Intervista di Sergio Zavoli del 1993, ripubblicata in letture.it, agosto 2002.
Il mondo è preda di una sorta di "complesso di Clodoveo"; al re dei Franchi, San Remigio disse: "Brucia ciò che hai adorato, adora ciò che hai bruciato". Allo stesso modo, oggi, viviamo nella frenesia di sbarazzarci di tutto ciò che non appartiene al nostro presente, cioè al patrimonio cui dar fondo subito, come se al prima e al dopo non corrispondesse che il già consumato o il non ancora consumabile. Ma più ancora preoccupa la tendenza a dimenticare l'altro, a farsi carico solo di sé. Dicono gli economisti che l'orizzonte temporale delle scelte si è di molto accorciato: nessuno investe più sul futuro, nessuno guarda oltre la propria capacità di accumulare e disperdere. La storia di questi ultimi anni è stata un grande, pantagruelico banchetto durante il quale i commensali hanno divorato tutto il possibile, senza badare a chi sarebbe venuto dopo. La stessa riduzione delle nascite significa non volersi più spendere per gli altri, e chiudersi in un egoismo fine a sé stesso.
[Sta cioè cambiando il modo di riconoscere gli altri come «prossimo» nostro?] L'idea di sé e l'idea di prossimo tendono ad avvicinarsi, ma in senso deteriore: riconosciamo il nostro prossimo in chi ci interessa, è legato a noi, alla nostra stessa famiglia, addirittura al nostro clan. Al di fuori di questi àmbiti non c'è soltanto indifferenza, c'è anche paura, sospetto e persino ostilità. In alcuni momenti della storia il rifiuto dell'altro diventa esasperato. Che ciò accada ancora, per il venir meno di sicurezze e vantaggi acquisiti, si credeva, definitivamente, non fa pensare a un tipico fenomeno di razzismo, ma piuttosto a qualcosa che chiamerei, mi passi il termine, "cittadinismo". Come dire una sorta di degenerazione dell'idea di cittadinanza, da cui nasce un abnorme e detestabile impulso difensivo dei propri privilegi contro chi incarna l’immagine stessa della disperazione e della penuria, che si vuole scacciare, tener lontano da sé.
[Per tanti segni sembriamo, è vero, più egoisti; ma poi si scopre che milioni di persone s'impegnano nell'assistenza volontaria ai più deboli. Questa risposta di una parte cospicua della società non dovrebbe indurci all'ottimismo?] Certo, ma senza trarne un'eccessiva lusinga. Anzi, tenendoci a quest'idea: il buono che c'è, sebbene provvidenziale, è pur sempre la risposta a quanto c'è di cattivo. È l'eterno conflitto tra le forze del bene e del male. Pace, uguaglianza, solidarietà, altruismo e amore non sono parte naturale dell'uomo: debbono ogni volta essere perseguiti e raggiunti con impegno e perseveranza, e al tempo stesso difesi dalle forze che vi si oppongono. La pace presuppone la guerra, l'equità la disuguaglianza, il soccorso la miseria, l'altruismo l'amor di sé. La dedizione e il sacrificio di alcuni sono sempre il segno del dolore di altri. Temo che in questo momento la società stia dando segni di sofferenza anche e proprio sul versante dell'impegno richiesto per contrastare le angustie di chi da solo non ce la fa.
[«Sappiamo ciò che siamo», dice Shakespeare, «ma non ciò che possiamo essere». Crede davvero che si viva come in attesa di capire quale direzione dover prendere? E che abbiamo, in ogni caso, libertà di scelta?] Lei richiama un tema caro a Giovanni XXIII: quello di scrutare i segni dei tempi per capire, appunto, dove dirigersi e andare. Esistono desideri dell'uomo, manifesti in tutta la sua storia, che l'hanno orientato verso traguardi di perfezione. Quanto alla libertà di scegliere, essa va intesa nel senso di saper accogliere, o rifiutare, la chiamata insita in quell'anelito. Compio un'azione libera quando in essa trovo qualcosa che mi corrisponde ed è, insieme, parziale perfezionamento di me e del mondo; sono libero di realizzarla tutte le volte che, rifiutando, per ciò stesso scelgo. Poi viene il fare, l'intraprendere. Mettersi all'opera senza chiedere troppe garanzie è credere in ciò che si può fare e quindi va fatto.
Luigi Di Liegro, nato a Gaeta, sette fratelli, figlio di un pescatore poverissimo emigrato otto volte, clandestinamente, in America, è stato il mitico direttore della Caritas diocesana di Roma. Ordinato sacerdote nel 1953, partecipò all'esperienza di Jeunesse ouvrière in Francia e in Belgio, specie fra i minatori della zona di Anversa. A Roma ha affrontato il degrado civile e morale delle periferie, spendendo anni e anni di lavoro metodico, quotidiano, capillare. (Sergio Zavoli)
Nel 1974 fu uno degli organizzatori dello storico convegno voluto dal cardinale Poletti su "I mali di Roma"; ne fece una tribuna per criticare con vigore le carenze dei pubblici poteri nella tutela dei diseredati. A quel dibattito rimase legata l'istituzione della Caritas, che venne subito chiamato a dirigere. In tale veste si è occupato di circa 110 mila extracomunitari, centomila anziani non autosufficienti, migliaia di "barboni" e di zingari, e non si sa di quanti tossicodipendenti e malati di Aids. Ai suoi ordini, solo venti persone, ma gli si fecero intorno oltre quindicimila volontari. (Sergio Zavoli)