Intervista di Alex Van Buren, la Repubblica, 20 agosto 2009.
Davvero, non so perché l'America si ostini a ignorare la storia, e l'Europa, muta, stia a guardare. In Iraq ricalca gli errori dell'Impero britannico.
Barack Obama, appena eletto, poteva approfittare della novità che egli rappresentava, proporre ad afgani e iracheni un'inversione di rotta. E invece, ecco che segue la strategia militare di Bush.
Obama ha promesso il ritiro delle truppe dal Paese; in realtà queste rimarranno nelle basi militari Usa in costruzione attraverso l'Iraq. L'Impero britannico tentò lo stesso: rimosse i propri soldati dalle città, confinandoli nelle basi, ma fu espulso nel 1958. Accadrà lo stesso: col rischio, in più, che l'Iraq si frantumi in tre protettorati: iraniano al Sud, saudita al centro, israelo-americano nel Kurdistan.
[Sulla Repubblica Islamica dell'Afghanistan] Quelle di oggi sono elezioni farsa. Nessun candidato ha un vero progetto, il malcontento popolare cresce, e solo i Taliban continuano a reclutare. E non lo dico io: ne sono convinti anche i militari.
Intervista di Enrico Franceschini, la Repubblica, 5 settembre 2009.
Due aspetti hanno risvegliato il mio interesse [nel sudamerica] in tempi recenti: l'ascesa al potere, democraticamente, di leader di sinistra che rifiutavano di seguire il vangelo economico di Washington; e il modo distorto con cui venivano rappresentati dai media occidentali.
Oliver è molto affascinante. Sua madre è francese, lui stesso parla bene il francese e direi che è mezzo europeo, ha una mentalità diversa dall' americano, un maggior interesse verso altre culture.
[«Cosa replica a chi [...] giudica [Hugo Chavez] un autocrate populista?»] Chi dice così è poco obiettivo o male informato. Chavez ha indetto più elezioni di ogni altro governo latinoamericano. Ogni volta aveva l'80 per cento dei media locali contro, e ha vinto lo stesso: più democratico di così.
L'unica regione del globo in cui la sinistra è genuinamente di sinistra è l'America Latina, e lì è al potere.
[Su Barack Obama] Preferisco valutarlo per ciò che farà, piuttosto che perché è il primo nero alla Casa Bianca. Il mio timore è che si riveli un presidente debole, un conciliatore che cede alle diverse pressioni. È vero però che all'ultimo summit delle Americhe, diversamente da Bush, ha stretto la mano a Chavez e gli ha promesso che non farà mai niente per rovesciare un leader democraticamente eletto.
L'Italia aveva il più forte partito comunista dell'Europa occidentale. E dopo il 1968, il Pci era sostanzialmente indipendente da Mosca. Per me la sua scomparsa è stata triste, non perché non c'è più il nome "comunista", ma perché ha coinciso con l'arretramento delle forze popolari. Quelle idee sono ancora rilevanti e nel clima attuale di crisi mondiale io spero che trovino uno sbocco.
Il grande limite del comunismo è stato la negazione della libertà, non avere compreso che la democrazia era giusta non solo eticamente ma necessaria al rinnovamento socialista. Senza, il comunismo si è isolato dalla gente e questo spiega perché alla fine è caduto dall'interno, si è autodistrutto. Ma anche il capitalismo ora ha avuto un collasso interiore, motivato dalla sua insaziabile sete di avidità.
L'odierno Islam ha tanti volti, da quello filoamericano della Turchia al fondamentalismo di al Qaeda, da governi moderati ad altri socialdemocratici, ma non vedo forze nuove in grado di portare avanti una vera politica popolare. Il fondamentalismo, però, tramonterà. È motivato dalla mancanza di alternative democratiche e dalla sensazione che il mondo arabo sia stato sfruttato e colonizzato per troppo tempo dall' Occidente.
[Sul Pakistan] È in mano a una classe politica profondamente corrotta e a militari totalmente proni a Washington. È molto deprimente.
Intervista di Roberto Zanini, Ilmanifesto.it, 10 settembre 2021.
È molto chiaro che la guerra al terrore è stata lanciata per rimodellare un mondo a portata di Stati uniti. L’ha detto Bush, l’ha detto Condoleezza Rice, l’ha detto il criminale di guerra recentemente scomparso Donald Rumsfeld… Non hanno usato la parola pretesto, ma l’evento del 9/11 è stato il punto di partenza per cambiare orientamento: non solo diamo la caccia a Bin Laden, ma vogliamo cambiare la struttura di quei paesi.
[Sulla guerra al terrorismo] Sconfitte, sofferenze, milioni di morti e miliardi buttati, e gli Usa si sentono ancora la parte dominante. E i paesi europei non hanno avuto niente di indipendente da dire, giusto qualche rara, leggera critica.
[Sulla guerra al terrorismo] Nessun vincitore. Tranne in Afghanistan, dove i talebani hanno vinto, e Al Qaeda con cui gli Stati uniti collaborano in Siria e in Libia. Ma gli Usa sono certamente i perdenti. E non si può dire che la gente del mondo islamico abbia vinto niente, continuano a soffrire sotto i più diversi regimi come in Siria, in Libia, in Yemen, in Iraq.
Esportare la nostra democrazia non è mai stata un’idea particolarmente buona, è così intrecciata con il grande capitale che banchieri e politici sono quasi indistinguibili in termini di denaro e modo di usarlo, e non cambia granché il fatto che governi il centrodestra o il centrosinistra.
Il modo in cui in l’Occidente ha abbandonato diritti umani fondamentali per la cosiddetta guerra al terrore è stato terribile. Oggi possono prendere chiunque e metterlo in prigione senza processo, si può fare nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati uniti, dove Obama è andato oltre e ha affermato il diritto del presidente di ordinare l’esecuzione di ogni cittadino americano ritenuto una minaccia, un balzo indietro all’impero romano. Questa guerra è stata costosa per i diritti politici dei cittadini occidentali. E per quale sicurezza? Attacchi a Londra, in Francia, in Spagna, a Islamabad in Pakistan, a Mumbay in India… Gli attacchi terroristici sono aumentati, non diminuiti.
Il dominio ottomano fu accettato per una serie di ragioni. Era un impero musulmano con a capo un califfo, e il califfo era riconosciuto come tale in tutta la "casa dell'Islam", con l'eccezione della Persia sciita. Per la maggioranza dei musulmani questo segnò il primo lungo periodo della loro storia in cui ebbero un centro unico di autorità spirituale e temporale. L'islam era penetrato tra le tribù dell'Anatolia subito dopo la sua comparsa. Come i romani avevano imparato dai greci, così i governanti turchi avevano assorbito conoscenze, cultura e tradizioni arabe: la scienza, la religione e l'alfabeto. Queste erano le basi del nuovo impero, e la casa costruita su tali fondamenta era una sintesi di arte, poesia e monarchia assoluta persiane; metod bizantini di amministrazione militare e civile e una generosità tutta nomade che incoraggiava l'assimiliazione. Questa combinazione si dimostrò vincente nel campo della politica, dell'architettura e della letteratura. (pp. 41-42)
In classico stile bonapartista, Qasim a volte usava i comunisti come paraurti contro Nasser e il Ba'ath, e scorrettamente si rivoltava contro di loro quando diventavano troppo esigenti. (p. 69)
Per la RAU, allargarsi rappresentava l'unica via di salvezza. (p. 69)
Se da una parte è vero che, una volta asceso al potere il suo partito, Aflaq si dimostrò incoruttibilie a livello personale, è anche vero che non era immune dall'usare la sua posizione di fondatore per averla vinta anche nelle questioni più banali. (p. 93)
Saddam Hussein e Hafez al-Assad condividevano lo stesso universo politico. Entrambi avevano sconfitto i loro rispettivi radicali; entrambi avevano risollevato le fortune di commercianti e negozianti della classe media; entrambi avevano creato una struttura dove il leader si trovava in cima a una piramide politica ideata per garantire potere totale al despota; entrambi usavano una retorica antimperialista in pubblico, mentre in privato cercavano di ottenere i favori degli Stati Uniti. E nessuno dei due si tirò indietro quando si trattò di effettuare delle repressioni. Saddam distrusse i comunisti e schiacciò i curdi; il suo "collega" siriano ordinò la morte di diecimila persona ad Hammah: fondamentalisti islamici e oppositori laici che si erano ribellati al regime. Ma si comportarono come padrini della mafia rivali, attenti solo a mantenere il loro personale potere. Dal punto di vista politico, erano fratelli ma, come si dice in Italia «fratelli coltelli». (pp. 98-99)
Da parte sua, Saddam Hussein era spinto da desideri contradditori. Da un lato, era preparato a giocare le sue carte con Washington; ognuna delle due parti credeva di usare l'altra per fare i propri interessi. Allo stesso tempo, Saddam Hussein desiderava ardentemente la legittimazione di fronte a tutto il mondo arabo. (p. 106)
[Su Saddam Hussein] Era salito al potere mostrando particolare abilità organizzative all'interno del partito. Era un abile manipolatore, autodidatta nell'arte di dividere i suoi nemici e indebolirli fino a farli andare in pezzi. Aveva fatto questo ai comunisti e ai baathisti rivali e aveva tentato di farlo (non senza successo) con i curdi e i religiosi sciiti. Confidava ora di poter impiegare queste sue abilità a livello globale. Avrebbe giocato con entrambe le superpotenze e avrebbe usato la loro rivalità per trarne profitto. Saddam Hussein non era un intellettuale come Aflaq, né un trascinatore di masse come Fuad al-Rikabi, eppure desiderava disperatamente l'adulazione da parte della gente. Non era neanche originale, in alcun senso della parola. Anche il culto di personalità che egli istituì era modellato su quello di Stalin, Mao e Kim Il-Sung. Ma la persona cui davvero sognava di somigliare era Gamal Abdel Nasser. Il leader egiziano era morto da tempo, ma la sua memoria era ancora onorata dalla gente. Saddam Hussein voleva riempire quel vuoto. (p. 107)
T. Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell'Iraq, traduzione di F. Minutiello, Fazi Editore, 2005, ISBN 88-8112-594-3