Antiquitatum variarum volumina XVII
falsificazione storica del frate domenicano Annio da Viterbo / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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Gli Antiquitatum variarum volumina XVII ("Diciassette volumi di antichità varie")[2] sono una poderosa opera scritta da Annio da Viterbo (pseudonimo umanistico di Giovanni Nanni) e pubblicata a Roma presso il tipografo Eucharius Silber nel 1498 sotto il titolo originale di Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium ("Commentari sulle opere di diversi autori che parlano di antichità"), accompagnata da lettera dedicatoria ai reali cattolici di Spagna, Ferdinando e Isabella. L'opera, che si presenta come una silloge di antichissime cronache ritrovate di recente dall'autore, accompagnate dal commento del compilatore, si è rivelata in seguito essere una complessa e ingegnosa falsificazione ordita dall'erudito frate domenicano, che si acquistò così la fama di falsario[3].
Antiquitatum variarum volumina XVII | |
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Titolo originale | Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium |
Frontespizio degli Antiquitatum variarum volumina XVII in una ristampa del 1515[1] | |
Autore | Annio da Viterbo |
1ª ed. originale | 1498 |
Genere | trattato |
Lingua originale | latino |
Nota anche come Antiquitates variae (Antichità varie), o anche come Antichità di Annio, la compilazione intendeva costruire un supplemento alla cronologia biblica e proporre una visione radicalmente innovativa della storia universale, una narrazione venata di miso-ellenismo, in cui la tradizione caldea e aramea veniva direttamente connessa e riconciliata con le radici della storia d'Europa, scavalcando e mettendo da parte l'intera tradizione culturale e storiografica greca, derubricata a cosa vana, erronea e favolistica.
I precoci sospetti adombrati da alcuni studiosi sulla sua genuinità non impedirono all'opera di riscuotere una grande fortuna, con numerose edizioni a stampa, anche in lingua volgare. A travolgerne la credibilità non bastò nemmeno il definitivo svelamento della reale natura di quella colossale falsificazione, a cui si giunse nel secolo successivo alla pubblicazione: gli effetti nefasti di quel testo si protrassero, infatti, fino al XVII secolo (ne fa uso, ad esempio, Athanasius Kircher, seppure in maniera contraddittoria e paradossale[4]) e, in misura occasionale, anche fino al XVIII secolo. Questo strascico prolungato ha costretto gli studiosi seri a dover ripetutamente ritornare sulla dimostrazione della falsità dell'opera, senza poterla dare per scontata[5]. Non è mancato, infine, neppure in epoca novecentesca, un vano e disperato quanto improbabile tentativo di riabilitazione da parte di un appartenente al suo stesso ordine domenicano[6].
Il fertile sforzo inventivo dispiegato negli Antiquitatum variarum volumina XVII fa di Annio un autentico creatore di miti, in grado di esprimere, con mezzi simbolici, il disagio e la crisi culturale di un'epoca[7].
Infatti, la complessità di questa azione di revisionismo storico non è equiparabile a una semplice "falsificazione", ma mette in movimento un processo creativo di "reinvenzione simbolica di tradizioni", in un modo che fosse in grado di toccare a fondo le "corde [...] della sensibilità del tempo", come dimostra la "vasta e tenace fortuna" che il lavoro di Annio era destinato a incontrare in tutta Europa[8].
Varie e divergenti sono infine le congetture formulate sulle finalità programmatiche e ideologiche dell'operazione culturale (se ve ne furono) o sull'eventuale movente psicologico. Sulle ipotesi variamente postulate (miso-ellenismo, campanilismo, servilismo nei confronti di Rodrigo Borgia e della sua famiglia, ma anche semplice pazzia, oppure ingenua autentica convinzione) non si è coagulato consenso unanime tra gli studiosi.