Tenney Frank

storico statunitense Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito

Tenney Frank (1876 – 1939), storico statunitense.

Storia di Roma

Incipit

Le orde di Celti, Goti, Vandali e Longobardi le quali in tempi storici invasero l'Italia offrono un esempio di quello che la penisola deve avere sopportato durante le varie migliaia di anni che precedettero la fondazione di Roma. L'ottimo clima e la lussureggiante vegetazione del suolo, assai più ricca di quella del Mediterraneo orientale, hanno sempre attirato eserciti di migranti dall'inclemente settentrione. E quando ciascuna orda di invasori fu divenuta indolente sotto la snervante influenza dell'ambiente, a sua volta dovette cedere il posto ad una popolazione più intraprendente non ancora snervata.

Citazioni

Volume primo

  • Numa, giusta la tradizione, fu il secondo re di Roma eletto dal popolo. Egli mantenne la pace e organizzò culti religiosi e il sacerdozio. (Storici recenti hanno osservato che il calendario ufficiale delle feste, compilato molti secoli appresso da Giulio Cesare, distingueva con caratteri più grandi i nomi degli dei e delle feste che derivavano da un calendario molto antico, manifestamente appartenente a un popolo primitivo di agricoltori. I Romani quindi avevano ragione di ritenere che un antico legislatore avesse organizzato il culto e fatto un calendario dei giorni sacri. Può darsi anche che essi avessero ragione nell'attribuire a Numa quest'opera). (vol. I, cap. II, pp. 26-27)
  • Tullo Ostilio, il terzo re di Roma, è rappresentato come un re bellicoso e aggressivo; egli conquistò Alba Longa, che unì a Roma. (Anche in questa leggenda vi è del vero, sebbene sia probabile che il nome sia inventato. Noi possiamo tuttavia essere certi che una città latina non avrebbe mai attaccato e distrutto un'altra città appartenente a tribù latine senza esservi spinta da un re straniero. Roma certamente infranse la lega latina e s'impadronì di buona parte del territorio di essa in una maniera simile a quella che si può dedurre dalle narrazioni liviane. L'impresa si può spiegare soltanto considerandola promossa da qualche re etrusco di Roma). (vol. I, cap. II, p. 27)
  • Anco Marzio, il quarto re, continuò la conquista del Lazio e per attirare il traffico in Roma, costruì un porto ad Ostia, alla foce del Tevere. (Ancora una volta la leggenda riproduce un fatto reale. Le città etrusche situate al nord del Tevere prendevano larga parte al commercio, ed è probabile che esse abbiano tentato di portare Roma nella stessa corrente. Gli scavi di Ostia hanno recentemente rivelato delle fondamenta che sembrano risalire al periodo regio). (vol. I, cap. II, p. 27)
  • [La battaglia di Canne] Nell'estate del 216 Annibale era a Cannae in un'aperta pianura dove poteva adoperare vantaggiosamente la sua cavalleria. Egli inoltre scelse la sua posizione in maniera tale che i Romani avessero in faccia lo scirocco, forte vento di sud-est che domina generalmente nell'estate. La pianura è arenosa, cosicché il vento poteva divenire molto incomodo. Varrone non conosceva altra strategia che quella di ammassare le truppe in profondità e spingerle direttamente avanti; in tal modo, sebbene egli avesse 80 mila uomini, il suo esercito aveva potenza di gran lunga minore, giacché gran parte veniva impiegata a far massa e non per la lotta. Mentre i Romani si lanciavano avanti, Annibale fece che il suo centro cedesse incurvandosi così da infrangere le falangi romane; poi disperdendo le ali romane con una brillante carica di cavalleria, gettò le proprie ali, tenute sinora nascoste, contro i fianchi destro e sinistro dei Romani e mandò la propria cavalleria a rinchiuderli alle spalle. L'esercito di Varrone era ormai nient'altro che una massa accerchiata, in gran parte rinserrata sul centro ed impossibilitata anche a combattere. (vol. I, cap. VII, p. 157)
  • Polibio afferma, cosa che difficilmente può essere creduta – infatti questo scrittore non è favorevole a Varrone – che 70 mila Romani perirono quel giorno [nella battaglia di Canne]. Annibale a quanto pare non diede quartiere. Tra i morti vi furono Paolo, Minucio, Servilio e 80 uomini di grado senatorio. Appena 10 mila soldati si salvarono. Si narra che un gruppo di giovani nobili riusciti a fuggire disperarono talmente di Roma che pensarono di cercare rifugio in Grecia o in Oriente. Il giovane Scipione, colui che quattordici anni dopo doveva diventare l’eroe della guerra andò da loro e li costrinse a prestare giuramento che non avrebbero abbandonato Roma. (vol. I, cap. VII, pp. 157-158)

Volume secondo

  • [Tito Lucrezio Caro] Il grande poema sulla natura (De rerum Natura) espone in esametri le importanti dottrine della filosofia epicurea. Il poeta tenta di spiegare la natura atomica della materia, la composizione materiale dell'anima, la natura dei processi mentali, l'evoluzione del sistema planetario e la più recente evoluzione delle istituzioni sociali. Quanto alla materia, Lucrezio è un ortodosso seguace di Epicuro, cosicché il suo libro può sicuramente essere usato come guida per arrivare al maestro. Tuttavia quello che gli ha guadagnato lettori non è tanto la sua precisa esposizione della filosofia materialistica quanto il suo spirito e la sua arte. (vol. II, cap. XVIII, p. 15)
  • Il materialismo è stato chiamato una filosofia prosaica: non lo si direbbe di certo leggendo Lucrezio. Per lui era la forza vitale e l'energia dell'atomo quello che contava; e seguendo quest'energia atomica attraverso la natura pulsante sino all'uomo, egli aveva gettato un ponte sull'abisso tra la natura e l'uomo. (vol. II, cap. XVIII, p. 15)
  • Sin dal momento della «decadenza e caduta» di Roma, l'unico «impero mondiale» che la storia europea abbia conosciuto, gli uomini hanno sempre tentato di spiegare il disastro. Gli statisti hanno cercato la risposta nella struttura politica di Roma, i moralisti nella condotta del suo popolo, gli economisti nell'«esaurimento del suolo» e nel fallimento del sistema monetario, e simili. Noi dobbiamo riconoscere che una risposta definitiva ed adeguata non si potrà mai dare; le scienze politiche, psicologiche ed economiche, a cui ci rivolgiamo per chiedere i dati, sono al più descrittive. Esse possono dirci come gli uomini e gli Stati si siano comportati, ma non possono fissare leggi invariabili di causa e di effetto in ogni campo dove agisca lo spirito umano. (vol. II, cap. XXI, p. 321)
  • Le cause politiche della decadenza [di Roma] erano gravi e risalivano persino alla condotta dell'antica Repubblica. Gli statisti repubblicani, come quelli di tutti gli Stati moderni, troppo spesso si lasciarono sedurre oltre il limite della prudenza dall'istinto della conquista. Pochi ebbero il coraggio di Catone e di Scipione Nasica, che avevano additato i pericoli dell'espansione. Non si dice con questo che Roma sia stata selvaggiamente aggressiva. Piuttosto, come l'Inghilterra e l'America, essa combatté le sue guerre, comunque sorgessero, con una costanza ostinata fino alla vittoria e quindi, seguendo il naturale istinto umano, normalmente incorporò ciò che trovava a sua disposizione, non sempre valutando le lontane conseguenze del suo atto sulle future generazioni. (vol. II, cap. XXI, p. 322)
  • Roma si sviluppò troppo rapidamente, e troppo oltre il suo potere d'assimilazione. La prima dannosa conseguenza fu che dovette tenere i suoi sudditi per mezzo di eserciti permanenti che presto dominarono il governo e infine dovettero talmente ampliarsi che minarono la sua forza. Se Roma avesse avuto la saggezza, che nessun governo sembra abbia acquistato ancora, di rifiutare i vantaggi che le si offrivano, se, per esempio, avesse resistito alla tentazione di conquistare l'Asia, essa avrebbe potuto lentamente costruire un sano Stato occidentale con frontiere facilmente difendibili, ed avrebbe assimilato ed educato il suo popolo senza l'uso di eserciti permanenti pericolosamente grandi. (vol. II, cap. XXI, p. 322)

Bibliografia

  • Tenney Frank, Storia di Roma (A History of Rome), traduzione di M. Fazio, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1974, ristampa anastatica dell'edizione del 1932, vol. I.
  • Tenney Frank, Storia di Roma, (A History of Rome) traduzione di M. Fazio, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1974, ristampa anastatica dell'edizione del 1932, vol. II.

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