Da interviste di Marie-Françoise Allain e Xavier Galmiche nei primi anni novanta compilate da Editions Fayard , riportati ne La Stampa, 1 aprile 1999.
La situazione economica nel Kosovo era estremamente difficile. Era la regione più povera dell'ex Jugoslavia. Non c'era lavoro e molti albanesi, a partire dagli Anni 70, sono andati a lavorare all'estero - in Svizzera, in Germania. Questo ha contribuito a mantenere l'equilibrio sociale. Tra le nostre rivendicazioni, ovviamente, c'era la richiesta di una settima repubblica, richiesta formulata fin dal '68, ma la rivolta era innanzitutto sociale, economica. Solo in seguito si è voluto darle un senso politico. Di fatto, eravamo stanchi della corruzione dei dirigenti comunisti dai quali dipendevano tutti i posti di lavoro. Questa situazione economica difficile spiega in parte anche la partenza di molti serbi verso regioni più ricche, come la Voivodina. Pare che, tra l'81 e il '91, abbiano lasciato il Kosovo in ventimila. Se oggi ci sono dei serbi che lasciano il Kosovo, non è a causa della pressione albanese.
Se in Kosovo scoppia un conflitto, sarà un massacro, una catastrofe per tutti. La situazione dipende dalla Serbia. Forse un giorno la corda si spezzerà e la gente ricorrerà alla violenza, con tutti questi militari e civili serbi molto ben armati. È di là che viene il maggior pericolo. Siamo arrivati al punto in cui non si possono fare manifestazioni pacifiche, perché è troppo pericoloso uscire in strada. Se uccidono cento persone in una volta, il popolo risponderà e sarà preso nell'ingranaggio. E se succede qualcosa, sarà più tragico che in Bosnia e in Croazia. Perché i croati avevan una polizia, una difesa territoriale, esattamente come la Bosnia, mentre noi siamo totalmente privi di difese.
Se [i serbi] vogliono provocare un conflitto, possono sacrificare 20 mila serbi. È una follia, ma possono sacrificarli per ottenere il territorio. Perché adesso pensano in termini di territorio e non di economia e neanche di esseri umani.
Intervista di Amir Taheri, la Repubblica, 19 marzo 1998.
I serbi hanno invaso la nostra patria, hanno ucciso decine dei nostri cittadini, hanno distrutto diverse case e incendiato molti villaggi. Ora propongono il dialogo solo per far credere al mondo che il capitolo sulle stragi è definitivamente chiuso. È del tutto naturale che lo rifiutiamo.
Non rifiuto pregiudizialmente le trattative. Rifiuto che ci venga imposta una determinata situazione con la forza.
Il Kosovo non è serbo e non c'è alcuna ragione per cui debba rimanere all'interno di ciò che è rimasto della Jugoslavia. La stragrande maggioranza del nostro popolo rivendica l'esercizio del diritto all'autodeterminazione. L'unica cosa che ci unisce ai serbi è una lunga storia di terrore e di oppressione. Noi siamo etnicamente albanesi, abbiamo la nostra lingua, la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra religione musulmana. Se dovessimo accettare l'egemonia serba sarebbe come vivere sotto un regime coloniale. Il Kosovo non conoscerà una vera pace fino a quando non otterrà l'indipendenza così come è stato per le altre nazioni che formavano la Jugoslavia.
La nostra battaglia per l'indipendenza è stata esemplare per la sua natura pacifica. Noi ci stiamo preparando per le elezioni non per la guerra. Siamo gli unici tra i popoli della ex-Jugoslavia ad aver scelto la non violenza come una strategia e non per calcoli tattici. Ma nulla potrà costringere un popolo libero a sottomettersi all'oppressore. Se dovessimo impugnare le armi contro i gestori della macchina bellica jugoslava, ci saremmo incamminati sulla strada scelta dai nostri oppressori.
I governi occidentali ci hanno fatto molte promesse in cambio della decisione di rinunciare alla violenza. Ma fino ad ora abbiamo ottenuto solo parole, parole vuote.
Sarebbe un crimine non aiutare qualcuno che si trova in pericolo. E il peggiore dei crimini sarebbe abbandonare un'intera nazione che versa nel pericolo.
Ha dimestichezza con la semiotica acquisita a Parigi girando intorno a Roland Barthes; fisicamente potrebbe essere un barbiere o un professore (nei Balcani si rassomigliano) condannato alla fama eterna. Occhi lucidi e cinquanta chili di peso. Auspica, e per il momento riesce ancora a imporre, la resistenza passiva contro l'esercito serbo e il potere federale sul Kossovo. Ormai ha scartato la pura e semplice «autonomia». (Demetrio Volcic)