccolo presidio al comando di Tiberio Fonteio, Publio Cornelio attaccò nottetempo la colonna di Indibile e probabilmente avrebbe avuto la meglio se, all'improvviso, non fosse sopraggiunto Massinissa.[21] L'attacco della cavalleria numidica costrinse i Romani a frenare l'azione e, come colpo finale, alle spalle di Scipione arrivarono le truppe cartaginesi. L'accerchiamento fu completo.[22]
«Pugnanti hortantique imperatori, et offerenti se ubi plurimus labor erat, latus dextrum lancea traicitur. [...] Fuga confestim ex acie, duce anisso, fieri coepta est [...] nec superfuisset quisquam, ni praecipiti iam vesperum die nox intervenisset.»
«Il comandante, mentre combatte ed esorta, e si espone là dove si è più in difficoltà, è trafitto al fianco destro da una lancia[3] [...] Perduto il comandante, ebbe immediatamente inizio la fuga dal campo di battaglia [...] e non sarebbe sopravvissuto nessuno, se, volgendo ormai il giorno alla sera, non fosse intervenuta la notte.»
I Cartaginesi non persero tempo, cercando di trarre il massimo profitto da quella fortunata circostanza. Dopo un breve riposo, a marce forzate si ricongiunsero alle forze di Asdrubale Barca, nella certezza di poter concludere la guerra, una volta unite le loro forze.[23] Gneo Cornelio, pur non avendo ancora avuto notizia della disfatta subita dagli uomini di Publio, notò che i nemici erano aumentati notevolmente di numero. Tanto che per supposizione e ragionamento egli era propenso a sospettare una sconfitta del fratello, piuttosto che a sperare in una sua sorte favorevole. Si domandava infatti in quale modo Magone e Asdrubale di Gisgone fossero riusciti a ricongiungersi al suo avversario diretto, senza combattere, se non a seguito di aver portato a termine la loro guerra con Publio.[24] Gneo Cornelio, pieno di ansietà anche per la sorte del fratello, decise che la miglior soluzione fosse quella di ritirarsi quanto gli era possibile. In una sola notte, senza che il nemico se ne accorgesse, percorse un discreto tratto di strada. All'alba, quando i Cartaginesi si accorsero che i Romani erano partiti, ancora una volta mandarono avanti i Numidi di Massinissa ad attaccare la colonna romana e a ritardarne il cammino. La notte successiva i cavalieri Numidi raggiunsero i Romani, assalendoli alle spalle e ai fianchi, obbligando Scipione a incitare i suoi a combattere e nello stesso tempo a procedere nella marcia, prima di essere raggiunti dalla fanteria.[25] Alla fine Scipione dovette fermare la marcia e si attestò su una collinetta brulla e spoglia (non lontano dall'antica città di Ilorci o Ilorca, l'attuale Lorca[5]) dove i Romani, collocati in mezzo i bagagli e la cavalleria, la fanteria disposta intorno, riuscirono a difendersi dagli attacchi di Massinissa.[26] E pensando a quando ai Numidi si sarebbero aggregati di lì a poco anche i tre eserciti dei comandanti cartaginesi, Scipione capì che i Romani avrebbero avuto scarse possibilità di difendersi. Iniziò così a considerare la possibilità di creare una trincea per difendersi dal nemico.[27]
«Sed erat adeo nudus tumulus et asperi soli ut nec virgulta vallo caedendo nec terra caespiti faciendo aut ducendae fossae aliive ulli operi apta inveniri posset; nec natura quicquam satis arduum aut abscisum erat [...] Ut tame aliqua imaginem valli oblicerent, clitellas inligatas oneribus velut struentes ad altitudinem solitam circumdabant, cumulo sarcinarum omnis generis obiecto ubi ad moliendum clitellae defuerant.»
«Ma l’altura era a tal punto brulla e di terreno così scabro, che non si potevano trovare né arboscelli atti a tagliarne pali, né terra adatta a farne zolle o a scavarvi un fossato o ad alcun’altra opera di fortificazione, e la conformazione naturale del luogo non si presentava in nessun punto abbastanza scosesa o dirupata [...] Per opporre, tuttavia, a difesa una qualche parvenza di palizzata, disponevano tutt’intorno, come se stessero erigendone una, fino a raggiungere l’altezza consueta, i basti legati ai loro carichi, mentre i bagagli di ogni tipo venivano ammassati a opporre un riparo laddove eran venuti a mancare i basti per la messa a punto.»
Giunti i tre comandanti cartaginesi insieme alle forze di fanteria. Spinsero le loro armate su per la collina incoraggiando gli uomini a superare quello strano e quasi inutile apparato. E dopo pochi sforzi infatti, i Cartaginesi usando dei pali, riuscirono a smuovere quella fragile barriera in molti punti, ad annullare le difese romane e a invadere il campo. In pochi e assaliti da molti, i soldati romani cedettero e si diedero alla fuga. Molti furono uccisi ma la maggior parte trovò rifugio nel campo di Publio Cornelio che era presidiato da Tiberio Fonteio.[28]
«Cn. Scipionem alii in tumulo primo impetu hostium caesum tradunt, alii cum paucis in propinquam castris turrim perfugisse; hanc igni circumdatam, atque ita, exustis foribus quas nulla moliri potuerant vi captam, omnesque intus cum ipso imperatore occisos. Anno octavo postquam in Hispaniam venerat, Cn. Scipio undetricensimo die post fratris mortem est interfestus.»
«Tramandano alcuni che Gn. Scipione fu massacrato sull’altura all’inizio dell’assalto nemico; altri, che trovò scampo con pochi in una torre vicina all’accampamento; che a questa fu appiccato fuoco tutt’intorno e così, essendo state con il fuoco distrutte le porte che nessun assalto era valso a sfondare, essa fu presa e tutti, all’interno, compreso il comandante stesso, furono trucidati. Gn. Scipione fu ucciso sette anni dopo la sua venuta in Ispagna, ventotto giorni dopo la morte del fratello.[3]»
Gli ispanici provavano cordoglio e rimpianto per la perdita dei due generali, soprattutto per Gneo che più a lungo li aveva governati e che prima del fratello aveva guadagnato la loro fiducia, dando loro per primo la testimonianza della giustizia e della moderazione dei Romani.[29]
«Cum deletis exercitus amissaeque Hispaniae viderentur, vir unus res perditas retituit. Erat in exercitu L. Marcius Septimi filius, eques romanus, impiger iuvenis, animique et ingenii aliquanto quam pro fortuna in qua erat natus maioris.»
«Allorquando sembrava che gli eserciti fossero stati annientati e le Spagne perdute, un solo uomo rimise in sesto la situazione disperata. C’era nell’esercito il cavaliere romano L. Marcio figlio di Settimo, giovane energico, e di coraggio e di ingegno molto più elevati di quel che comportasse la condizione nella quale era nato.»
Lucio Marcio Settimo, grazie all'esperienza raccolta sotto Gneo Scipione, riuscì a raccogliere le disperse forze romane, a ricongiungersi al presidio di Tiberio Fonteio e a guidare i Romani oltre l'Ebro dove fortificarono gli accampamenti (probabilmente a sud e non molto distante da Tarraco[5]) e vi trasportarono i rifornimenti. Le truppe romane, radunate nei comitiis militaribus lo elessero comandante supremo all'unanimità.[30]
All'avvicinarsi di Asdrubale di Giscone, i Romani, in preda all'ira ed al furore, ricordandosi quali comandanti poco prima avevano avuto, afferrarono le armi e si precipitarono alle porte ad assalire il nemico incauto che avanzava in schiere disordinate.[31] L'imprevista situazione gettò nel panico i punici che non si aspettavano di trovare forze romane tanto numerose e organizzate, dal momento che l'esercito romano era quasi distrutto. Si chiesero poi chi fosse il comandante degli accampamenti ora che i due Scipioni erano stati uccisi. Davanti a tante circostanze così inattese, si ritirarono inizialmente stupefatti, poi respinti da un assalto violento dei Romani, si diedero alla fuga.[32]
«Et, aut fugientium caedes foeda fuisset, aut temerarius periculosusque sequentium impetus, ni Marcius propere receptui dedisset signu [...] Inde in castra avidos adhuc caedisque et sanguinis reduxit.»
«E o sarebbe stato orribile il massacro dei fuggitivi o imprudente e rischioso lo slancio degli inseguitori, se Marcio non si fosse affrettato a dare il segnale della ritirata [...] Poi li ricondusse nell’accampamento bramosi ancora e di strage e di sangue.»
I Cartaginesi, come videro che nessuno li inseguiva, rientrarono al loro campo, sottovalutando le forze avversarie che ritenevano i semplici resti di due eserciti pesantemente sconfitti. Marcio, fatte le debite esplorazioni e notando una scarsa vigilanza da parte dei Cartaginesi, concepì il piano di dare l'assalto agli accampamenti nemici del solo Asdrubale, piuttosto che attendere di essere assediato dagli eserciti riuniti dei tre comandanti cartaginesi.[33]
Il comandante romano allora arringò i soldati (adlocutio) e li avvisò che li avrebbe condotti in un assalto notturno al campo di Asdrubale.[34] Il resto della giornata venne impiegato a preparare le armi e a curare i corpi, mentre la maggior parte della notte fu dedicata a riposare. Alla quarta vigilia le schiere romane partirono (Quarta vigilia movere).[35]
Una coorte di fanti e la cavalleria furono nascoste in un bosco che si trovava in una vallata profonda, fra il campo di Asdrubale e quello di altre forze cartaginesi, posto circa sei miglia più lontano (9 km circa).[36] Il resto delle truppe romane fu condotto, con una marcia silenziosa, verso il campo nemico più vicino. Poiché non vi erano né guardie né sentinelle i Romani entrarono nel campo cartaginese come se fosse il proprio.[37]
«Inde signa canunt et tollitur clamor. Pars semisomnos hostes caedunt, pars ignes casis stramento arido tectis iniciunt, pars portas occupant un fugam intercludant. [...] (Hostes) Incidunt inermes inter catervas armatorum. Alii ruunt ad portas, alii, obsaeptis itineribus, super vallum saliunt. Et ut quisque evaserat, protinus ad castra altera fugiunt, ubi ab cohorte et equitibus ex occulto procurrentibus circumventi caesique ad unum omnes sunt.»
«Squillano poi i segnali e si leva il grido di guerra. Alcuni fanno strage dei nemici semiaddormentati, altri appiccano le fiamme agli alloggiamenti ricoperti di paglia secca, altri ancora occupano le porte onde sbarrare la fuga. [...] Disarmati, [i nemici] incappano in mezzo a schiere di armati. Alcuni si precipitano alle porte, altri, essendo sbarrati i passaggi, balzano al di sopra della palizzata. E man mano che ciascuno era riuscito a fuggire, senza fermarsi corsero in fuga verso l’altro accampamento, e nel dirigersi là furono accerchiati e uccisi tutti fino all’ultimo dalla coorte e dai cavalieri che balzavano loro contro dal luogo in cui stavano nascosti.»
Fermati i fuggiaschi, le forze romane si diressero verso l'altro campo, dove molti dei Cartaginesi erano usciti per cercare foraggio, legna e cibo. Qui trovarono ogni posizione ancor più trascurata e abbandonata. Eliminati i soldati che erano fuori dal campo o alle sue porte, i Romani si avventarono all'interno dove però trovarono una resistenza più accanita. La battaglia sarebbe stata lunga e dura se, alla vista degli scudi insanguinati dei Romani, i Cartaginesi non si fossero dati alla fuga, comprendendo che già c'era stata una battaglia a loro sfavorevole.[38] Tutti tranne quelli che rimasero uccisi, furono cacciati fuori dal campo. Marcio in una notte e un giorno fu padrone di entrambi gli accampamenti cartaginesi[4][39] e venne acclamato dux.[40]
Tito Livio ricorda che, secondo l'annalista Claudio Quadrigario che tradusse dal greco Acilio, furono uccisi circa 7.000 nemici, ne furono catturati 1.830 e fu conquistato un enorme bottino.[41] Fra gli oggetti predati vi era anche lo scudo d'argento del peso di 137 libbre (quasi 45 chilogrammi) con l'effigie di Asdrubale Barca.[42] Questo trofeo, denominato scudo Marzio, rimase sul Campidoglio fino all'incendio del tempio.[43]
Secondo invece Valerio Anziate fu preso il solo campo di Magone con 7.000 nemici uccisi e con una seconda battaglia fu preso il campo di Asdrubale con 10.000 nemici uccisi e 4.330 prigionieri.[44] Riferisce infine che, secondo Lucio Calpurnio Pisone Frugi, furono uccisi in un agguato 5.000 nemici, mentre Magone inseguiva i Romani in ritirata.[45] Dopo questo successo, peraltro messo in dubbio da parte di alcuni storici moderni,[46] sembra che le cose in Spagna si calmarono per qualche tempo, poiché entrambe le parti esitavano a compiere una prima mossa, dopo tante disfatte subite e prodotte alla parte avversa.[47]
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