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L'archivio storico, secondo la teoria e la legislazione italiana, è la terza e ultima fase della vita dell'archivio.
Un archivio diventa storico dopo quaranta anni di deposito di documenti, durante i quali vanno gradualmente ad affievolirsi fino a pressoché estinguersi gli interessi di natura pratica, contabile, amministrativa e giuridica degli atti in esso contenuti; d'altro canto dopo quaranta anni si considera ormai maturato un interesse di tipo culturale e storico, per questo l'archivio viene messo a disposizione di terze persone mosse da fini di studio.
La vita dell'archivio è scandita da una fase di formazione nel presente (l'archivio corrente), una fase di transito (l'archivio di deposito) ed una fase finale, senza scadenza temporale (l'archivio storico, appunto). Questa impostazione deve una sua prima formulazione agli studi del teorico seicentesco Baldassarre Bonifacio, sviluppata e arricchita fino ai giorni nostri.
Secondo la legislazione italiana, vi sono varie modalità per cui un documento venga versato in un archivio di concentrazione: se il materiale proviene dagli organi periferici dello Stato, si occuperà dello smistamento tra documenti[1] da scartare e da versare la Commissione di sorveglianza locale tramite l'analisi del valore diretto e indiretto di quel documento ad opera dell'archivista inviato dall'Archivio di Stato competente; se il materiale proviene da altri soggetti produttori (enti pubblici territoriali ed enti privati), la regola è che i primi abbiano un locale dove destinare il materiale archivistico destinato alla conservazione secondo il massimario di scarto; i secondi, invece, possono far versare il loro archivio tramite varie modalità (comodato, cessione, donazione), dopo che questi è stato valutato e analizzato dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica competente[2].
Un archivio per passare alla fase storica deve aver subito lo scarto archivistico: gli archivi di Stato ad esempio non accettano materiale da scartare, anche perché nella fase storica lo scarto è vietato, salvo una complessa procedura che richiede l'autorizzazione ministeriale[3].
Talvolta usati come sinonimi, questi due termini esprimono dei concetti nettamente diversi[4]:
Ordinamento: è l’organizzazione che il soggetto produttore dà all’archivio corrente e di deposito basata quindi sulle sue esigenze e necessità.
Riordino: è l’intervento di un archivista esterno che deve rimettere in ordine un archivio (nella storia secondo il principio di pertinenza e, poi, secondo quello di provenienza/metodo storico).
La prima operazione da compiere su un archivio storico è quindi quella del riordino del materiale, che serve per dare ai documenti la loro disposizione definitiva (almeno in linea teorica). Il principio a cui ispirarsi durante il riordino non è sempre stato il medesimo, anzi vi sono state varie scuole di pensiero con alterne vicende, che hanno centralizzato l'attenzione del dibattito sulla teoria e metodologia archivistica almeno dalla metà del XVIII secolo[5]. Schematizzando si sono avuti tre principi fondamentali:
Il principio di pertinenza è frutto dell'impostazione illuminista[6]: prevede la divisione della documentazione secondo un titolario di classificazione per materie, intervenendo pesantemente sull'ordine originario e distruggendo i criteri di organizzazione nati durante la fase di formazione dell'archivio. Tale metodo nacque, in sostanza, sulla base delle esigenze governative che avevano il bisogno di trovare subito e immediatamente una certa tipologia documentaria senza dover tener conto del soggetto produttore che ha creato l'archivio in questione[7]. Formulato a Vienna dall'archivista Johann Georg Obermayer, fu imposto dal cancelliere Kaunitz all'archivista Ilario Corte (1725-1786)[8] che, divenuto responsabile degli archivi governativi sedimentati al Castello Sforzesco (1781)[9], operò una loro riorganizzazione sulla base della pertinenza (o materia) senza però giungere a smembrare tali archivi.
Il metodo introdotto da Ilario Corte fu continuato poi da Luca Peroni (1745-1832, direttore degli archivi imperial-regi governativi dal 1820 al 1832) il quale, già nel 1798, propose al governo della Repubblica Cisalpina una radicalizzazione del metodo per materia giungendo a smembrare gli archivi e a fonderli sulla base della materia trattata, mettendo in tal modo serio pericolo l'organicità della documentazione, fino a minacciare la sopravvivenza del vincolo archivistico[10]:
«Nel giro di poco tempo egli [Peroni, n.d.r.] riuscì dove il suo predecessore [Bartolomeo Sambrunico, n.d.r.] aveva fallito, smembranodo in maniera irrimediabile molti dei fondi giunti in San Fedele dopo le riforme del 1786, con il conseguente scarto di un'ingente mole di documenti, ritenuta ormai del tutto inutile, e l'avvio di una prima generale suddivisione delle scritture condotta sulla base di titoli dominanti molto simili a quelli previsti da Corte nel progetto del 1781.»
Tale metodologia, che sopravviverà a Milano fino al mandato di Luigi Osio (1851-1873) e in parte sotto quello di Cesare Cantù (1873-1895), fu definitivamente bandita da Milano con la direzione di Luigi Fumi e l'imposizione del rispetto dei fondi propugnato dal Manuale degli archivisti olandesi[11].
Il principio di provenienza nacque già alla fine del Settecento in opposizione al principio di pertinenza. Per la prima volta venne applicato in Danimarca nel 1791, dalla Commissione per l'Ordinamento degli Archivi Camerali, e poi venne usato in Germania dal 1816, con riconoscimento formale dal 1819 quando l'Accademia di Berlino consigliò di abbandonare il metodo di pertinenza in favore di questo[12]. La definitiva consacrazione come modello di ordinamento archivistico avvenne però con la circolare del Ministero dell'Interno francese dell'aprile del 1841 (le cosiddette instructions del 24 aprile), quando il governo accolse le richieste dello storico Natalis de Wailly di procedere al respects du fonds[13]. In sostanza, tale principio impone il rispetto dei fondi, cioè dell'organizzazione data all'archivio dal soggetto produttore.
«Prima regola dunque: rispettare il fatto; seconda: ristabilirlo, ove si trovasse alterato»
Il metodo storico nacque in Italia, in particolare in Toscana, grazie all'intervento dell'archivista livornese Francesco Bonaini (1806-1874), ed è ancora oggi il metodo basilare per la gestione degli archivi[14]. Il metodo storico, che dalla citazione introduttiva si può intendere come un'ulteriore elaborazione del principio di provenienza, come espresso in una nota al Ministero dell'Istruzione del 1867 dello stesso Bonaini, mette al centro dell'attenzione di chi riordina la storia del soggetto produttore[15], inquadrata nel contesto storico-istituzionale sia generale che locale. Il vero lavoro dell'archivista diventava così lo studio del soggetto produttore, della sua struttura e della sua storia, che doveva essere riportata in un'introduzione storico-istituzionale alle carte, secondo quanto definito da Paola Carucci
«I documenti che compongono un archivio vengono posti in essere secondo un determinato ordine che è quello dato dall'ente stesso che li produce [...] L'archivista, chiamato a riordinare l'archivio, deve ricostruire, e se possibile ripristinare, l'ordine originario secondo cui l'ente che aveva prodotto quei documenti aveva provveduto a classificarli e ad articolarli in serie, perché dalla ricostituzione di quell'ordine originario già discende una prima e fondamentale possibilità di informazione relativa all'organizzazione e alle funzioni dell'ente.»
Il metodo storico, come già detto, è stato accolto in generale nel sistema archivistico non solo italiano, ma anche internazionale[16]. Oltre al manuale degli archivisti olandesi del 1898, il metodo storico è fatto proprio da Giorgio Cencetti. Questi, ne Il fondamento teorico della dottrina archivistica (1939), descrive il metodo storico come l'unico metodo per la vita degli archivi, sia dalla fase corrente a quella storica, in quanto è il garante della sacralità del vincolo archivistico che si viene a creare tra soggetto produttore ed archivio stesso[17].
Nel corso dei decenni successivi, però, si sono levate varie voci critiche non tanto verso il metodo storico in sé, quanto verso la sua attuazione radicale, ovvero la ricostruzione del fondo a partire dalla storia dell'archivio:
Oggi è in corso un dibattito su eventuali nuove metodologie da applicare al riordinamento archivistico, soprattutto a fronte dell'introduzione delle tecnologie informatiche e della globalizzazione che inevitabilmente coinvolge anche il settore archivistico. Al momento non esiste ancora una posizione univoca su questo argomento e il problema fondamentale è innanzitutto riuscire a capire la sopravvivenza del vincolo e la durata negli anni dei supporti informatici, se siano cioè in grado di garantire la conservazione delle informazioni anche per le generazioni future. L'esperienza sull'argomento non è ancora sufficiente a fornire risposte certe.
Secondo il metodo storico, l'archivista incaricato della fase di riordino deve seguire una serie di procedure volte al corretto riordinamento dell'archivio in questione in rapporto all'organizzazione data dal soggetto produttore. Tale fase di riordino è articolata nelle seguenti fasi:
In base allo stato di pulizia in cui si trova il fondo, l'archivista è solito affidarsi a ditte specializzate nel restauro dei documenti, le quali si baseranno sulle operazioni di spolveratura dei documenti o dei fascicoli con pennelli di setola morbida e, talvolta, con l’ausilio di un aspirapolvere a bassa velocità.
Nel frattempo, è fondamentale che l'archivista studi e ricostruisca l'identità del fondo, sia nella sua dimensione istituzionale (quindi la nascita, l'evoluzione, i possibili mutamenti che il soggetto produttore ha subito nel corso degli anni), sia in quella archivistica (ovvero la sua struttura, se è stata rimaneggiata precedentemente e quindi risalire, ove possibile, all'ordine originario)
Compiuta la fase preliminare, l'archivista deve cercare di capire se il fondo è stato creato da uno o più soggetti produttori e, qualora risulti una confluenza della provenienza fisica e di quella archivistica di due soggetti produttori che non hanno niente a che fare fra di loro, separarli. Per esempio, la questura di Milano versa all'Archivio di Stato di Milano l’archivio del commissariato di Lambrate: la questura sarà la provenienza fisica da cui l'archivio del commissariato di Lambrate proviene (provenienza archivistica).
Generalmente la denominazione coincide con il nome del soggetto produttore, ma vi possono essere altre possibilità: l'adozione dell’ultima denominazione utilizzata (se v'è stata); la denominazione utilizzata per più tempo; la denominazione più antica e la più recente legate entrambe dal “poi”.
Individuati i possibili fondi mischiati e le varie unità archivistiche e documentarie, si opera l'attività di schedatura preliminare di queste ultime, attività che consiste nello:
Nel concreto, una scheda preliminare riporta:
Alla fine dell’attività di schedatura, l'archivista procede alla ricostruzione “sulla carta” (secondo la definizione data da Paola Carucci) del fondo archivistico, ovvero la ricostruzione del fondo in modo virtuale attraverso la consultazione delle schede e, da lì, partire all'ultima ricostruzione della struttura del fondo data dal soggetto produttore.
Dopo aver ricostruito la struttura del fondo “sulla carta”, l'archivista applica l’ordinamento “sulle carte”, spostando la documentazione e mettendola nel giusto ordine in base alla ricostruzione effettuata nella ricostruzione "virtuale".
Conclusa la ricostruzione fisica del fondo, è necessario operare il condizionamento delle unità archivistiche: se i vecchi contenitori (cartelle, faldoni, scatole, etc...) sono in buono stato, li si conservano anche perché sono forniti di segnature, diciture ed etichette; se invece sono in pessimo stato, li si sostituiscono con dei nuovi, evitando di usare materiali dannosi quali materiali acidi (plastica, carte colorate) e cartoni.
Le unità di condizionamento devono poi essere numerate attraverso un numero di corda, ossia un numero identificante l'unità all'interno del fondo, di tipo progressivo qualora il fondo sia "chiuso", ovvero non riceva più materiale in quanto il suo soggetto produttore ha smesso di operare. Se invece il fondo è "aperto", si numererà per serie e non per unità di condizionamento, lasciando aperta la serie in cui si aggiungeranno, in futuro, le unità archivistiche aventi per oggetto lo stesso affare (per esempio, il fondo "prefettura" continuerà a ricevere materiale sulla base delle Commissioni di sorveglianza).
L'ultima operazione consiste nell'etichettare i contenitori riportando le indicazioni del fondo, la serie (ed eventuali sottoserie) e le unità archivistica in essi contenute.
Alla fine del riordino, bisogna far sì che ci sia uno strumento di ricerca, ossia l’inventario, basato sulla schedatura preliminare.
Il censimento è uno strumento di ricerca che ha caratteristiche definite e che descrive più fondi dello stesso tipo non necessariamente ordinati. Strumento propedeutico per interventi successivi, il censimento ha finalità gestionali, ossia deve individuare l’esistenza, la consistenza e lo stato di conservazione degli archivi oggetto dell’intervento.
I dati per effettuare il censimento sono i seguenti: 1) la denominazione dell’Archivio e del soggetto produttore; 2) l’ubicazione / recapiti del conservatore; 3) consistenza anche di massima della documentazione; 4) lo stato di conservazione (il censimento è il primo strumento che ci permette di capire come si trova la documentazione); 5) estremi cronologici; 6) mezzi di corredo disponibili; 7) bibliografia.
L'elenco archivistico è una descrizione del materiale archivistico in un archivio, sia esso ordinato o non ordinato. Vi sono riportati un numero progressivo per ciascuna unità archivistica, la consistenza di ognuna di queste unità, la loro tipologia, il contenuto e gli estremi cronologici. Un elenco può essere analitico (quando le unità archivistiche sono riportate e descritte una per una), sommario (con le unità raggruppate in più serie) o misto. Si hanno, a seconda della finalità per cui sono redatti, elenchi di consistenza (per meri fini conoscitivi), di versamento, di deposito, ecc.
La guida archivistica fornisce informazioni più generali su un archivio o su un insieme di archivi, analizzando quindi le suddivisioni alte. Vi si trovano la denominazione dell'archivio o dell'istituzione che lo possiede, l'indirizzo e tutte le notizie per accedervi; brevi notizie storiche sul soggetto produttore e la storia della raccolta; cenni sull'illustrazione delle serie archivistiche; una sezione descrittiva, dove brevemente si elencano le serie col titolo, la consistenza e gli estremi cronologici; un apparato critico con la bibliografia archivistica specifica; un indice dei fondi. Si distinguono le guide "generali" (su ambiti territoriali molto vasti), da quelle "specifiche" (su singoli archivi o soggetti produttori), "topografiche" (per luoghi) e "tematiche". Nel sistema archivistico italiano il modello di guida è quello dato dalla Guida generale degli Archivi di Stato italiani, realizzato tra il 1966 e il 1981 e avente come fine la descrizione storico-istituzionale di tutti gli Archivi di Stato italiani e dei loro rispettivi fondi.
L'inventario è la massima espressione del lavoro archivistico, tanto che Eugenio Casanova lo definì «l'ultimo e necessarissimo ferro del mestiere». È il più complesso e articolato dei mezzi di corredo e, in sintesi, vede esposti in maniera estesa gli elementi che nelle guide sono esposti solo sinteticamente. Per scrivere un inventario bisogna avere una conoscenza molto profonda delle carte di un archivio, le quali devono essere già state riordinate.
L'inventario si espleta seguendo alcune fasi operative delineate nella seconda metà dell'Ottocento da Salvatore Bongi, allievo del Bonaini. Bongi dichiarò che per la redazione di un inventario sono necessari una ricerca storica (generale e locale) e istituzionale, una conoscenza approfondita del soggetto produttore (storica, istituzionale, burocratica) e, infine, delle vicende dell'archivio dalla formazione a oggi.
Il catalogo descrive dettagliatamente tutte le unità documentarie. I documenti descritti non appartengono allo stesso fondo e sono scelti e descritti come singoli oggetti, in base alla forma o al contenuto, indipendentemente dal contesto di provenienza.
Gli standard archivistici, ossia le «norme elaborate dal Consiglio internazionale per gli Archivi per la descrizione archivistica (ISAD.G) e per la descrizione dei soggetti produttori (ISAAR-CPF)», sono strumenti fondamentali e necessari per qualunque tipo di lavoro archivistico che si intende avviare. Questi standard si possono suddividere in due grandi categorie:
Inoltre, gli standard per essere efficienti devono avere delle determinate caratteristiche:
L'ISAD(G) è lo standard “base” più diffuso. Fornisce indicazioni di ordine generale per l’elaborazione di descrizioni del patrimonio archivistico indipendentemente dalla tipologia o dal supporto. Prevede il rispetto dei fondi e la descrizione a più livelli (multilevel description), dal generale al particolare. Prevede il collegamento tra le descrizioni e l’attribuzione adeguata delle informazioni al livello descrittivo pertinente, evitando ripetizioni. Non fornisce indicazioni specifiche per materiali speciali (ad esempio i sigilli, le registrazioni sonore o i materiali audiovisivi).
L'ISAAR fornisce Indicazioni per individuare i soggetti produttori e descriverli autonomamente dai complessi archivistici. Gli elementi descrittivi sono diversi a seconda della tipologia di soggetto produttore (ente, famiglia, persona).
Un aspetto fondamentale della gestione degli archivi storici è quello della consultabilità, che è la finalità stessa per la quale l'archivio viene conservato. L'accesso è regolato da varie disposizioni di legge, a seconda delle finalità e del tipo di archivio.
Negli archivi di Stato e negli Archivi storici di enti pubblici la fruizione è garantita per tutta la documentazione tranne i documenti dichiarati di carattere riservato e relativi alla politica interna o estera dello Stato, per i quali si devono attendere cinquant'anni dopo la loro data[22]. Inoltre la legge sulla privacy[23] allunga i tempi per la consultazione di documenti con dati sensibili e con dati relativi a provvedimenti di natura penale: quarant'anni per i dati inerenti all'adesione ad idee razziali, politiche, religiose, filosofiche, ecc.; settant'anni per la consultazione dei cosiddetti “dati sensibilissimi”, vale a dire quelli concernenti lo stato di salute, la vita sessuale e i rapporti famigliari di tipo riservato[24]. Esiste comunque una procedura per consultare documenti riservati che necessita dell'approvazione del Ministero dell'Interno, udito il parere del direttore dell'Archivio di Stato competente e della Commissione per la consultabilità dei dati[25]. In caso di autorizzazione concessa quei documenti non possono comunque essere diffusi[26]. Un procedimento analogo, con il parere del Soprintendente archivistico, esiste per i documenti delle Regioni[27].
Il D. Lgsl. 22 gennaio 2004, n. 42, con una disposizione innovativa, ha previsto anche i modi per consultare, con finalità storiche, gli archivi di deposito e correnti[28], secondo i regolamenti emessi dagli stessi enti proprietari degli archivi.
Per gli archivi privati dichiarati di notevole interesse storico, gli studiosi hanno diritto di accedervi se viene accettata dal Soprintendente archivistico una richiesta motivata, secondo le modalità concordate con i privati e il Soprintendente stesso, con spese a carico dello studioso.
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