Dall'intervista di Giuseppina Manin, corriere.it, 22 luglio 2017.
Mio padre ci lavorava [alla Lux Film] come proiezionista. A sette anni ero in cabina con lui, vedevo tutti i film. Cercavo di capire la storia dalle immagini, visto che il sonoro era solo in sala. L’amore per il cinema è nato lì.
Fu Camillo Bazzoni, direttore della fotografia che mi aveva preso come assistente, a farmi capire che il cinema è un'arte che si nutre di altre arti. Mi spinse a leggere Pavese e Faulkner, ad ascoltare Mozart e Beethoven. Andai in crisi, mi chiusi in casa per un anno a studiare di tutto. Finché Bazzoni mi scosse: "Devi ripartire, a costo di tornare indietro. C'è un giovane di Parma che sta per iniziare un film. Vai a incontrarlo».
In un certo senso è stato così. Un giorno, ero in piazza Navona, entrai in una chiesetta che non conoscevo, San Luigi dei Francesi. Mi avvicinai a una nicchia e quel che vidi, La vocazione di San Matteo di Caravaggio, mi cambiò la vita. Il taglio di luce che percorreva quel dipinto stravolgente separava l’umano dal divino. Tutti i miei film successivi sono stati segnati da quella rivelazione. La scena di Apocalypse Now, quando Brando-Kurtz emerge dalle tenebre, l’ho girata pensando a Caravaggio, rimandando il più possibile lo svelamento del volto.